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numero 111 - luglio 2024

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Fearless. Giocarsi senza paura

Fearless. Giocarsi senza paura

Il rischio relazionale

Le organizzazioni devono affrontare un contesto socio-economico instabile e incerto, in cui ciò che esiste può essere improvvisamente cancellato e questo può essere altamente ansiogeno. Per adattarsi a scenari nuovi e sconosciuti, è fondamentale che le organizzazioni sviluppino flessibilità interna, contando su gruppi che abbiano un pensiero dinamico, iniziativa e capacità di assumersi responsabilità.
All'interno delle stesse organizzazioni, tuttavia, a ogni livello gerarchico e trasversalmente in ogni funzione o business unit, si configura uno specifico rischio, intangibile ma estremamente potente. Questo rischio consiste nella paura di essere puniti, rimproverati, marginalizzati, di subire conseguenze pratiche o che possono in qualche modo arrecare un danno. Si tratta della paura di parlare e subire il giudizio altrui che, per esempio, nel corso di una riunione per timore di sembrare ignoranti o incompetenti o di dire cose sconvenienti, porta a tacere piuttosto che parlare. È il rischio che ci guida quando non si riesce a chiedere aiuto, quando si fa un errore e lo si nasconde, quando sembra impossibile dire “non lo so”. 
A questa condizione, Amy Edmondson ha dato un nome: rischio relazionale. Non è solo una paura soggettiva ma proprio un rischio, cioè la possibilità o la probabilità che si verifichino eventi indesiderati o imprevisti che possano avere conseguenze negative o dannose (principalmente per sé) e la cui misurazione prende in considerazione, oltre appunto la probabilità di accadimento, anche la gravità del danno. E i danni a cui fanno riferimento i rischi relazionali sono strettamente collegati con l’immagine di sé, la reputazione, l’autostima; la probabilità di accadimento fa riferimento al clima che si respira e al grado di sicurezza e confidenza nelle relazioni che ci circondano.
Assumersi un rischio relazionale vuol dire superare la paura scaturita dal mettersi in gioco, esporsi, dire la propria anche se non conforme alla maggioranza. Ma non solo, vuol dire fare domande quando qualcosa non è chiaro, ammettere un proprio errore, senza avere timore delle conseguenze su di sé o sugli altri. 
Nei contesti lavorativi (ma non solo), fatti di relazioni interdipendenti, siamo tutti continuamente esposti a rischi relazionali che gestiamo in modo più o meno efficiente. L’essere valutati, per esempio, è qualcosa con cui dobbiamo convivere; il capo deve valutare le nostre performance e i colleghi ci restituiscono feedback e attuano stime del nostro operato. 
Riflettere sui rischi relazionali non va nella direzione di eliminarli, ma, piuttosto di tenerli in considerazione ed imparare ad averci a che fare, costruendo adeguati sistemi di tutela e protezione individuale e di gruppo. 
Evitare di mettersi in pericolo è un istinto evolutivamente vincente, generalmente a nessuno piace sentirsi umiliato o in imbarazzo, alle persone non piace provare emozioni quali rabbia, sconforto o tristezza e spesso tentiamo di reprimerle. Per farlo, si cerca di apparire intelligenti e competenti agli occhi degli altri, per alcuni questo vuol dire anche rimanere nella propria comfort zone il che, per quanto permetta di evitare i rischi relazionali, impedisce la crescita e lo sviluppo personale e professionale dei dipendenti. 
Se da un lato c’è questo istinto protettivo mosso dalla paura, dall’altro ne esiste un altro evolutivamente vincente che porta l’uomo verso l’esplorazione, spinto dalla curiosità, a uscire dal conosciuto e andare verso l’ignoto, assumendosi rischi, il che per le organizzazioni si traduce negli sforzi di innovare e fare scoperte scientifiche. Potersi spingere verso l’ignoto necessita di un paracadute e questo si costruisce nella qualità delle relazioni vissute nei team. Per fare un salto è necessaria una base sicura. 

La sicurezza psicologica

Il termine sicurezza psicologica è stato introdotto nel 1965 da Edgar Schein e Warren Bennis, due importanti autori che hanno trattato temi quali la cultura organizzativa e la leadership. Nel loro Personal and Organizational Change Through Group Methods: The Laboratory Approach (1965) si sostiene che la sicurezza psicologica consiste in un clima “che incoraggia i tentativi provvisori e che tollera il fallimento senza ritorsioni, rinunce o colpevolezza” (p. 45).
Successivamente altre ricerche hanno ampliato questo costrutto, di cui troviamo una prima revisione nell’articolo Psychological Safety and Learning Behaviors in Teams scritto da Amy Edmondson della Harvard Business School nel 1999. Nel tentativo di approfondire l’argomento, Edmondson – in una più recente pubblicazione – ha raccolto oltre due decenni di studi e ricerche su come la presenza o l’assenza della sicurezza psicologica può avere un impatto rilevante nelle organizzazioni aziendali (The Fearless Organization: Creating Psychological Safety in the Workplace for Learning, Innovation, and Growth, 2018). 
La sicurezza psicologica rappresenta una caratteristica fondamentale di tutti gli ambienti organizzativi in cui i team si trovano a svolgere compiti nuovi, complessi o innovativi. Il motivo è presto detto: lavorare in un ambiente nel quale risulta facile collaborare all’interno del gruppo, comunicare con colleghi e superiori, sperimentare e sperimentarsi, crea le condizioni affinché il luogo di lavoro possa definirsi psicologicamente sicuro e l’azienda godere del coinvolgimento, dell’impegno e dell’apprendimento costante delle persone. 
La sicurezza psicologica può essere definita come la convinzione condivisa all'interno di un team che l'ambiente è sufficientemente sicuro per assumersi rischi interpersonali. In parole semplici, è la percezione di poter esprimere idee, fare domande, segnalare problemi o ammettere errori senza paura di essere giudicati, umiliati o penalizzati. Decenni di ricerche dimostrano come la presenza di sicurezza psicologica sia un fattore critico per il successo delle organizzazioni moderne. Team con un'alta sicurezza psicologica sono più creativi, imparano più velocemente, gestiscono meglio i conflitti e raggiungono performance superiori.
La sicurezza psicologica non è un optional ma una condizione base per creare organizzazioni più umane e allo stesso tempo più performanti. Organizzazioni in cui le persone possano portare tutte se stesse al lavoro, senza maschere o paure. Organizzazioni capaci di ingaggiare le menti e i cuori, di favorire l'innovazione e l'agilità.
In un mondo caratterizzato da crescente complessità, rapidità di cambiamento e incertezza, le organizzazioni si trovano a fronteggiare sfide senza precedenti. I modelli tradizionali di leadership e gestione delle risorse umane faticano a tenere il passo con questo scenario in continua evoluzione che Jamais Cascio (2020) ha definito BANI in quanto Brittle (fragile), Anxious (ansioso), Non-linear (non lineare) e Incomprehensible (incomprensibile). Ma se le vecchie ricette di successo non funzionano più, per tornare o continuare a prosperare abbiamo bisogno di nuovi modi di lavorare e collaborare. E il primo passo è creare ambienti in cui le persone si sentano al sicuro nell'essere se stesse e nell'esprimere il proprio potenziale. In altre parole, abbiamo bisogno (anche) di sicurezza psicologica.
Purtroppo però, la sicurezza psicologica non è qualcosa che si crea spontaneamente. Richiede uno sforzo intenzionale e continuo da parte di leader e membri del team. Richiede consapevolezza dei bias che guidano i nostri comportamenti, capacità di creare connessioni autentiche e accettazione della vulnerabilità, per ammettere di non avere tutte le risposte. In altre parole, richiede coraggio.
Dato il contesto in cui stiamo vivendo, è necessario sfruttare i contributi e le competenze di tutti per riuscire a rimanere competitivi e fornire servizi di alto livello. Il livello di performance richiesto, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, deve rispondere a sfide crescenti, non ci si può più permettere di non assumersi rischi relazionali come la “paura di esporsi” o di “proporre suggerimenti” o la ritrosia di “contraddire il proprio manager”: sono divenuti costi troppo onerosi.

Mettersi in gioco, giocarsi senza paura

Ed ecco che il gioco, nella sua essenza più pura, può diventare lo spazio sicuro per apprendere ad apprendere in un contesto in cui gli errori non sono solo tollerati ma sono visti come parte integrante del processo di apprendimento. Questo ambiente di rischio ridotto consente agli individui di sperimentare, assumere rischi, riflettere e adattare i loro approcci all'apprendimento senza paura delle conseguenze.
Il gioco è per sua natura un ambiente di sperimentazione. Durante il gioco, gli individui sono liberi di provare nuove strategie, esplorare diverse vie e sperimentare vari approcci. Questa libertà di sperimentazione è un elemento chiave che consente l'apprendimento da esperienze passate. Nel gioco, queste esperienze possono essere acquisite in maniera sicura e senza temere il fallimento perché per ogni game over sai di avere la possibilità di una nuova vita ma solo a patto di riuscire (da solo o meglio guidato da un facilitatore) a riflettere sull’azione passata (Bamberger e Schön, 1983) e sulle strategie giocate o che sarebbe stato più funzionale giocare.
Numerosi studi hanno evidenziato il potenziale del gioco, inteso come attività spontanea, divertente e intrinsecamente motivata, per migliorare il benessere e la collaborazione nei gruppi di lavoro (Brown e Vaughan, 2009; Mainemelis e Ronson, 2006). In particolare, se il gioco riesce a rappresentare uno spazio sicuro in cui i membri di un team possano esprimersi, interagire e sperimentare senza conseguenze negative, aumenta il senso di appartenenza, fiducia e sicurezza psicologica all'interno del gruppo.
Il gioco stimola la creatività e rafforza le connessioni sociali attraverso il rilascio di endorfine e la riduzione dello stress, quando giochiamo in gruppo riduciamo l'ansia sociale e promuoviamo un senso di parità tra i partecipanti, poiché durante il gioco vengono temporaneamente sospese le strutture gerarchiche. Questo senso di appartenenza e uguaglianza genera un clima di fiducia e accettazione. Il “campo di gioco” porta i partecipanti a collaborare, comunicare efficacemente e fidarsi gli uni degli altri per raggiungere un obiettivo comune ed è quasi inevitabile che questa esperienza possa rafforzare i legami tra i partecipanti e aumentare la loro fiducia reciproca, contribuendo a creare un ambiente di sicurezza psicologica.
Che poi non è solo questione di giochi e giocare, attenzione. Un crescente filone di studi organizzativi si è concentrato sul concetto di playfulness come tratto o orientamento individuale che può essere definito come una predisposizione a interagire con persone e situazioni in modo spontaneo, creativo, leggero ed umoristico.
Promuovere la sicurezza psicologica forse significa anche passare dal dare cittadinanza organizzativa a un approccio giocoso, utilizzando un linguaggio caldo, colorato e creativo, valorizzando contributi insoliti e umoristici, e dedicare tempo libero per interazioni informali e ricreative con i colleghi. Molte aziende hanno compreso che anche un arredamento ludico e colorato può stimolare la creatività e la collaborazione (McCoy e Evans, 2002) ma sono più restie nell’accettare che passi soprattutto dalla relazione tra le persone e che non basta dipingere le pareti o mettere un tavolo da ping-pong se non è supportato da uno stile coerente di gestione delle relazioni con le persone. 
Abbiamo scritto di gioco, di giocare, di giocosità ma non possiamo prescindere dal mettersi in gioco, espressione che viene spesso utilizzata per descrivere la disponibilità ad affrontare rischi e sfide per raggiungere nuovi obiettivi. Ma cosa comporta esattamente esporsi attraverso il gioco dal punto di vista psicologico?
Giocare significa accettare implicitamente la possibilità di "perdere", fallire e apparire inadeguati di fronte agli altri. Ciò richiede il superamento delle normali difese dell'ego e l'accettazione temporanea di una certa vulnerabilità (Brown e Vaughan, 2009). Inoltre, abbandonarsi genuinamente al gioco comporta la rinuncia ad un certo controllo sulla situazione, poiché l'esito dipende dalle interazioni imprevedibili tra i partecipanti.
Dal punto di vista cognitivo, "mettersi in gioco" implica osare esplorare strade nuove e insolite, anziché attenersi a schemi prefissati. Comporta il rischio di apparire ingenui, eccentrici o inadeguati sfidando lo status quo (Mainemelis e Ronson, 2006). Sul piano relazionale, esporsi nel gioco vuol dire fidarsi degli altri partecipanti, affidandosi alla lealtà e reciprocità del gruppo.
I potenziali benefici di questa disponibilità al rischio sono la scoperta di risorse e potenzialità nascoste in sé e negli altri, oltre alla creazione di legami profondi. Tuttavia, mettersi in gioco espone anche a possibili rischi psicologici quali: ansia da prestazione, senso di esclusione, effetti destabilizzanti sul proprio concetto di sé (Bowman, 2014).
Perciò, è bene che il gioco avvenga in un contesto di reale sicurezza psicologica, dove ci si senta accettati anche in caso di insuccesso. Inoltre, è opportuno prevedere una certa gradualità nell'esporsi, partendo idealmente da giochi cooperativi a basso rischio emotivo. Infine, il gioco dovrebbe concludersi con una discussione riflessiva, per elaborare le emozioni emerse ed integrare utilmente l'esperienza nella propria crescita.
Mettersi in gioco ha sicuramente un grande potenziale di empowerment, ma richiede anche consapevolezza dei rischi emotivi impliciti. Solo un utilizzo responsabile del gioco può trasformare la disponibilità al rischio in un'opportunità di apprendimento e sviluppo, in una sorta di bilanciamento tra paura e coraggio.