QI - Questioni e idee in psicologia - Il magazine online di Hogrefe Editore

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numero 30 - settembre 2015

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In ricordo di Vincenzo Majer

In ricordo di Vincenzo Majer

In ricordo di Vincenzo Majer

Mi telefonava e diceva: “Sei libero stamani? Vengo a trovarti”. E arrivava senza altro preavviso, si sedeva davanti a me e tirava fuori un fogliaccio fitto di appunti dell’incontro precedente. “Questo l’abbiamo fatto, questo anche, questo resta da fare…”. Poi prendeva un foglio nuovo, bianco e steso come un lenzuolo, e cominciava a riempirlo di nuove note e nuovi appunti, corredandoli di schemi, frecce, linee di congiunzione. Erano idee, alcune buone, altre meno, alcune irrealizzabili, altre geniali. Idee sempre nuove, come se la sua mente non potesse riposarsi dal progettare nuovi test, corsi di formazione, interventi per le aziende, collane di libri. E quello che abbiamo realizzato assieme è stato pari solo a quello che non abbiamo realizzato, tante erano queste sue idee. Non restava indietro, non si accontentava di registrare dove la ricerca internazionale andasse, ma ci si buttava dentro, sapendo cosa aveva valore scientifico e cosa era soltanto “di moda”, per portare il proprio contributo applicativo: “Qui l’evidenza è dimostrata, questo serve alle aziende, ma va adattato così e proposto cosà, altrimenti…”, altrimenti era un buco nell’acqua. Ma lui, che conosceva molto bene il mondo delle aziende, i manager – piccoli e grandi – in aula, con la loro diffidenza o prosopopea, il sor parùn delle nostre aziende italiane che mette bocca dappertutto, lui sapeva come rendere la scienza utilizzabile nel quotidiano della vita lavorativa. Curioso di tutto, amante dei libri (ogni volta che veniva in ufficio da me, dovevo pagare un tributo in copie), era avido di novità, di conoscenza. Un esploratore senza sosta, appena arrivato e pronto a ripartire, nella scienza, nell’applicazione, come nei suoi viaggi, che amava condividere (mi chiedo se ha poi realizzato il suo progetto di mettere in piedi quel “club del viaggiatore” nel quale mi voleva coinvolgere). Quando ho saputo della sua morte in Madagascar mi si è stretto il cuore e mi sono domandato se uno come lui avesse preferito essere ricordato come psicologo del lavoro o come viaggiatore. Domanda oziosa! Vincenzo Majer, veneziano, con quella barba elettrica e la profonda onestà del sorriso e dello sguardo, era un marinaio, elegante, ma marinaio, e non aveva timore di navigare verso terre incognite o esplorare nuovi, incogniti campi della psicologia. Questo il destino che si era scelto.

Jacopo Tarantino, Amministratore delegato di Hogrefe Editore

 

Vincenzo Majer (Venezia, 1944 – Antananarivo, Madagascar, 2015) è stato uno dei primi Professori ordinari di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni italiani. Dopo aver insegnato presso l’Università di Padova per venticinque anni, dal 2005 animava la facoltà poi scuola di Psicologia dell’Università di Firenze. Editor della Rivista Risorsa Uomo e autore di molti test, nel corso della sua carriera aveva effettuato numerosi interventi organizzativi ed importanti pubblicazioni contribuendo a far progredire la ricerca scientifica nel settore della Psicologia delle organizzazioni con particolare riferimento ai temi del “clima lavorativo”, “stress lavoro-correlato” e “benessere organizzativo”. Abbiamo chiesto ad alcuni suoi ex-allievi di ricordarlo.

 

Caro Prof. Majer,

ho sempre nutrito una profonda ammirazione per la sua naturale eleganza, nel vestire, nel muovere le mani, nel suo gusto per il bello, perfino nella scelta delle parole, così importanti per noi psicologi. Il suo stile era in qualche modo inconfondibile, veloce, essenziale e lo ha espresso fino in fondo. Andandosene ha lasciato un vuoto profondo tra noi “eterni studenti”, suoi amici e “quasi” colleghi, se ne è andato velocemente, senza darci il tempo di credere davvero a quanto successo. Difficile accettare il fatto che non potremo più parlare, scherzare insieme, con quel senso dell’umorismo sottile un po’ veneto e un po’ fiorentino che riusciva sempre a sdrammatizzare tutto. Con il suo contributo ha segnato la storia delle Psicologia del lavoro e delle organizzazioni italiana; per me è stato un onore poter imparare da uno dei massimi esperti di clima organizzativo e di stress come parlare agli studenti, come rispettare e svolgere la professione di psicologo ed affrontare il mondo della ricerca e della consulenza. Per anni ha insegnato all’Università di Padova, il destino l’ha portata poi a Firenze, ma qualche lapsus di tanto in tanto tradiva una profonda identità veneta. La passione per la ricerca e per la psicologia delle Organizzazioni ha trovato forma anche nella rivista Risorsa Uomo alla quale teneva moltissimo, nonostante le difficoltà e l’impegno che le comportava e di cui qualche volta si lamentava.
Le sarò sempre grata per la profonda fiducia che ha nutrito nei miei confronti, le era sufficiente la mia parola per concedermi la libertà di rappresentarla, di prendere iniziative che normalmente un professore non permette ad uno studente. Il suo atteggiamento stupiva i miei compagni di dottorato, lo consideravano eccezionalmente raro ed avevano ragione, lo era.
Conserverò sempre una profonda gratitudine per questa libertà che mi ha donato durante gli anni in cui è stato il supervisore del mio progetto di ricerca, lei mi ha sempre incoraggiata a proseguire questo cammino che sembrava a tutti un po’ folle, “fondare in Italia uno spin off che si occupa di intelligenza emotiva in un momento di crisi economica?” suonava a dir poco naif, secondo il giudizio di tanti, anche lei a volte mi prendeva un po’ in giro ma in fondo era  incuriosito da questa dottoranda che, come diceva lei, non cessava mai di “fare e sbrigare” e mi ha sempre supportato, accettando di divenire poi supervisore scientifico nazionale PER Lab.
Negli ultimi anni aveva riscoperto una grande passione per i viaggi e rimpiangendo forse qualche periodo del passato in cui non ne aveva potuti fare, m’incitava a non fermarmi, a vivere in maniera intensa questi periodi di ricerca all’estero, affinché non avessi alcun rimpianto a mia volta.
Grazie. Grazie Prof. per avermi fatto crescere, creare e a volte anche sbagliare. Spero sentitamente che il suo comportamento possa rappresentare un esempio per tutti, questo è quello che, a mio avviso, dovrebbe fare un maestro, coltivare negli studenti un amore genuino ed insaziabile per il sapere, per la ricerca, per la curiosità, per il diverso, l’inesplorato, aiutandoli a crescere e ad esprimersi senza porre limiti alle loro visioni ma coltivando la loro creatività, ponendovi solidità anche grazie all’esperienza di “una saggia barba brizzolata”, come la sua.
Quante tovagliette abbiamo scarabocchiato insieme nei ristoranti? La sua penna stilografica verde scorreva insieme alla mia buttando giù idee e disegni sulla mia “idea-tormento del momento”, la ricerca di un acronimo, di un disegno… quante libellule disegnate, chissà dove saranno finite?! Quando piegava poi la tovaglietta in tre parti, quello era il segnale che era ora di andare, di riporre la stilografica nella sua valigetta di pelle color ocra, consunta nel manico ormai marrone, ma sempre bellissima.
Condividevamo molte passioni, il teatro, l’arte, ma soprattutto il viaggio. Ogni volta che qualcuno di noi tornava da qualche esperienza all’estero ci scambiavamo impressioni e suggerimenti, soprattutto attraverso le foto.  Adesso che se ne è andato, l’immagine più vivida che torna alla mia mente è quella delle foto che mi aveva mostrato del deserto di uno dei suoi tanti viaggi, ricordo che mi avevano colpito molto, nella loro semplicità mostravano forme gentili, dolci, colori caldi che solo la natura poteva combinare con tanta armonia. Quando dovevo scegliendo i colori per i loghi del nostro laboratorio le chiesi di inoltrarmele, perché mi avevano fatto sentire “ispirata” e lei mi disse “certo, ti regalo tutti i colori del deserto, coloraci pure il tuo PER Lab!”. Le piacevano i posti caldi, il sole, e in questo momento scuro e freddo per l’ombra della sua perdita, sapere che se ne andato viaggiando in Madagascar mi sembra rappresenti uno spiraglio di luce, che offra un tenue sollievo a questo dolore che sento.
Ricordo quando tornai dagli Stati Uniti, dopo un lungo periodo di dubbi e di ricerca presso Yale, avevo deciso provare a creare il Laboratorio in Italia, a Firenze.
Le raccontai che durante il viaggio di ritorno da New York avevamo avuto una disavventura a causa di una forte tempesta di neve, che tra le persone si era diffusa un po’ di paura ed effettivamente anche il mio solito ottimismo era stato “un po’ traballante” in quella circostanza.  Il pensiero però che mi trovassi lì perché stavo provando a realizzare un progetto al quale tenevo molto mi fece sentire più serena e coraggiosa e le confidai di aver pensato alle note parole “l’importante è che la morte ci colga vivi”.
Quella sera facemmo una delle nostre cene di lavoro al Teatro del Sale, Maria Cassi recitava con passione e dopo pochi minuti l’attrice fiorentina, raccontando di quando aveva deciso di tornare a vivere a Firenze dopo aver lasciato New York, ha citato il medesimo aforisma. Rimanemmo un po’ sconcertati per una coincidenza così particolare, ricordo che mi guardò, sorrise e mi disse “hai proprio ragione, l’importante è che ci colga vivi!”.
Caro Prof., lei ha dato moltissimo a noi studenti e a tutto il nostro settore, era andato in pensione da pochi mesi ma credo che avrebbe avuto ancora molto da dire ed insegnare. Sono contenta, però, che se ne sia andato facendo quello amava fare, viaggiare, circondato dall’affetto dei suoi cari, vivo. In questi anni di collaborazione con la Yale University mi sono abituata, con non poco sforzo, ad essere meno formale con i professori americani, complice la lingua che obbliga ad una comunicazione diretta, non prevedendo l’uso della terza persona. Con lei abbiamo sempre scherzato e non ho mai percepito forti gerarchie, ma per me lei è sempre stato “il Prof. Majer”, non sono mai riuscita a darle del tu, anche se dopo aver conseguito il dottorato mi aveva autorizzata a farlo.
In quest’ultimo saluto desidero eliminare però qualsiasi gerarchia o barriera e dirti semplicemente “ciao Vincenzo, ti ringrazio di cuore, sei stato un grande maestro per me”.

Laura

 

Abbiamo conosciuto il prof. Majer durante l’anno accademico 2002/2003; all’epoca eravamo acerbi studenti del triennio che cercavano di capire quale futuro professionale perseguire tra lontane aspirazioni cliniche e tante ambizioni applicative.
Fu una sorta di folgorazione, fatta di disciplina, rigore e passione per la misura e l’intervento nelle scienze psico-sociali. Di lì la tesi, il Master e i corsi di perfezionamento da organizzare, il dottorato, la ricerca, le pubblicazioni scientifiche e tante occasioni per stare insieme e parlare di tutto ciò che ci accomunava.
Un Maestro vecchio stampo, di quelli che traggono piacere nell’insegnare, e in questa triste occasione ci piace ricordare alcune delle tante “lezioni” apprese che continuano a orientare le nostre attività.
La prima qualità che ci ha voluto trasmettere è stata la fiducia nella pratica professionale. Adottava un principio di delega assoluta, da vivere come un salto senza rete, un tuffarsi in mare aperto per imparare davvero a nuotare. Ti aspettava lì accanto, al tuo ritorno, pronto a chiederti impressioni, vissuti, dinamiche colte e subito a sviluppare i successivi passi. Ha sempre promosso libertà e autodeterminazione, ha sempre voluto collaboratori proattivi, mai burattini da manovrare.
E ci ha sempre ribadito, fino alla fine, che la meta deve essere la ricerca di una soddisfazione personale e generale, star bene con se stessi, con gli altri e con la propria professione. Senza mai sedersi, avere l’ambizione di andare dove solo in pochi vanno, di osare quello che altri non hanno ancora immaginato, guardare sempre oltre al nostro ultimo traguardo. La ricerca è una scoperta e ogni scoperta porta nuovi orizzonti.
Con questo spirito sei anni fa creammo LaBOr, un laboratorio congiunto del Dipartimento di Psicologia, con l’obiettivo di applicare sempre più la ricerca di base nei contesti lavorativi e nel 2013 il laboratorio di psicologia dello sport assieme ad ACF Fiorentina. E oggi che siamo alle prese con la start-up Laborplay, a presentare la domanda di riconoscimento come spin-off dell’Ateneo fiorentino, ripensiamo alla sua “battaglia” per portare innovazione nella gestione delle risorse umane in azienda. E resta solo il rimpianto di non sapere quale progetto, quale “viaggio” aveva in serbo per gli anni a venire.
Poi, anche nei momenti di frustrazione ci ha sempre ricordato che esiste un bisogno sociale di Psicologia e che esistono quindi molte opportunità per gli psicologi. In molti casi dobbiamo confrontarci duramente per far comprendere e accogliere la nostra professionalità, per ritagliarci un posto saldo al momento occupato da altri professionisti. Ma possiamo essere competitivi solo integrando e applicando concretamente le conoscenze che derivano dallo sterminato bagaglio dello psicologo.
In particolare, ed è quanto mai opportuno ricordarlo in questa sede, la capacità di misurare costrutti psicosociali utili al mondo delle organizzazioni. La misura era davvero una delle sue “ossessioni” e tutto diventava misurabile, tutto aveva necessità di numeri a supporto perché –usava ripetere – “di Dio ci fidiamo ma tutti gli altri devono portare dei dati”. La ricerca era questo per lui, utile quando è necessaria alle organizzazioni, quando può dare elementi e stimoli per migliorare, quando è capace di estendere le prospettive.
Era, tra le altre cose, un calcolatore prodigioso, di quella generazione che i conti li ha sempre fatti a mente o su carta e guai se ti vedeva con una calcolatrice. Perché il riuscire a misurare è prima di tutto un continuo esercizio intellettivo, un interminabile confronto con se stessi e con le proprie capacità.
Ci ha regalato la voglia di scoprire, di migliorare, di essere Psicologi del lavoro e delle organizzazioni.
Ciao Vincenzo.

Andrea e Mario