Rassegna stampa
Rassegna stampa #2
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Per l’educazione di un bambino è un bene avere insegnanti diversi?
Negli ultimi anni la scuola primaria è stata oggetto di accesi dibattiti, principalmente di natura politica ed economica dovuti, anche, al gran numero di riforme fatte, proposte o ipotizzate. Indipendentemente dalle opinioni in merito, è importante tenere presente come la ricerca scientifica possa dare un contributo alla spiegazione dei fenomeni in questo contesto. In particolare, tre studiosi statunitensi si sono chiesti quale sia l’impatto nella qualità dell’insegnamento del numero di insegnanti che ha uno stesso bambino e della loro turnazione nel corso degli anni. La questione nasce dal fatto che, storicamente, ci si è occupati di dimostrare la relazione esistente tra la qualità dell’insegnamento e variabili proprie dell’insegnante stesso, come ad esempio il suo grado di preparazione ed il suo livello di esperienza, mentre è stato meno indagato l’impatto di variabili connesse al turnover degli insegnanti, sia intraclasse che nel corso degli anni. Il recente studio condotto su un ampio campione di istituti scolastici americani, ha messo in luce come tale discontinuità non solo sia in relazione con la qualità dell’insegnamento ma possa influenzare la relazione che la lega alla preparazione e all’esperienza dell’insegnante stesso. In altre parole, questo lavoro ha messo in luce come la presenza di più insegnati possa produrre dei miglioramenti nell’istruzione del bambino, ad esempio nelle sue competenze linguistiche. Allo stesso tempo, però, questa caratteristica influirebbe in modo negativo sulla qualità della relazione che il bambino riesce a sviluppare con i differenti insegnanti. Al contrario, il fatto che gli insegnanti cambino sistematicamente nel corso degli anni non sembrerebbe offrire benefici da un punto di vista educativo. In sintesi, il risultato più importante che deriva da questo lavoro riguarda il fatto che avere più insegnanti contemporaneamente non necessariamente risulta essere deleterio per l’educazione, e per lo sviluppo, del bambino, mentre il loro avvicendamento nel corso del tempo è sconsigliabile.
La relazione tra qualità e quantità del sonno e attività fisica nelle donne in gravidanza
In passato si pensava che le donne in gravidanza non dovessero fare attività fisica in quanto potenzialmente pericolosa per la salute del feto, e portatrice di complicazioni per quel che riguarda il parto. Recentemente, questa credenza è stata falsificata da numerosi studi presenti nella letteratura scientifica di riferimento che, anzi, hanno evidenziato come in gravidanze senza complicazioni il fatto che la madre svolga una leggera attività fisica, ovvero con un battito cardiaco non superiore ai 170 battiti al minuto, possa avere dei benefici sia per il feto che per la madre, con una conseguente riduzione dell’ansia, dello stress e dei livelli di depressione. Partendo da queste evidenze empiriche e sapendo come le donne in gravidanza possano subire dei significativi peggioramenti nei livelli di quantità e di qualità del sonno, un gruppo di ricercatori americani ha indagato, in un campione composto da 138 donne incinte di età compresa tra 18 e 43 anni, la presenza di una relazione tra qualità e quantità del sonno e attività fisica. A dispetto delle ipotesi dei ricercatori, i risultati hanno evidenziato solo una debole relazione tra le misure oggettive di attività fisica e i vari indicatori del sonno utilizzati, come quantità del sonno notturno, facilità nell’addormentarsi, comparsa di crampi alle gambe durante il sonno e sensazione di sonnolenza durante l’arco della giornata. In particolare, sembrerebbe che l’attività fisica abbia un maggiore impatto sulla probabilità che la madre possa essere affetta da crampi alle gambe durante la notte: ovvero, questo studio ha evidenziato come le donne che durante la gravidanza svolgono una moderata attività fisica siano meno soggette all’insorgere di crampi alle gambe durante il sonno. In conclusione, da questo studio si evince come una moderata attività fisica non solo non crei alcuna complicazione per la gravidanza ma comporti dei benefici, seppur moderati, nella qualità e nella quantità del sonno.
L’essere umano non è un animale
Alla domanda “Che cos’è un animale?” generalmente si tende a rispondere in modo tale da non includere l’essere umano in questa categoria, salvo poi ricredersi una volta posta la domanda diretta. Questo è quello che molto spesso accade negli adulti. Tre studiosi americani si sono posti la stessa domanda in riferimento ai bambini: ovvero, i bambini includono gli esseri umani nel macro insieme degli animali? Precedenti studi hanno mostrato come i bambini includano animali, in senso stretto del termine, ed esseri umani all’interno del più ampio insieme di esseri viventi o animati, senza però esplicitamente riferirsi al concetto di animali. Gli autori di questo studio, hanno raccontato delle storie con animali ed esseri umani ad un campione di bambini di età compresa tra tre e cinque anni, dal momento che ricerche precedenti hanno evidenziato come in quest’età si abbiano dei cambiamenti in merito al ragionamento dei bambini in questo dominio. I bambini dovevano riconoscere di quale animale si stava parlando, ad esempio cane o essere umano, e poi rispondere alla domanda se questo fosse un animale o no. I risultati hanno evidenziato come i bambini di 5 anni includano l’essere umano nella categoria di animali, mentre ciò non si verifica con i bambini più piccoli. In particolare, è stato osservato come la maggior parte dei bambini di tre anni risponda negativamente alla domanda esplicita se l’essere umano sia un animale. Per concludere, nonostante il fatto che gli adulti tendano a non categorizzare l’essere umano come un animale in modo immediato, sembra che ad un’età di cinque anni i bambini siano già in grado di riconoscere la natura animale dell’uomo.
Le differenze di genere nel volume cerebrale non sono connesse all’intelligenza generale
L’intelligenza delle persone dipende, almeno in parte, da alcuni fattori fisici del cervello, come ad esempio la densità neuronale e l’integrità delle connessioni presenti nel cervello. In letteratura è stato ampiamente dibattuto se il fattore g di intelligenza generale sia correlato alla grandezza fisica del cervello. Inoltre, è stato attestato come gli uomini abbiano un cervello fisicamente più grande di circa il 10% rispetto a quello delle donne. Questo dato è stato utilizzato come spiegazione del fatto che in alcuni studi sono state riscontrate delle differenze significative nel fattore g in favore degli uomini. A differenza di ciò, altri studi condotti a livello internazionale non hanno replicato lo stesso pattern di risultati concludendo che tale differenza di genere nell’intelligenza generale sia così piccola da poter essere trascurata. Con l’obiettivo di fare chiarezza su questo dibattito, un gruppo di ricercatori americano ha somministrato dei test per la misurazione dell’intelligenza fluida, cristallizzata e visuo-spaziale ad un campione di 100 adulti e ne ha registrato la grandezza della calotta cranica. I risultati hanno mostrato come le differenze nell’ampiezza fisica del cervello non siano connesse alle differenze di genere nel fattore g: infatti, non sono state registrate differenze significative nell’intelligenza generale degli uomini e delle donne, seppure queste ultime avessero una calotta cranica inferiore, in linea con i risultati già evidenziati in letteratura. Nonostante ciò, i risultati di questo studio hanno mostrato delle differenze significative tra maschi e femmine in alcune abilità specifiche: ad esempio, i maschi ottengono una prestazione migliore delle femmine in merito alle capacità di rotazione delle figure solide. In sintesi, l’oggettiva maggiore grandezza del volume cerebrale degli uomini non sembra determinare più elevati livelli di intelligenza generale, mentre sembrerebbe produrre dei vantaggi per quel che concerne l’intelligenza visuo-spaziale.