Rassegna stampa
Rassegna stampa #34
Rassegna stampa #34
Conflitti fra gruppi sociali: cosa fa scattare la scintilla dell’aggressione al gruppo esterno
I conflitti fra gruppi rappresentano da sempre un dilemma sociale, oggetto di interesse e di studio da parte di innumerevoli esperti. Le più frequenti conclusioni di questi studi mostrano come i conflitti all’interno dei gruppi causano comportamenti individuali che possono avere profonde e negative conseguenze sul gruppo in questione, ma raramente hanno fatto emergere le motivazioni che spingono a comportamenti aggressivi nei confronti di gruppi esterni.
Un team di ricercatori tedeschi, tuttavia, è riuscito ad ottenere interessanti risposte in materia, concentrando l’attenzione sul comportamento protettivo da parte degli individui nei confronti del gruppo di appartenenza; questo senso di difesa può condurre a un’azione offensiva sia in senso preventivo, sia in senso reattivo.
Lo studio in questione, effettuato su un campione di 216 studenti, ha ipotizzato che una forte motivazione alla difesa negli individui causerà una sempre più salda prontezza degli stessi a ingaggiare comportamenti rischiosi che danneggino il gruppo esterno.
I risultati dell’esperimento suggeriscono che la motivazione a difendere il gruppo investe non solo coloro che sono direttamente interessati, ma anche chi, in assenza di una minaccia esterna, si comporterebbe da free-rider. l’altra causa di violenza fra gruppi la possibilità di reagire e contrattaccare per limitare le perdite del proprio gruppo, ma è risultato evidente che si realizzano principalmente attacchi motivati dall’idea di difendersi per evitare le perdite: è la logica degli attacchi preventivi. Conseguentemente, perché i membri di un gruppo sviluppino una pacifica competizione sociale che accresca il benessere collettivo piuttosto che alimentarne l’aggressività, è necessaria l’assenza di segnali diretti di una minaccia esterna.
In conclusione, le aggressioni fra gruppi dipendono dalla percezione da parte degli individui di trovarsi in una situazione più o meno vulnerabile. Tuttavia, l’aggressione fra gruppi, a prescindere che sia offensiva o difensiva, rimane collettivamente distruttiva. Infatti, attacchi preventivi causano spesso contrattacchi, nel momento in cui è altamente improbabile la totale eliminazione del gruppo avversario.
È da notare, infine, che una volta che la minaccia di aggressione risulta scomparsa gli individui non manifestano intenzioni aggressive. Per di più, aver la possibilità di osservare la pacifica e innocua cooperazione di gruppi esterni può spingere il gruppo a comportarsi analogamente.
Machiavellismo e popolarità: cosa spinge un ragazzo a diventare bullo?
Negli ultimi decenni il bullismo è stato oggetto di numerose ricerche e tutt’ora gli studiosi si trovano a testare nuovi modelli esplicativi per provare a spiegare questo fenomeno. Di fatto, il bullismo è stato studiato sotto due punti di vista distinti: psicologico e sociale.
Alla psicologia del bullo è stato associato il concetto di “machiavellismo”, quel tratto della personalità caratterizzato da freddezza emotiva, aggressività, disonestà, inaffidabilità e convinzione dell’inaffidabilità altrui, propensione a manipolare gli altri in vista di fini egoistici. D’altro canto gli studiosi sottolineano l’importanza del contesto sociale (la scuola, il gruppo di compagni) in cui il bullismo si manifesta. Difatti, pur essendo un comportamento sotto certi aspetti antisociale (i bulli si pongo obiettivi e scopi antisociali), il bullismo è da considerarsi un fenomeno sociale in senso stretto, in quanto i bulli riescono a esser tali grazie a buone capacità sociali che permettono loro di manipolare i compagni per raggiungere posizioni socialmente dominanti. Esser considerato popolare dai compagni può esser un motivo che spinge a bullizzare, laddove il bullismo è anche un fenomeno di gruppo. Esso può manifestarsi sotto forma di aggressione fisica o relazionale; degli studi rivelano che la prima viene usata per conquistare uno status sociale iniziale, la seconda per mantenerlo; altri, invece, hanno associato la prima strategia ai maschi, mentre la seconda è più diffusa fra le femmine.
Una recente ricerca effettuata su quasi mille alunni tra i 10 e i 13 anni, ha tentato di incrociare la relazione esistente tra bullismo e machiavellismo e quella tra bullismo e popolarità, scoprendo che solo la prima è il cruciale movente che spinge a bullizzare (tutti i bulli manifestano un alto livello di machiavellismo). La popolarità, infatti, è solo un fattore di rischio legato al contesto sociale: dipende da quanto i compagni ritengono ammirevole o deplorevole l’agire del bullo (ed è proprio sul contesto culturale che è bene intervenire per prevenire il bullismo). Per contro, la ricerca non ha confermato delle differenze fra i sessi: ragazzi e ragazze bullizzano pressoché in egual modo.
Sulla base di ciò, quindi, emerge come sia centrale agire sui contesti sociali in ottica preventiva, mentre diventa cruciale agire a livello terapeutico al fine di intervenire sul machiavellismo del ragazzo, quando questo ha già agito comportamenti tipici da bullo.
Illusione di muovere e possedere il proprio corpo: uno studio sulla sinestesia
La sinestesia è un fenomeno percettivo-sensoriale scatenato dalla contaminazione dei sensi durante la percezione. In persone soggette alla sinestesia, ricevere un certo stimolo sensoriale, come un suono, provoca una reazione percettiva tipica di un altro senso. Un particolare tipo di sinestesia, detta MTS, dall’inglese Mirror-Touch Synaesthesia (“sinestesia del contatto a specchio”), induce una persona a percepire di essere toccato quando osserva qualcuno che viene toccato. Degli studi sostengono che circa l’1,6% degli individui sia soggetto, seppure blandamente, alla MTS. Una ricerca dell’Università di Londra ha di recente indagato la MTS, partendo dall’ipotesi che essa sia associata con disturbi di due importanti elementi dell’autoconsapevolezza: il senso dell’azione e il senso del possesso. Il primo si riferisce alla percezione che le azioni di qualcuno siano le sue proprie azioni, il secondo alla percezione che il corpo di qualcuno sia effettivamente il suo stesso corpo. Lo studio verteva sul tentativo di indurre i partecipanti in illusione, prevedendo che quest’ultima avrebbe più facilmente ingannato il gruppo di persone soggette a MTS: avendo uno sperimentatore alle spalle, nascosto da un velo con due soli fori per le braccia, e uno specchio davanti, i partecipanti si ritrovavano ad osservare, specchiati, gesti mossi da mani che non erano le loro, mentre delle cuffie nelle loro orecchie recitavano istruzioni che certe volte corrispondevano ai gesti effettuati dallo sperimentatore, certe altre no. Misurando la capacità di anticipare il movimento, il senso dell’azione e il senso di possesso in ciascun gruppo e in ciascuna condizione, i ricercatori hanno osservato che le persone soggette a MTS hanno sperimentato un più alto livello di senso dell’azione sui movimenti che corrispondevano alle istruzioni vocali, mentre il senso di possesso prescindeva dalla corrispondenza fra istruzioni e gesti, ma era sensibile alle variazioni del senso dell’azione. L’esperimento ha dunque mostrato, per la prima volta rispetto ad altri studi, che alterazioni dell’autocoscienza nella MTS si estendono fino al senso di azione, e ha spinto i ricercatori a supporre che le variazioni dell’elaborazione di queste azioni sono legate a profondi disturbi del senso del possesso.
La creatività di un leader è la creatività dei suoi subalterni: l’importanza della Creative Self-Efficacy
In un’organizzazione come in un’azienda, la creatività è un elemento tutt’altro che trascurabile, definito anzi come una potente arma competitiva dagli studiosi. Numerose ricerche hanno sottolineato l’importanza del ruolo dei leader nell’influenzare la creatività dei propri dipendenti, individuando tre aspetti principali: le caratteristiche personali del leader, i comportamenti del leader, e le relazioni fra il leader e i suoi subordinati. Tuttavia, il primo di questi tre aspetti è stato largamente ignorato da molti ricercatori: proprio in risposta a questa deficienza, un recente studio si è proposto, utilizzando l’approccio socio-cognitivo, di esaminare gli effetti di ciò che gli studiosi nordamericani chiamano Creative Self-Efficacy (CSE) del leader, ovvero l’autoconvinzione di esser in grado di produrre risultati creativi, sulla creatività dei dipendenti. L’assunto è che quando un leader è sicuro delle proprie abilità in un certo ambito, più probabilmente riuscirà a spingere i subalterni a raggiungere gli obiettivi in quel determinato settore. Secondo tale approccio, i leader con un alto livello di CSE risultano essere particolarmente in grado di incoraggiare la creatività dei dipendenti in quanto: la loro sicurezza in loro stessi li rende più motivati, tendono a voler adottare le prospettive diversificate e alternative dei subalterni, sono propensi a considerare un fallimento come un’opportunità per imparare dagli errori. Le ipotesi poste in essere dallo studio sono dunque la relazione positiva tra la CSE del leader e l’incoraggiamento del leader alla creatività; l’esistenza di un positivo effetto indiretto del CSE del leader sulla creatività dei dipendenti; il fatto che un alto livello di scambio e dialogo fra leader e subalterno equilibri la relazione positiva tra l’incoraggiamento del leader alla creatività e l’impegno creativo del subalterno e che rafforzi il positivo effetto indiretto della CSE del leader. Le conclusioni a cui i ricercatori sono giunti non solo confermano le ipotesi poste, ma sottolineano anche l’importanza dell’affidabile e sicuro contesto di un dialogo fra leader e dipendente di alta qualità. I suggerimenti alle organizzazioni che si traggono da questo studio sono dunque di sviluppare programmi di leadership che mirino a promuovere la sicurezza dei leader in loro stessi nel produrre creativamente, e di considerare la CSE nel processo di assunzione di nuovi manager, considerato la ricaduta positiva di tale abilità tanto sulle performance creative del leader stesso quanto su quelle dei dipendenti.