Rassegna stampa
Rassegna stampa #116
Rassegna stampa #116
I social media come rifugio insidioso
L’uso dei social media rappresenta oggi una parte importante della quotidianità, plasmando profondamente il modo in cui stabiliamo connessioni, comunichiamo e consumiamo informazioni.
Tuttavia, essere costantemente esposti alla narrazione delle vite altrui, nonché autori della propria di fronte alla platea di follower, può indurre in una spirale di uso eccessivo e incontrollato dei social media (PMSU), con effetti negativi sul benessere e sul funzionamento quotidiano.
Un gruppo di ricercatori ha indagato, su un campione di 365 partecipanti, come la paura di perdersi qualcosa (FoMO, Fear of Missing Out) e la solitudine interagiscono nell’influenzare l’uso problematico delle piattaforme online. La risposta cui sono arrivati suggerisce che le persone con una tendenza stabile forte alla paura di essere esclusi (Tratto-Fomo) sono più inclini a sviluppare un uso disfunzionale dei social, specialmente se questa tendenza si traduce in esperienze momentanee di ansia, legate alla vita degli altri raccontata sui social (Stato-FoMO). Un risultato particolarmente interessante riguarda il ruolo della solitudine: se, da un lato, può facilitare un uso problematico dei social, dall’altro, essa modera la relazione tra Tratto-FoMO e Stato-FoMO. In altre parole, quando le persone si sentono sole, e presentano un’inclinazione personale alla paura di perdersi qualcosa, il senso di esclusione può essere talmente pervasivo da portare a ritiro e disconnessione. Al contrario, bassi livelli di solitudine potrebbero rendere ancora più saliente la paura di essere tagliati fuori, spingendo immediatamente a cercare rassicurazioni e conferme attraverso i social.
In conclusione, sembra che FoMO e solitudine si combinino in modi complessi nel generare comportamenti problematici legati ai social media e, pertanto, dovrebbero essere entrambe al centro delle strategie di prevenzione, accanto all’educazione verso un uso consapevole delle tecnologie.
Lavoro da casa o in ufficio? La stabilità emotiva fa la differenza
Negli ultimi anni, sempre più persone lavorano da casa, complice la diffusione di modalità ibride post-pandemia. Ma questa tipologia di organizzazione del lavoro produce su tutti lo stesso effetto? Recentemente, un gruppo di ricercatori italiano ha tentato di trovare una risposta, esplorando il ruolo della stabilità emotiva nella relazione tra lavoro da casa e prestazioni lavorative.
Lo studio ha coinvolto 102 dipendenti pubblici, monitorati per otto giorni consecutivi, e ha indagato come il lavoro da remoto influenzi la concentrazione lavorativa ed i sentimenti di isolamento sociale, due fattori chiave per la performance.
I risultati hanno mostrato effetti significativi del lavoro da casa su entrambi questi aspetti e, indirettamente, sulla prestazione lavorativa quotidiana. Tuttavia, un ruolo particolarmente centrale è quello giocato dalla stabilità emotiva: sono le persone maggiormente stabili dal punto di vista emotivo a beneficiare dello smart working, probabilmente perché dotate di adeguate risorse e strategie per affrontare stress, distrazioni e solitudine. Per queste persone, lavorare da casa ha mostrato effetti migliorativi sulla concentrazione e persino l’isolamento sociale sembra tradursi in un fattore favorevole per il rendimento. Per coloro che riportano più alti livelli di nevroticismo, al contrario, prevalgono gli svantaggi del lavoro ibrido, poiché tendono di più a distrarsi e a risentire della solitudine.
Sembra, dunque, che lavorare da casa anziché in ufficio non produca effetti automaticamente positivi o negativi sulla performance. Piuttosto, ciò che fa la differenza è la capacità dei lavoratori di autoregolarsi, gestire le interferenze e affrontare la solitudine. Le organizzazioni, quindi, dovrebbero tenere in considerazione tali caratteristiche individuali e offrire supporto mirato ai dipendenti per promuovere strategie di gestione del tempo, dello stress e degli obiettivi lavorativi.
Il lavoro che protegge la mente: richieste fisiche e mentali e declino cognitivo
Il lavoro che svolgiamo può avere un impatto significativo sulla nostra salute cognitiva in età avanzata. Se, da un lato, è noto che l’attività fisica e la stimolazione mentale nel tempo libero proteggono dal declino cognitivo, si sa molto meno su come le caratteristiche del lavoro, in termini di sforzo fisico e impegno mentale, influenzino il rischio di demenza clinica.
Un recente studio taiwanese ha esplorato questi aspetti, coinvolgendo oltre 5600 partecipanti di età pari o superiore ai 55 anni. I risultati hanno mostrato che le persone che durante la loro carriera avevano svolto lavori caratterizzati da libertà decisionale, alto uso di competenze e maggiori richieste fisiche, hanno mostrato in età avanzata minore probabilità di ricevere una diagnosi di demenza. Al contrario, coloro che avevano svolto lavori “passivi”, sedentari e poco qualificati sono risultati successivamente più inclini a sviluppare demenza. Sembra, inoltre, che il carico di richieste psicologiche, diversamente da quelle fisiche, non influenzi il declino cognitivo.
Questi risultati mettono in luce il valore delle condizioni lavorative come potenziale fattore protettivo per la salute cognitiva. Promuovere ambienti di lavoro in cui i dipendenti possano esercitare le proprie competenze, prendere decisioni e svolgere attività fisicamente dinamiche potrebbe contribuire a prevenire la demenza nella popolazione anziana. Interventi a livello organizzativo, quali scrivanie regolabili, pause attive e maggiore coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali, possono rappresentare strategie semplici ma efficaci per costruire una vera e propria “riserva cognitiva”, già a partire dalla vita lavorativa.
Affrontare il trauma in divisa: un nuovo protocollo di intervento di gruppo
Le forze dell’ordine affrontano ogni giorno situazioni ad alto impatto emotivo, spesso potenzialmente traumatiche, che possono mettere a dura prova la salute mentale. Recentemente, un gruppo internazionale di ricerca ha indagato l’applicabilità e l’efficacia di un programma di intervento innovativo e precoce, basato sull’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), e progettato per aiutare le persone a elaborare esperienze traumatiche in un contesto di gruppo. È stato dunque implementato il Protocollo modificato per Episodi Traumatici di Gruppo (mGTEP), che, nell’ambito del presente studio, è stato somministrato da agenti di polizia formati, anziché da psicologi.
Lo studio ha coinvolto 40 membri di polizia, i quali hanno partecipato a sessioni online di mGTEP e sono stati sottoposti a tre momenti di valutazione, per monitorarne i sintomi di ansia, depressione e stress post-traumatico prima, dopo l’intervento e a distanza di 6 mesi.
I risultati hanno mostrato un’efficacia significativa del protocollo nel ridurre tutti i sintomi. Inoltre, i sintomi depressivi e traumatici sono migliorati ulteriormente nei 6 mesi successivi, ma lo stesso non vale per lo stress e l’ansia. Questo risultato è particolarmente significativo, segnalando che in un ambiente lavorativo altamente stressante quale quello delle forze dell’ordine, interventi singoli potrebbero non essere sufficienti. In conclusione, questi risultati suggeriscono che mGTEP rappresenta un intervento efficace e con vantaggi importanti, quali la riduzione dello stigma legato alla richiesta di aiuto e il potenziamento delle reti di supporto interne alle organizzazioni, ma necessita di una continuità successiva all’intervento vero e proprio, così da mitigare l’impatto cumulativo dello stress lavorativo in polizia.