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numero 36 - aprile 2016

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #36

Rassegna stampa #36

L’individuo è al centro del gruppo

In ambito organizzativo da anni si assiste ad una sempre maggior importanza dei gruppi di lavoro: nelle organizzazioni moderne è necessaria una combinazione di risorse differenti per portare a termine dei compiti che nessuna persona da sola è in grado di svolgere. A confermare questo assunto, i risultati di uno studio condotto nel 2013 hanno evidenziato come il 54% dell’orario lavorativo, in media, viene utilizzato dalle persone in contesti gruppali: questa particolare classifica è guidata dalla Cina, dove le persone passano quasi il 65% del loro tempo lavorativo in gruppo, e chiusa dal Sudafrica dove il tempo medio speso in attività gruppali è del 47%. Partendo da questo assunto di centralità del gruppo nelle attività lavorative, due ricercatori hanno provato a comprendere i meccanismi alla base di un gruppo di lavoro di successo, cioè in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. Vedere i gruppi come dei sistemi soggettivi, secondo gli autori, può aiutare a comprendere l’importanza del contributo di ogni membro alla riuscita del gruppo stesso. Infatti, emerge come la capacità del gruppo di avere delle performance di successo dipenda in larga parte dalle capacità dei membri che ne fanno parte. Da qui deriva l’importanza degli individui, presi singolarmente, e non solo del gruppo in quanto tale. Una variabile fondamentale per comprendere come si sviluppi un gruppo è lo status dei membri che ne fanno parte: lo status è inteso come una relazione gerarchica tra i membri sulla base dell’influenza che riescono ad esercitare sugli altri; sulla base di ciò, numerosi studi hanno mostrato come membri dallo status elevato forniscano performance migliori degli altri all’interno dei gruppi. Inoltre, numerose ricerche hanno evidenziato come i gruppi funzionino meglio quando è chiaro a tutti i membri chi fa cosa. Un altro aspetto da non sottovalutare è di natura emotiva: la ricerca scientifica mostra come i singoli individui siano in grado di influenzare i sentimenti presenti all’interno del gruppo, aumentando, o diminuendo, le potenzialità del gruppo stesso; alla base di ciò si ha la concezione fondamentale che i membri del gruppo si influenzino tra di loro portando al miglioramento, o al peggioramento, della performance collettiva. Sulla base di ciò, gli autori forniscono alcuni consigli su come gestire al meglio i gruppi lavorativi: innanzitutto, aggiungere un membro al gruppo è sempre pericoloso e questa operazione deve essere effettuata con molte cautele; si deve valutare quali competenze mancano al gruppo, quali aspetti della personalità meglio si integrano al contesto gruppale già esistente al fine di massimizzare l’efficacia del nuovo membro. Infine, gli autori concludono evidenziando come il famoso principio della Gestalt secondo il quale un gruppo è più della somma dei membri che lo compongono è vero solo in parte: anche un solo membro può essere in grado di alterare gli equilibri di un gruppo di lavoro.

Emich, K. J. & Wright, T. A. (2016). The ‘I’s in team: The importance of individual members to team success. Organizational Dynamics, 45, 2-10. 

 

I danni causati dalle punizioni corporali sui figli

Nel mondo sono molti i genitori che ricorrono all’utilizzo di punizioni corporali per insegnare la disciplina ai propri figli. In letteratura, tali condotte utilizzate per correggere comportamenti errati vengono distinte in tre categorie: l’aggressione fisica, intesa come l’uso della forza per provocare paura o dolore psicologico, le punizioni corporali, intese come l’utilizzo della forza fisica per causare dolore ma non ferite, e l’abuso fisico, inteso come l’uso della forza fisica per causare dolori e ferite ai bambini. Numerosi studi hanno mostrato come tutte e tre le condotte influenzino l’internalizzazione dei problemi fatta dai figli; inoltre, è noto come questa variabile sia strettamente connessa all’ansia dei bambini che rappresenta il problema emotivo più comune in questa fascia di età. Altri studi hanno mostrato come l’ansia abbia delle gravi ripercussioni negative sulla vita delle persone, che vanno dalla depressione alla dipendenza da droghe. Dal momento che numerosi studi hanno mostrato come queste condotte, analizzate singolarmente, possano determinare elevati livelli di ansia, due ricercatori cinesi hanno messo a punto uno studio per valutare simultaneamente l’impatto di queste tre tipologie di punizioni sull’ansia dei bambini. Per far ciò, hanno condotto uno studio su quasi 2000 diadi padre-madre con figli di età compresa tra 7 e 17 anni. I risultati hanno innanzitutto mostrato come il 73% dei padri utilizzi l’aggressione fisica, il 44% le punizioni corporali e il 16% l’abuso fisico: queste percentuali già molto elevate tendono addirittura a crescere se si prendono in considerazione le madri. Per quanto riguarda il genere dei figli, è emerso come i figli maschi siano maggiormente vittime di questi comportamenti rispetto alle figlie femmine. In aggiunta a ciò, sono state evidenziate solo deboli differenze significative per quanto riguarda lo status socio economico dei genitori: mentre non emergono differenze nelle madri, i risultati mostrano come i padri di status socio economico medio-basso facciano maggiormente ricorso a questi comportamenti dei padri con un livello socio economico maggiore. Per quanto riguarda la relazione con l’ansia, i risultati mostrano come tutte e tre le condotte, quando analizzate singolarmente, aumentino l’ansia dei figli. Di maggior interesse i risultati delle regressioni multiple che permettono di analizzare questi tre aspetti contemporaneamente: da qui si evince, in maniera sorprendente, come l’abuso fisico non predica l’ansia che viene invece predetta dalle due condotte “meno violente” come l’aggressione fisica e le punizioni corporali, indipendentemente dal fatto che ad agirle sia il padre o la madre. Per concludere, questo interessantissimo studio ci fa capire come la violenza sui figli, anche quando questa non sia bruta, possa provocare gravi e irreparabili danni: anzi, l’aggressione fisica sembra aver ripercussioni peggiori dell’abuso fisico, che intuitivamente viene giudicato come peggiore dato che ricorre ad un maggior abuso della forza fisica. Quindi, capiamo tutti come basti veramente poco per far veramente del male ai nostri figli.

Wang, M., Wang, X. & Liu, L. (2016). Paternal and maternal psychological and physical aggression and children’s anxiety in China. Child Abuse & Neglect, 51, 12-20. 

 

Chi è violento contro la propria moglie, lo è anche con gli altri?

Negli ultimi anni si sta assistendo ad un crescente numero di episodi violenti ad opera di mariti/compagni verso le proprie mogli/compagne. Per meglio comprendere la tipologia di aggressori, numerosi studi hanno cercato di identificare i meccanismi soggiacenti a tali condotte, dividendo gli aggressori in tre tipologie sulla base della frequenza e della gravità delle aggressioni alla moglie, della generalizzabilità di tali condotte anche al di fuori della sfera familiare e della presenza di disturbi psicologici. Da un punto di vista statistico, è emerso come il 50% degli aggressori lo sia solo nel contesto familiare, mentre la restante metà si divida equamente tra persone generalmente violente e persone con disturbi della personalità. Nonostante ciò, sono pochi gli studi che hanno provato a comprendere le differenze tra le persone che aggrediscono esclusivamente la propria compagna oppure che ripetono questi comportamenti anche al di fuori del nucleo familiare. Con questo obiettivo, un gruppo di ricercatori spagnolo ha condotto uno studio su 100 uomini reclusi all’interno di un penitenziario per violenza contro la propria moglie. I risultati hanno mostrato come gli uomini che esercitavano violenza in tutti i contesti presentavano caratteristiche maggiormente antisociali e borderline degli uomini che aggredivano solo la moglie, mentre non si sono osservate differenze per quel che riguarda caratteristiche narcisistiche o istrioniche; inoltre, gli stessi presentavano una maggior dipendenza da sostanze rispetto coloro che erano violenti solo verso la moglie. Un risultato molto interessante riguarda il fatto che i due gruppi di violenti non si differenziano in base alle variabili riguardanti la propria famiglia di origine, a riprova del fatto che questa non sembra influenzare la tipologia di violenza perpetuata. Da un punto di vista sociale, emerge come le persone che agiscono in modo violento solo verso la propria moglie siano socialmente più integrati degli altri. Inoltre, i violenti generalisti sono più giovani, hanno alle spalle più divorzi e separazioni e una storia criminale più lunga; non si hanno invece differenze per quel che riguarda il titolo di studio e lo status socio economico. In sintesi, questo studio cerca di fare luce sulle caratteristiche peculiari degli uomini che infliggono violenza alle proprie mogli al fine di comprendere meglio la genesi di tali condotte: infatti, solo una più ampia comprensione del fenomeno può aiutare a prevenire questo tipo di azioni.

Herrero, J., Torres, A., Gernàndez-Suàrez, A. & Rodrìgruez-Dìaz, F. J. (2016). Generalists versus specialists: Toward a typology of batterers in prison. The European Journal of Psychology Applied to Legal Context, 8, 19-26. 

 

L’autoefficacia percepita per combattere lo stress quotidiano

I modelli esplicativi dello stress hanno mostrato come esistano delle variabili psicosociali che agiscono con  funzione protettiva: infatti, mentre lo stress è riconosciuto come un importante fattore di rischio non tutte le persone stressate hanno problemi di salute fisica o mentale. Tra le diverse forme di stress, quello quotidiano è un importante predittore di ansia e depressione. Nonostante ciò, la forza di queste associazioni dovrebbe essere mitigata da caratteristiche personali, come le strategie di risposta allo stress che differiscono da persona a persona: i modelli che non includono tali fattori di mediazione tendono ad avere delle stime falsate di queste relazioni. Tra tutte le variabili che possono fungere da fattore protettivo, l’autoefficacia è una risorsa essenziale della persona nella regolazione dello stress, come mostrato in alcuni studi sullo stress esperito da studenti universitari. Nonostante ciò, in letteratura non ci sono lavori che hanno indagato il ruolo protettivo dell’autoefficacia percepita rispetto allo stress quotidiano delle persone: per questo motivo un gruppo di studiosi tedesco ha messo a punto una ricerca che ha coinvolto più di mille persone di età compresa tra 18 e 87 anni. Le correlazioni, che indagano la relazione tra due variabili alla volta, hanno confermato i risultati presenti in letteratura: l’autoefficacia percepita è in relazione con la depressione, l’ansia e lo stress. I risultati più interessanti riguardano il modello di mediazione proposto, che aveva lo scopo di testare le potenzialità dell’autoefficacia percepita come fattore di protezione rispetto allo stress quotidiano; sulla base di ciò, è emerso come l’autoefficacia percepita abbia sia un effetto diretto sia degli effetti indiretti sulla relazione tra lo stress quotidiano e la salute mentale, intesa come sintomi depressivi, ansia e livelli esperiti di stress. L’effetto diretto, quindi, fornisce da solo protezione verso l’insorgere di problemi legati allo stress quotidiano; gli effetti indiretti, inoltre, da un lato permettono di comprendere la complessità delle relazioni in essere e, dall’altro lato aumentano esponenzialmente le capacità protettive dell’autoefficacia percepita dato che riesce a fornire protezione alla salute mentale della persona anche in modo indiretto, ovvero agendo anche su altre variabili che risultano essere ulteriori fattori protettivi. Concludendo, questo lavoro fornisce un importante spunto a tutti i professionisti che si trovano ad operare con persone che sperimentano elevati livelli di stress, legato principalmente alla quotidianità, dal momento che intervenire sull’autoefficacia, aumentandone la percezione nella persona, riesce a mitigare gli effetti negativi dello stress.

Schonfeld, P., Brailovskaia, J., Bieda, A., Zhang, X. C. & Margraf, J. (2016). The effects of daily stress on positive and negative mental health: Mediation through self-efficacy. International Journal of Clinical and Health Psychology, 16, 1-10.