Rassegna stampa
Rassegna stampa #32
Rassegna stampa #32
Le differenze individuali nella moralità
Per molti decenni sono stati condotti numerosi studi sulla moralità: nonostante ciò, in letteratura non è presente una definizione comunemente accettata; alcuni intendono la moralità come un codice universale uguale per tutte le persone, altri come un codice individuale che differisce da persona a persona. Per meglio dettagliare questo costrutto, un ricercatore canadese ha svolto una meta analisi dei lavori presenti in letteratura, con particolare attenzione a come questo costrutto viene misurato. I primi studi sulla moralità risalgono a Piaget che ha teorizzato un processo a due fasi: nella prima fase, il bambino sviluppa la moralità in relazione al suo rapporto con i familiari; successivamente, sviluppa un concetto autonomo di moralità grazie all’interazione con i pari nel contesto scolastico. La teoria che ha ricevuto maggior consenso è stata tuttavia quella messa a punto da Kohlberg, che prevede lo sviluppo della moralità come un processo a sei fasi: nella prima fase, il bambino ha un concetto di moralità completamente egocentrico con comportamenti finalizzati a evitare punizioni; nella seconda fase, che si raggiunge in età prescolare, il bambino mette in atto comportamenti per avere dei benefici personali. Successivamente, la moralità dipende da come gli alti percepiscono il suo comportamento, per poi giungere alla quarta fase dove entrano in gioco anche le aspettative del sistema sociale di riferimento. Nella quinta fase, solitamente, raggiunta nell’adolescenza, si prendono in considerazione anche aspetti legali. L’ultima fase, che non viene necessariamente raggiunta da tutte le persone, descrive un senso universale di obblighi morali e di uguaglianza delle persone. Per testare questo modello, è stata messa a punto un’intervista semi-strutturata che, però, ha dato risultati contrastanti. Ciò potrebbe dipendere da problemi metodologici e psicometrici inerenti lo strumento: per questo motivo, è stato sviluppato un test self-report contente dilemmi morali e sono stati raccolti dati circa le sue proprietà psicometriche. I risultati hanno evidenziato come il modello a sei stadi sia accettabile, ma al tempo stesso sia da preferire un modello a tre stadi che unisce gli stadi 1 e 2, 3 e 4, 5 e 6. A prescindere dalla definizione teorica del costrutto di moralità, sulla quale è necessario che sia svolto ulteriore ricerca, resta prioritario, soprattutto in questo momento storico, mettere a punto degli strumenti che ne rendano possibile una misurazione scientificamente fondata.
Come migliorare le abilità metacognitive negli studenti?
Buone capacità metacognitive sono necessarie per svolgere attività cognitivamente complesse, come leggere e scrivere. La metacognizione può essere divisa in due categorie: conoscenza metacognitiva e attività metacognitive. A proposito di ciò, è stato osservato che la conoscenza è condizione necessaria ma non sufficiente a svolgere buone attività: chi possiede conoscenze metacognitive non sempre le utilizza e questo fenomeno è noto come deficit di produzione. In letteratura è emerso come tale deficit sia riconducibile a tre cause: scarsa flessibilità nell’applicazione delle conoscenze metacognitive, mancanza di conoscenze e sovraccarico cognitivo. È emerso tuttavia che tali deficit possano essere almeno in parte risolti con delle facilitazioni. A tale scopo, due ricercatori giapponesi hanno messo a punto un nuovo modello di facilitazione basato sulla teoria duale del processamento dell’informazione. Per testare tale modello, hanno condotto uno studio su un campione di studenti universitari indagando le differenze nella performance in compiti di revisione dei testi utilizzando aiuti classici o basati sul modello duale di processamento dell’informazione. Senza entrare troppo nel merito della teoria soggiacente, questo modello teorizza l’esistenza di due distinti sistemi cognitivi: il sistema impulsivo e quello riflessivo; tutte le informazioni dapprima vengono analizzate dal sistema impulsivo, che utilizza soluzioni automatizzate, e, nel caso in cui questo non sia sufficiente passano al sistema riflessivo, che quindi richiede maggiori risorse cognitive del sistema precedente. Sulla base di ciò, sono stati creati dei compiti che permettano l’utilizzo di entrambi i sistemi, e non solo del primo in modo tale da migliorare la performance. I risultati hanno mostrato delle performance significativamente migliori in tutti i compiti per il gruppo di persone attribuita casualmente alla condizione di processamento duale dell’informazione. La rilevanza di questo lavoro, quindi, è quella di aprire nuovi scenari applicativi per tutti i bambini con questa tipologia di problemi.
Sviluppare un algoritmo diagnostico per il PTSD
Esiste una relazione tra sincronia/asincronia dell’attività neurale e funzionamento cognitivo. I dati di ricerca dimostrano infatti che un’attività neurale sincrona si rileva nei casi in cui le funzioni cognitive sono intatte, mentre anomalie nella sincronia sono spesso legate a manifestazioni psicopatologiche. È stato recentemente dimostrato, attraverso studi che impiegano l’encefalografia magnetica (MEG), che anomalie nelle interazioni neurali sincrone potrebbero essere considerate un marker biologico nel caso di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD). In questo caso, si suppone che le deviazioni più evidenti a livello di interazioni neurali sincrone nel caso del PTSD siano attribuibili all’elaborazione dell’esperienza traumatica, e al fatto di rivivere i sintomi ad essa associati. Questi dati hanno spinto un gruppo di ricercatori a verificare la possibilità di individuare un algoritmo diagnostico per il PTSD in termini di interazioni neurali sincrone. Per derivare questo algoritmo sono stati utilizzati i risultati raccolti attraverso encefalografie magnetiche e la validità diagnostica delle classificazioni basate sull’algoritmo è stata testata attraverso curve ROC su 1000 diverse rilevazioni. I risultati ottenuti testimoniano l’effettiva validità di questo approccio e avvalorano la possibilità che le interazioni neurali sincrone possano essere considerati un marker biologico del PTSD, dato il fatto che le anomalie rilevate si associamo strettamente al PTSD indipendentemente da diagnosi di comorbilità psichiatrica. Restano da valutare invece le implicazioni relative all’impatto delle differenze di genere in relazione all’attività neurale sincrona.
L’ambiente in cui si vive influenza la rete di relazioni personali?
L’idea dominante del ventesimo secolo era che l’urbanizzazione e, di conseguenza, il vivere in città, avesse un impatto psicologico negativo in termini di solitudine, isolamento sociale e stress, a causa della scarsa integrazione nella comunità e alla mancanza di supporto sociale. In realtà, ciò che si evidenziava è che il fatto di vivere in contesti altamente urbanizzati comportava una modificazione della rete di relazioni personali, che diventava necessariamente più distribuita a livello geografico e caratterizzata da contatti meno frequenti nel tempo, ma che non necessariamente questo comportava una ripercussione negativa a livello personale e nella qualità delle relazioni. Un gruppo di ricercatori spagnoli ha dunque voluto effettuare una ricerca sulla popolazione della città di Alcalá de Guadaíra, nella provincia di Siviglia, mediante una survey e alcuni questionari, per individuare la struttura delle reti personali, i fattori che ne spiegavano la variabilità e l’impatto su questi della mobilità geografica. I risultati di questo studio dimostrano come la coesione strutturale della rete personale dipende dalla mobilità geografica, per cui persone che si spostano molto all’interno della città, ad esempio i pendolari, sono inserite in reti meno dense, rispetto a coloro che sono più radicati su un territorio più circoscritto. Il senso di appartenenza al luogo di residenza sembra inoltre rappresentare un’altra variabile importante che interferisce sulla coesione della rete sociale. Il contesto metropolitano sembra infatti offrire molteplici opportunità, che indeboliscono la connessione della propria rete. La mancanza di coesione nella struttura della propria rete personale e l’indebolimento del senso di appartenenza al territorio non rappresentano tuttavia di per sé degli elementi negativi. L’integrazione in contesti urbani più ampi può essere interpretata nei termini di una maggiore articolazione all’interno del contesto cittadino così come dello sviluppo di una percezione identitaria più flessibile.