Rassegna stampa
Rassegna stampa #33
Rassegna stampa #33
Al crescere dell’indice di massa corporea aumenta l’ansia sociale?
L’obesità è un problema fisico molto studiato nel panorama scientifico internazionale e molti studi hanno evidenziato una relazione con la salute mentale delle persone. In particolare, è stata evidenziata un’associazione molto forte, soprattutto nelle donne, con l’ansia sociale: un disturbo caratterizzato da una forte paura in situazioni sociali nelle quali si è soggetti a valutazioni da parte di altre persone. Numerosi lavori hanno cercato di spiegare causalmente il nesso tra l’obesità e l’ansia sociale ma i risultati sono tra loro contrastanti. Per cercare di rispondere a tale quesito, due ricercatori australiani hanno condotto uno studio su un campione composto da quasi 100 donne, non selezionate in base al peso, e hanno rilevato l’indice di massa corporea di tali donne, la soddisfazione verso il proprio corpo, il mangiare in modo compulsivo quando si è emotivamente attivati e l’ansia sociale provata. L’ipotesi era che la relazione tra l’indice di massa corporea e l’ansia sociale fosse mediata da almeno una di queste variabili. I risultati hanno mostrato come l’indice di massa corporeo non sia in relazione all’ansia sociale, così come il mangiare in modo compulsivo quando si è emotivamente attivati non è in relazione con nessun’altra variabile indagata. Nonostante ciò, è emerso come la soddisfazione verso il proprio corpo funga da variabile mediatrice tra l’indice di massa corporea e l’ansia sociale: questo risultato, in linea con le ipotesi degli studiosi, sottolinea la necessità da parte dei professionisti di lavorare su variabili personali, proprio come la soddisfazione e l’accettazione del proprio corpo in quanto capace di influire sull’ansia sociale esperita. Di conseguenza, una corretta alimentazione può non essere da sola sufficiente a diminuire i livelli di ansia sociale: per questo motivo, risulta utile affiancare a interventi di natura alimentare un percorso psicologico incentrato sulla percezione di se stessi. Questi risultati sono però influenzati dalle caratteristiche del campione che ha partecipato allo studio, e quindi generalizzabili alle sole donne, mentre non si hanno evidenze circa gli uomini, anche se, come evidenziato in letteratura, l’ansia sociale derivante da una negativa percezione del proprio corpo è una caratteristica prevalentemente femminile.
Insegnare il lessico ai bambini in età prescolare è veramente utile?
Sono molto diffusi programmi che insegnano ai bambini il lessico della propria lingua madre in età prescolare, soprattutto in relazione alle indicazioni dell’UNESCO finalizzate ad aumentare il livello di apprendimento dei bambini nei paesi del terzo mondo, o con maggiori difficoltà nell’accesso a percorsi di studio. Nonostante ciò, non ci sono studi che hanno indagato il vantaggio nell’apprendimento dei bambini che hanno partecipato a tali progetti rispetto a quelli che non hanno preso parte a nessun percorso specifico. A tal proposito, dei ricercatori hanno preso in esame un percorso di apprendimento incentrato sulle competenze legate al vocabolario messo a punto in Cile per i bambini in età prescolare. Gli stessi studiosi hanno scelto tale programma in Cile dal momento che questo paese presenta delle sostanziali diseguaglianze economiche e di opportunità di apprendimento per i bambini. I primi risultati hanno sorprendentemente mostrato un miglioramento molto lieve nelle abilità dei bambini che hanno preso parte a tale programma educativo. Per provare a comprendere le cause di questo risultato, gli studiosi hanno messo a punto un programma di intervento mirato agli insegnati coinvolti in tali progetti: li hanno formati per due anni sui contenuti da insegnare in questo particolare percorso legato all’apprendimento del vocabolario cileno. Solo dopo questo training, sono state misurate le abilità dei bambini legate al percorso di apprendimento e confrontate con le misurazioni precedenti: in tal modo, è stato possibile confrontare gli esiti dei percorsi di apprendimento condotti con insegnanti con e senza lo specifico training. I risultati, a differenza di quanto emerso in precedenza, hanno mostrato dei miglioramenti sostanziali nelle abilità dei bambini che hanno preso parte a tali percorsi tenuti da insegnanti appositamente formati. In base a ciò, quindi, emerge la necessità non solo di istituire programmi educativi volti a diminuire le disuguaglianze nelle possibilità di accesso all’istruzione dei bambini ma anche di istituire degli appositi percorsi formativi per gli insegnanti di tali corsi, in modo tale da poter sfruttare appieno le potenzialità insite a questi progetti.
L’umorismo si attacca?
Nella letteratura scientifica si hanno molti lavori che hanno indagato l’umorismo nei bambini e negli adolescenti: infatti, sono ormai note le variabili cognitive che influenzano la produzione e la comprensione dell’umorismo, così come sono noti gli effetti positivi che l’umorismo ha sull’accettazione sociale e sul benessere psicologico di bambini e adolescenti. Nonostante ciò, tutti i lavori si sono incentrati sul singolo bambino o adolescente senza prendere in considerazione come l’umorismo si formi e si sviluppi nel tempo in una prospettiva sociale; per questo motivo, tre ricercatori inglesi hanno condotto uno studio per comprendere come l’umorismo di un bambino influenzi quello del suo migliore amico e viceversa. In questo modo, gli autori hanno cercato di comprendere lo sviluppo dell’umorismo in una prospettiva diversa, nella quale il bambino non è solo nello sviluppare il proprio senso dell’umorismo. Per fare ciò, hanno misurato più volte nel tempo il senso dell’umorismo in un ampio campione di coppie di migliori amici. Il risultato più sorprendente è che nella prima misurazione i bambini/adolescenti non condividevano la tipologia di umorismo con il proprio migliore amico: per meglio comprendere questo risultato, è importante sottolineare come già all’inizio dello studio le coppie di migliori amici utilizzate erano quelle reali, ovvero i migliori amici che ogni bambino aveva nella propria vita sociale. Differentemente, con il passare del tempo i migliori amici mostravano un umorismo maggiormente similare: in tal senso, sembra che i bambini condividano il proprio umorismo con il proprio migliore amico e insieme giungano ad un nuovo e differente umorismo che sintetizza i due diversi umorismi di partenza. Per meglio comprendere il fenomeno, gli autori hanno testato un modelli di equazioni strutturali all’interno del quale si aveva il senso dell’umorismo della coppia di bambini migliori amici, la loro età e il tempo della rilevazione; senza entrare in dettagli metodologici, questo modello ha mostrato di spiegare in maniera precisa i dati empirici: ciò vuol dire, innanzitutto, che non sono presenti differenze legate al genere, dal momento che tale variabile non è compresa nel modello; in altre parole, il modo in cui l’umorismo si sviluppa in coppie di migliori amici maschi è lo stesso che si ha nelle migliori amiche femmine. Infine, dal presente modello emerge come ci sia una reale co-costruzione del proprio umorismo insieme al proprio migliore amico con il crescere dell’età del bambino.
L’importanza di interventi socio-emotivi in bambini con ADHD
L’ADHD è un disturbo neurofisiologico molto comune e ben conosciuto che è caratterizzato da inappropriati livelli di iperattività e impulsività con deficit di inibizione e attenzione, oltre a disfunzionali risposte sociali ed emotive. Numerosi studi hanno indagato tale disturbo e hanno evidenziato come sia associato a diverse conseguenze problematiche, come scarsi risultati scolastici, ansia, depressione, relazioni familiari non ottimali, comportamenti aggressivi, uso di sostanze e difficoltà nelle relazioni sociali. Inoltre, sono emersi dei deficit nella memoria, nelle abilità legate al linguaggio e nelle funzioni esecutive. Al fine di meglio comprendere come le funzioni esecutive siano connesse all’ADHD, un gruppo di ricercatori spagnoli ha condotto uno studio su un campione di bambini con ADHD valutando le funzioni esecutive prima e dopo un trattamento socio-emotivo: infatti, questi studiosi sono partiti dal presupposto che migliorare le abilità socio-emotive nei bambini con ADHD sia fondamentale per migliorare delle problematiche connesse a tale disturbo, come appunto le funzioni esecutive. Per testare ciò, quindi, hanno misurato le funzioni esecutive in tali bambini prima e dopo il training, evidenziando dei miglioramenti statisticamente significativi in tutte le funzioni esecutive. L’importanza di questo lavoro, quindi, risiede nell’aver svolto un training sulle abilità socio-emotive che ha scientificamente mostrato di migliorare le funzioni esecutive in bambini con ADHD; di conseguenza, può essere molto utile per i professionisti trarre spunto da training di questo tipo, che era così strutturato: un training individuale, articolato in 8 incontri settimanali della durata di un’ora, con l’obiettivo di lavorare innanzitutto sul riconoscimento delle emozioni di base, per poi comprendere quali comportamenti fossero idonei in diverse situazioni sociali; successivamente, gli incontri si focalizzavano sui punti di forza e di debolezza osservati, andando ad utilizzare i primi per potenziare le aree maggiormente carenti. Dopo questo lavoro incentrato sull’individualità del bambino, gli incontri successivi avevano l’obiettivo di lavorare sulle emozioni dei bambini in situazioni nelle quali sono parte di un gruppo e su come controllare ed esprimere correttamente le emozioni provate. In sintesi, quindi, da questo studio emerge come sia particolarmente utile per i professionisti che lavorano con bambini affetti da ADHD instituire dei percorsi individuali socio-emotivi al fine di potenziare le loro funzioni esecutive.