Rassegna stampa
Rassegna stampa #88
Rassegna stampa #88
Le emozioni ci fanno guidare più velocemente
Lo studio delle componenti emotive rispetto alla guida ha da sempre attirato grande interesse, soprattutto per quanto concerne l’aspetto della sicurezza stradale. Infatti, le emozioni determinano dei comportamenti nelle persone che possono essere sia costruttivi sia distruttivi e numerosi studi hanno attestato come queste siano dei predittori importanti della sicurezza stradale e del numero di incidenti, modificando il comportamento dei guidatori o alterando la loro attenzione alla guida. Solo pochi studi, invece, si sono concentrati sull’influenza che le emozioni giocano sulla velocità: ad esempio, è stata evidenziata una correlazione tra velocità, rabbia e ansia. Una categoria particolarmente rilevante in questo campo è quella dei tassisti: infatti, a causa delle molte ore passate alla guida e della tipologia di lavoro, sono particolarmente a rischio di provare emozioni negative, tant’è che alcuni studi hanno mostrato come i tassisti siano maggiormente a rischio di sviluppare ansia, depressione. Per questo motivo, un gruppo di ricercatori ha condotto uno studio su un campione formato da soli tassisti al fine di indagare la relazione tra emozioni e sicurezza alla guida. I risultati hanno mostrato come, senza controllare l’influenza delle variabili sociodemografiche, nessuna delle emozioni era in grado di predire la velocità alla guida dei tassisti. Inserendo questo controllo, è emerso come la rabbia predica la velocità: in particolare, al crescere del livello di quest’emozione ne deriva una guida sempre più veloce; lo stesso pattern è stato osservato anche per quanto riguarda la tristezza. Di notevole interesse il fatto che le emozioni positive non sono risultate predittive rispetto alla velocità: in altre parole, emozioni quali la gioia non determinano una diminuzione nella velocità di guida. Per concludere, questo studio evidenzia come le emozioni negative, quali rabbia e tristezza, determinano uno stile di guida maggiormente pericoloso, con ripercussioni negative sulla sicurezza stradale: per questo motivo, sarebbe importante lavorare sulle emozioni soprattutto in categorie professionali che trascorrono molte ore alla guida, come camionisti, tassisti, autisti di bus.
Percepire il mondo in modo coerente ci protegge
Il COVID-19 ha completamente modificato il nostro stile di vita e anche la percezione del mondo che ci circonda, incrementando il disordine percettivo; quello che inizialmente veniva percepito come uno stress acuto è diventato cronico, dal momento che questa pandemia avrà delle ripercussioni a lungo termine sulle nostre vite. In quest’ottica, il virus ha delle conseguenze molto importanti sulla nostra salute mentale. All’interno di questa cornice teorica, il costrutto chiamato Senso di Coerenza (SOC) sembra fungere da protezione nel far fronte a episodi stressanti come quello che stiamo vivendo, permettendo un miglior adattamento. Il SOC è stato definito come un orientamento generale delle persone nei confronti del mondo circostante che viene percepito in modo coerente e comprensibile. Quindi, persone in grado di percepire questa situazione in modo coerente e di dare significato a questo fenomeno hanno maggiori probabilità di reagire in maniera positiva e minori probabilità di sviluppare patologie come diretta conseguenza. Partendo da questa evidenza, un gruppo di studiosi ha condotto una ricerca al fine di identificare il modo in cui funziona il SOC e come agisce da protezione nei nostri confronti. Per rispondere a queste domande, sono stati reclutati sette differenti campioni di adulti in altrettanti Paesi (Italia, Svizzera, Israele, Spagna, Germania, Austria, Stati Uniti). I risultati hanno messo in luce come il SOC sia un predittore statisticamente significativo della salute mentale in tutti e sette i Paesi analizzati, insieme al supporto familiare e alla fiducia: di grande interesse, il fatto che il SOC sia risultato il predittore più importante della salute mentale. Inoltre, questo evidenzia come il SOC sia un fattore di protezione non dipendente da differenze culturali, dal momento che i risultati emersi erano altamente comparabili tra loro in ogni contesto culturale analizzato. Viceversa, sono state osservate delle differenze nei diversi Paesi in merito all’importanza del supporto familiare, ad esempio maggiore in Italia, Israele e Spagna, e del livello di fiducia, maggiore in Germania e Austria. In sintesi, questo studio offre una panoramica internazionale in merito alla relazione tra salute mentale e fattori protettivi durante la pandemia da COVID-19 mostrando come, a prescindere dal contesto culturale analizzato, la capacità delle persone di percepire il mondo in modo coerente sia il principale fattore protettivo rispetto alla possibilità di sviluppare malattie mentali.
Avere un parente in carcere aumenta la probabilità di sviluppare malattie mentali
Negli Stati Uniti la rapida espansione avuta dal sistema legale nell’ultimo secolo ha determinato una forte crescita del numero di persone che sono state in carcere: il 45% delle persone ha almeno un conoscente stretto con esperienza carceraria. La storia di carcerazione riguarda principalmente delle particolari parti della popolazione come afroamericani, persone con un basso status socio-economico. La prospettiva che vede lo stress come un processo sottolinea come gli stressor che colpiscono fasce deboli della popolazione possono aumentare le già notevoli differenze di salute: in base a ciò, l’incarcerazione risulta un potente stressor capace di incrementare i problemi di salute legati alle malattie mentali. Queste conseguenze non riguardano solo le persone incarcerate: numerosi studi, ad esempio, hanno evidenziato come bambini e adolescenti con familiari in carcere abbiamo maggiori livelli di ansia e depressione, oltre ad un maggior uso di sostanze. Nonostante ciò, solo pochi studi si sono concentrati sull’identificazione di queste conseguenze nella salute mentale delle persone differenziandole per grado di parentela con la persona in carcere; per questo motivo, un ricercatore ha condotto uno studio su un campione composto da oltre 2800 persone. In linea generale, a prescindere dal grado di parentela, è emersa un’associazione tra salute mentale della famiglia e storia di incarcerazione. Entrando nel dettaglio, è emerso come avere un genitore in carcere determini un peggioramento nella salute mentale dei figli, così come avviene per i genitori se in carcere si ha un figlio, mentre questo non avviene se in prigione si ha un fratello o una sorella, o un parente più lontano, come un cugino o uno zio. Inoltre, questo avviene per il sottogruppo di persone caucasiche mentre non si ha la stessa associazione nelle persone afroamericane o negli ispanici. Le conseguenze maggiori riguardano le donne che mostrano un peggioramento della propria salute mentale doppio rispetto a quello degli uomini, a parità di grado di parentela con la persona in carcere. Infine, questo effetto è risultato più severo per persone con un basso titolo di studio e un basso livello socioeconomico. Per concludere, questo lavoro mette in evidenza le conseguenze negative sulla salute mentale derivanti dall’avere un familiare in carcere: individuando quali sono le persone maggiormente a rischio permette di compiere azioni di prevenzione sulla famiglia della persona in carcere, con particolare attenzione alle donne e alle famiglie maggiormente svantaggiate.
Come mitigare gli effetti della didattica a distanza sulle abilità di pensiero critico
Tra le tante conseguenze della pandemia da COVID-19, c’è stata la didattica a distanza: infatti, in quasi tutto il mondo si è ricorsi ad una modalità di insegnamento a distanza per ridurre al minimo il contatto sociale tra gli studenti. All’interno del contesto universitario cinese, questa modalità era già stata ampiamente utilizzata prima della pandemia per insegnamenti di tipo internazionale: ad esempio, veniva insegnata la lingua cinese a studenti europei così come le lezioni di inglese con insegnanti madrelingua venivano fruite online dagli studenti cinesi. Questa modalità di insegnamento, oltre a ridurre la possibilità di confronto con i pari, sembra determinare delle criticità in merito allo sviluppo del pensiero critico: questa capacità, molto apprezzata in ambito lavorativo, sembra risentire maggiormente dell’isolamento sociale. Per questo motivo, una ricercatrice cinese ha condotto uno studio su un campione composto da oltre 400 studenti universitari impegnati in corsi internazionali a distanza. In particolare, metà del campione era composto da studenti che frequentavano un corso di lingua cinese, mentre l’altra metà ha seguito un training specifico sul pensiero critico. I risultati hanno mostrato come, nonostante la modalità di didattica a distanza, gli studenti che hanno preso parte al corso sul pensiero critico abbiano mostrato un miglioramento in questa abilità statisticamente significativo; di notevole interesse, il fatto che un miglioramento del tutto simile è stato osservato anche negli studenti che hanno frequentato il corso di lingua cinese. Nonostante ciò, a tre mesi di distanza è emerso come questo miglioramento sia rimasto stabile solo nel sottogruppo di studenti che ha seguito lo specifico corso sul pensiero critico, mentre il guadagno registrato dagli studenti di lingua cinese era svanito. Per concludere, questo studio ha mostrato come, attraverso uno specifico corso, sia possibile ridurre l’impatto negativo della didattica a distanza sulle abilità di pensiero critico degli studenti universitari, ritenute particolarmente importanti nel mondo del lavoro.