Rassegna stampa
Rassegna stampa #5
Rassegna stampa #5
La probabilità nello sport: la credenza della “mano calda”
Quotidianamente ognuno di noi è obbligato a dover prendere delle decisioni più o meno importanti. Questo è vero anche nel mondo dello sport, dove le scelte di atleti ed allenatori possono modificare il risultato della partita in modo determinante; ad esempio, nel basket una scelta classica riguarda il giocatore incaricato di eseguire l’ultimo tiro decisivo. Nel compiere queste scelte, la maggior parte delle persone non ricorre a teorie probabilistiche e statistiche adeguate ma utilizza delle euristiche, ovvero delle scorciatoie di pensiero che permettono un risparmio cognitivo nella presa di decisione. Purtroppo, spesso l’utilizzo di queste euristiche porta ad una scelta che erroneamente viene ritenuta giusta. Una delle scorciatoie di pensiero maggiormente utilizzate è detta euristica della rappresentatività: secondo questo modello, le scelte delle persone vengono fatte senza prendere in considerazioni le probabilità a priori associate all’evento in questione e ciò porta, spesso, a decisioni erronee. Nello sport una conseguenza di ciò è quella che viene chiamata la fallacia della “mano calda”: seguendo l’euristica della rappresentatività si è portati a ritenere che un giocatore di basket che abbia collezionato una serie di canestri, abbia una maggiore probabilità di fare canestro anche nel tiro successivo a questi. Un pool internazionale di ricercatori ha condotto una rassegna della letteratura al fine di indagare questo fenomeno. I risultati mettono in luce come questa credenza sia erronea: infatti, non sono emerse delle correlazioni significative tra numero di canestri centrati di seguito e numero di canestri effettuati nel tiro successivo. Le analisi condotte, inoltre, hanno tenuto in considerazione anche variabili esterne come il tipo di sport, e di situazione di gioco. In sintesi, quindi, anche nello sport la conoscenza delle regole probabilistiche di base si rivela un utile strumento per vincere le partire!
I fattori che influenzano l’attaccamento nelle adozioni internazionali
In base alla teoria dell’attaccamento, le esperienze del bambino con la madre, o con la persona che si prende cura di lui, durante il primo anno di vita determinano la qualità dell’attaccamento del bambino. In particolare, è stato evidenziato come già dopo 12 mesi il bambino sviluppi un proprio modello cognitivo di attaccamento. Una possibile e centrale applicazione di questa teoria concerne le adozioni internazionali: infatti, dal momento che queste negli ultimi anni sono notevolmente aumentate due studiosi americani hanno indagato come i bambini adottati sviluppino i loro legami di attaccamento con le madri adottive. Per fare ciò, hanno somministrato una serie di strumenti alle madri adottive e registrato alcuni comportamenti dei bambini, che avevano un’età media di 13 mesi. I risultati hanno evidenziato un’elevata variabilità nella sicurezza del legame di attaccamento sviluppato dai bambini, dimostrando che l’adozione internazionale non è di per se un fattore di rischio circa il legame di attaccamento che verrà sviluppato dal bambino. Partendo da ciò, i ricercatori hanno cercato di identificare quali siano i principali fattori da tenere in considerazione; le analisi hanno mostrato come siano principalmente due i fattori in grado di influenzare lo stile di attaccamento del bambino: il numero di preadozioni alle quali è stato sottoposto il bambino ed il suo livello di stress. In altre parole, al crescere del numero di preadozioni non andate a buon fine aumenta la probabilità che il bambino sviluppi uno stile di attaccamento insicuro; al tempo stesso, questa probabilità aumenta anche con il crescere del livello di stress del bambino stesso. Per concludere, questo interessante lavoro offre numerosi spunti su cui riflettere: ad esempio, è possibile coniugare l’oggettiva esigenza di una valutazione prima dell’adozione finale con quella di aiutare il percorso di crescita del bambino? Ovviamente, non è nostro interesse rispondere anche perché la questione è assai complessa e articolata, ma risulta importante quantomeno porsi il problema nell’ottica di favorire sia le adozioni sia la salute del bambino.
Le persone bilingue hanno difficoltà nel processamento delle parole?
Il fenomeno del bilinguismo ha storicamente suscitato grande interesse e curiosità, tanto che sono state condotte numerose ricerche a livello internazionale per cercare di spiegare i meccanismi grazie a i quali ciò è possibile. Nonostante questo, meno attenzione è stata dedicata alle conseguenze che l’essere bilingue può comportare quando la persona è ormai adulta: infatti, gran parte degli studi sono stati condotti su bambini per spiegare i meccanismi cognitivi alla base del bilinguismo. Per cercare almeno in parte di rispondere a questi interrogativi un gruppo internazionale di ricercatori ha messo a punto uno studio su un campione di adulti bilingue con un’età media di circa 21 anni. I partecipanti allo studio hanno risposto ad una serie di stimoli verbali e visivi in merito al riconoscimento di parole e di lettere sia nella loro prima lingua che nella seconda lingua; inoltre, il disegno della ricerca comprendeva anche un campione di controllo formato da adulti non bilingui. I risultati emersi da questo studio riguardano principalmente due ordini di fattori: la capacità di riconoscimento degli stimoli verbali, parole e lettere, e la velocità di processamento degli stessi stimoli. Per quanto riguarda le abilità verbali non sono emerse differenze significative tra persone bilingue e non: in altre parole, il numero di stimoli correttamente processati, così come il numero di errori, era praticamente uguale nei due differenti gruppi di persone. A differenza di ciò, per quel concerne la velocità di elaborazione delle informazioni sono emerse delle differenze significative: in particolare, le persone bilingue hanno mostrato di processare le informazioni verbali, sia parole che lettere, in maniera più lenta rispetto alle persone appartenenti al gruppo di controllo. In sintesi, questo studio mostra come il bilinguismo non comprometta le abilità verbali delle persone: al massimo, ne rallenta le capacità di elaborazione.
La febbre del giovedì sera
Un famoso film con John Travolta parlava della febbre del sabato sera: l’ultima tendenza tra gli studenti universitari sposta questo giorno dal sabato al giovedì sera, almeno per qual che riguarda il consumo di alcool. Infatti, negli ultimi anni il consumo di alcool da parte degli studenti universitari è molto aumentato, soprattutto il giovedì sera dal momento che molto spesso il venerdì non ci sono lezioni, nonostante i grandi sforzi compiuti per cercare di contrastare questo fenomeno; questa tendenza riguarda principalmente i maschi, che consumano più alcool delle femmine, anche se il trend sembra indicare come nelle femmine l’aumento nel consumo di sostanze alcoliche sia maggiore rispetto ai maschi. Tre ricercatori statunitensi hanno condotto uno studio proprio per indagare il comportamento di uso di alcool nelle studentesse universitarie, con particolare attenzione alla serata del giovedì. I risultati hanno messo in luce come circa una ragazza su sei sia solita consumare molto alcool nella notte del giovedì. Gli studiosi, hanno inoltre analizzato quali siano le variabili maggiormente connesse a questo tipo di comportamento: in particolare, è risultato come le ragazze che sono solite bere molto il giovedì sera hanno minor interesse verso i corsi universitari e hanno un’età di circa 21 anni. Nonostante ciò, da questo studio è emerso come il giovedì sia la serata infrasettimanale nella quale le studentesse universitarie consumano più alcool, anche se non viene raggiunto il livello del sabato sera, che rimane, quindi, la serata privilegiata per questo tipo di comportamenti. Infine, l’uso di alcool non è costante per tutti i giovedì sera dell’anno: in particolare, è stato osservato come questo aumenti nei giovedì festivi, raggiungendo e a volte superando il livello di consumo proprio del sabato sera, e nei primi mesi del semestre accademico, ovvero in quei periodi dell’anno dove gli esami universitari sono più lontani. Per concludere, questo studio offre una fotografia della situazione americana in relazione all’uso di alcool da parte delle studentesse universitarie: probabilmente, le elevate differenze culturali, come ad esempio la presenza di confraternite, possono almeno in parte mitigare il problema in Italia, ma non possono comunque far ignorare il fatto che l’uso di alcol da parte dei ragazzi non sia più ridotto al solo sabato sera e come, in questo contesto, il comportamento delle ragazze si sta sempre di più avvicinando a quello dei ragazzi.