Rassegna stampa
Rassegna stampa #96
Rassegna stampa #96
Il COVID-19 nei sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale
L’avvento della pandemia da COVID-19 ha stravolto le vite di milioni di persone in tutto il mondo, tanto che il segretario generale dell’ONU Guterres l’ha descritta come “la crisi mondiale peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale”. Il presidente francese Macron nel marzo 2020 nell’annunciare il lockdown ha utilizzato la metafora della guerra per descrivere la situazione in Francia. L’utilizzo di queste metafore, oltre all’isolamento sociale imposto dal lockdown e alle immagini diffuse dai media ha suscitato una grande paura nella popolazione francese, soprattutto nelle persone di età avanzata. In questo contesto, le persone sopravvissute all’olocausto rappresentano un sottogruppo particolarmente vulnerabile sia per l’età di queste sia per la minor resilienza causata dalla particolare storia di vita. Nonostante ciò, solo pochi lavori hanno studiato l’impatto psicologico della pandemia su questa particolare popolazione; per questo motivo, un gruppo francese di ricercatori ha messo a punto uno studio su un campione composto da 249 persone sopravvissute all’olocausto. I risultati hanno evidenziato come il 41% delle persone ha mostrato segni di forte stress psicologico, e nel 44% dei sopravvissuti questa situazione ha riportato alla memoria i momenti peggiori vissuti durante la Seconda Guerra Mondiale con una riattivazione del trauma precedentemente vissuto. Inoltre, il 28% dei partecipanti ha dichiarato di essere entrato in contatto con organizzazioni per ricevere del supporto. Molto interessante il fatto che non sono state evidenziate differenze statisticamente significative in base all’età e al genere, così come in base all’essere rimasti orfani durante la Seconda Guerra Mondiale. Per concludere, questo studio mette in luce alcuni aspetti non trascurabili di una popolazione molto particolare e fragile come quella dei sopravvissuti all’olocausto che, oltre ad essere maggiormente a rischio per quanto concerne la salute fisica, necessita di interventi studiati ad hoc, e di supporto sociale, per affrontare le conseguenze della pandemia, come il forzato isolamento sociale.
Comportamenti alimentari durante il COVID-19 nella comunità LGBTQ+
Le conseguenze del COVID-19 non sono solo fisiche, ma anche psicologiche. Ad esempio, per un insieme di fattori riconducibili alla pandemia, quali il lockdown e l’isolamento sociale, numerosi studi hanno attestato la presenza di conseguenze psicologiche legate all’aumento dei disturbi d’ansia e depressivi; inoltre, è stato attestato un incremento nella copmarsa di disturbi alimentari. La maggior parte degli studi non ha preso in considerazione la rilevazione dell’orientamento sessuale: per questo motivo, dei ricercatori statunitensi hanno condotto uno studio su un ampio campione di oltre mille persone LGBTQ+ di età compresa tra 18 e 30 anni, dal momento che questa minoranza risulta essere particolarmente esposta allo sviluppo di problematiche psicologiche connesse al COVID-19, come i disturbi alimentari. La maggior parte dei partecipanti ha dichiarato un peggioramento delle proprie abitudini alimentari durante questo periodo; in particolare, episodi legati al disturbo evitante-restrittivo dell'assunzione di cibo sono risultati quelli più frequenti, seguiti da episodi connessi al disturbo da alimentazione incontrollata e, infine, da episodi di purging. Molto interessante il fatto che il numero di tali episodi rimaneva pressoché costante in base all’orientamento sessuale dei partecipanti. Inoltre, le correlazioni tra il numero di questi episodi e misure di supporto sociale percepito sono risultate deboli, indicando come il supporto sociale non sia una variabile chiave nel prevenire questo tipo di comportamenti. In sintesi, questo studio ha evidenziato come all’interno della minoranza LGBTQ+, particolarmente a rischio psicologico durante la pandemia da COVID-19, si sia assistito ad un aumento di condotte alimentari scorrette; ancora più rilevante l’indagine in merito alle variabili che potenzialmente possono inibire tali condotte: in tal senso, saranno necessarie ulteriori indagini dal momento che il supporto sociale sembra non essere un fattore significativo.
L’intolleranza verso gli immigrati durante la pandemia
La pandemia da COVID-19 ha avuto molteplici effetti negativi: tra questi, ha minato le certezze delle persone sul futuro, aumentando la paura e la preoccupazione. In questo contesto, molti Paesi hanno assunto contromisure, tra le quali il lockdown e l’obbligo vaccinale. All’interno di un sistema di regole non sempre del tutto chiaro e accettato, si è fatto spazio un sentimento di intolleranza verso le minoranze, siano esse sessuali o razziali. Per questo motivo, e per meglio comprendere la genesi di questi sentimenti, è stato condotto uno studio da un ampio gruppo di ricercatori: l’ipotesi di partenza è che gli episodi di intolleranza aumentino da parte di persone che ricercano regole molto restrittive per il controllo della pandemia, dal momento che le minoranze, soprattutto quelle relative al fenomeno dei flussi migratori, vengono percepite come potenziali ostacoli al mantenimento dell’ordine sociale. I risultati hanno confermato l’ipotesi personale: ovvero, soggetti che desideravano l’applicazione di regole ferree contro il COVID-19 mostravano un’intolleranza verso gli immigrati significativamente superiore rispetto alle altre persone. Una possibile spiegazione è data dalla paura provata per la pandemia: questa risultava essere un fattore predittivo verso la volontà che venissero istituite regole intransigenti per il contenimento del COVID-19. In sintesi, questo studio fornisce degli elementi molto importanti per la comprensione di un fenomeno preoccupante come l’intolleranza verso gruppi immigrati. Questo lavoro acquista enorme rilevanza in quanto condotto in trenta differenti Paesi in tutto il mondo. Inoltre, fornisce un modello esplicativo del fenomeno che può aiutare non solo nella comprensione dello stesso, ma anche nell’ipotizzare delle azioni preventive. In particolare, l’isolamento sociale e l’istituzione di regole particolarmente severe per il contenimento del virus sembrano avere, dall’altro lato, delle conseguenze negative su fenomeni di integrazione degli immigrati e di altre minoranze.
Le fake news sulla pandemia
Negli ultimi anni la disponibilità di informazioni è aumentata in modo esponenziale: fino a pochi anni fa, le informazioni venivano veicolate soltanto dai media classici, quali televisione, radio e giornali, mentre ad oggi molte persone sono solite informarsi attraverso il web. In particolare, è cambiato anche l’utilizzo dei social media: ad oggi, sempre più persone si affidano a questi canali per ricevere informazioni. Questo utilizzo è aumentato durante la pandemia da COVID-19. Mentre nei Paesi occidentali si è soliti associare una bassa qualità alle informazioni ricavate dai social media, in altri paesi questi strumenti diventano particolarmente utili: ad esempio, in Nigeria i social media sono dei mezzi che permettono alle persone di informarsi in maniera maggiormente libera e indipendente su quanto avviene nel Paese e nel Mondo, rispetto a quanto viene veicolato dai media classici. Nonostante ciò, anche in Nigeria durante la pandemia i social media hanno dato ampio risalto a fake news. Per meglio comprendere le conseguenze di tutto ciò, due ricercatori hanno condotto uno studio per indagare il grado di pervasività delle fake news legate alla pandemia. Innanzitutto, i risultati hanno mostrato come la popolazione nigeriana faccia un largo utilizzo dei social: una persona su 3 ha dichiarato di usarli dalle 10 alle 12 ore al giorno. Molto interessante anche il fatto che circa il 60% degli intervistati ha dichiarato come i social media fossero il principale canale di informazione, in particolare Facebook. Sulla base di ciò, è emerso come oltre il 65% delle persone fosse stata esposta a fake news inerenti al tema della pandemia: in particolare, il 40% ha dichiarato di essere stato esposto molto spesso a fake news. Il risultato più interessante riguarda il fatto che una persona su 4 ha riportato di diffondere fake news sui social media: in dettaglio, solo il 22% delle persone ha dichiarato di credere a quello che postava, mentre il 30% sapeva benissimo che erano fake news ma le postava con il solo scopo di avere maggiore visibilità e followers. In sintesi, questo studio mette in lune un aspetto molto interessante legato alla pandemia: lo sviluppo di fake news sul web; in particolare, ne analizza le cause e pone delle questioni morali e pratiche molto rilevanti, soprattutto in virtù dell’elevata consapevolezza delle persone che diffondono tali fake news, anche su temi particolarmente delicati come una pandemia.