Rassegna stampa
Rassegna stampa #15
Rassegna stampa #15
La soggettività nella valutazione del feedback
Le reazioni dei dipendenti ai feedback dei loro superiori è una variabile centrale e capace di predire ampiamente i comportamenti lavorativi futuri e, quindi, la loro performance. Nella letteratura scientifica questo viene chiamato stima della performance. Va sottolineato inoltre il fatto che le reazioni ai feedback non sono uguali da parte di tutte le persone e variano a seconda della positività o negatività del feedback ricevuto. Numerosi studi si sono concentrati sulle reazioni ai feedback avendo come focus il fatto che questi siano positivi o negativi. Nonostante ciò, un team di ricercatori americano ha condotto uno studio al fine di indagare le differenze individuali nelle reazioni dei dipendenti ai feedback ricevuti dai loro superiori concentrandosi non solo sulle caratteristiche del feedback ricevuto ma soprattutto su una variabile di personalità dei dipendenti stessi: l’orientamento agli obiettivi. Per fare ciò, hanno somministrato una batteria si strumenti ad un campione di oltre 200 dipendenti statunitensi. I risultati di questo studio sono plurimi: innanzitutto, è emerso come le persone ricordino in maniera più precisa e obiettiva i feedback positivi rispetto a quelli negativi, confermando così un filone di studi già presente nella letteratura scientifica di riferimento. Di maggior interesse, invece, l’importanza data al feedback ricevuto, che determina poi gli effetti sulla performance già evidenziati, che è stata vista variare in funzione della tipologia di feedback e dell’orientamento ai risultati delle persone. In altre parole, in alcune persone sembrano funzionare meglio dei feedback positivi mentre in altre dei feedback negativi; in particolare, appare che le persone orientate ad apprendere nuove modalità di risoluzione dei problemi preferiscano ricevere dei feedback negativi contenenti informazioni utili alla loro crescita professionale. In sintesi, questo lavoro mette in luce come non esista una modalità univoca di gestione del feedback da parte del managament ma come questo debba essere modulato prendendo in considerazione le caratteristiche di personalità del dipendente che di volta in volta ci si trova di fronte.
La felicità è contagiosa?
Storicamente gli psicologi si sono maggiormente occupati degli stati d’animo negativi piuttosto che di quelli positivi. Fortunatamente, negli ultimi anni questo trend è diminuito ed è aumentato l’interesse verso gli stati d’animo positivi, primo tra i quali la felicità. Ciò dipende dall’elevata relazione che gli stati d’animo positivi hanno con variabili quali la longevità, la salute e, anche, la performance lavorativa. La maggior parte degli studi presenti nel panorama scientifico si è concentrata sulla quantificazione dell’influenza genetica nella determinazione della felicità: queste ricerche, condotte su campioni composti da gemelli, hanno evidenziato come circa il 40%-50% della varianza del costrutto di felicità sia spiegabile da differenze genetiche, mentre la restante parte dipende principalmente da differenze ambientali. Tre ricercatori americani, però, hanno notato come gli studi condotti sui gemelli non prendano in considerazione l’ipotesi che la felicità sia contagiosa, ovvero che la stessa percentuale in comune tra i gemelli dipenda non dalla genetica ma dall’ambiente familiare. Per testare questa ipotesi, hanno condotto uno studio su un ampio campione di famiglie con dei bambini adottivi, che sono risultate felici sulla base dei risultati ad un questionario compilato prima dell’affidamento, in modo tale da controllare l’influenza del corredo genetico delle persone: ciò significa che, nei casi in cui venissero riscontare delle elevate correlazioni tra le misure di felicità in queste persone ciò dipenderebbe dal contagio che dalla famiglia adottante si espanderebbe ai figli adottivi. Al fine di controllare l’impatto dell’adozione tali misure sono state registrate almeno tre anni dopo l’affidamento. I risultati, però, hanno evidenziato delle correlazioni molto basse atte a testimoniare come la felicità non sembri essere contagiosa. In sintesi, questo studio non conferma la trasmissibilità genetica della felicità ma non fornisce una spiegazione alternativa al fenomeno basata sulla teoria che la felicità sia contagiosa e, quindi, trasmissibile tra persone che condividono lo stesso ambiente familiare.
L’orientamento sessuale nel riconoscimento dei volti
Nelle ricerche psicologiche le variabili dei partecipanti che vengono solitamente rilevate riguardano sesso, età e mano dominante, laddove questa è necessaria. Sulla base di ciò, tre ricercatrici tedesche evidenziano come anche l’orientamento sessuale debba essere rilevato nei casi in cui possa incidere sui risultati dello studio. A riprova di ciò, citano il contesto della ricerca in merito al riconoscimento dei volti dove tale informazione viene sempre omessa; in tale contesto, c’è accordo sul fatto che le donne riconoscano più volti degli uomini, soprattutto per quello che concerne il riconoscimento di volti femminili indipendentemente dall’età, dall’etnia e dalla composizione del volto, ovvero se con i capelli o solo stilizzato. Inoltre, le donne riconoscono meglio volti femminili rispetto a quelli maschili mentre nei maschi questa differenza non è chiara dal momento che differenti studi sono giunti a risultati contrastanti. Al fine di indagare l’influenza dell’orientamento sessuale in questo tipo di compiti, le tre ricercatrici hanno svolto uno studio su un ampio campione di oltre 1000 volontari somministrando un compito online di riconoscimento dei volti, oltre ad un breve questionario contenente dati anagrafici, tra i quali appunto l’orientamento sessuale. I risultati di questo studio sono particolarmente interessanti: innanzitutto, è stato confermato come le donne, di qualsiasi orientamento sessuale, riconoscano più volti degli uomini. Inoltre, gli uomini omosessuali hanno riconosciuto più volti maschili di quelli femminili, viceversa per quel che concerne gli uomini eterosessuali. Le autrici hanno provato a spiegare tali risultati secondo un’ipotesi evoluzionistica secondo la quale le donne debbano prestare maggiore attenzione ai volti delle altre donne rispetto a quanto gli uomini debbano fare con volti dello stesso sesso; un’altra spiegazione riguarderebbe il fatto che le donne non siano influenzate nel riconoscimento di un volto da quanto questo sia attraente, come invece avviene per gli uomini. In sintesi, questo studio evidenzia come l’orientamento sessuale possa essere considerata una variabile demografica che, in talune occasioni, debba essere rilevata al fine di meglio interpretare alcuni fenomeni psicologici oggetto di studio.
Gli studenti universitari e il suicidio
Negli USA, e non solo, il suicidio continua ad essere il maggior problema per la salute pubblica tra gli studenti universitari, restando la terza causa di morte nelle persone tra 18 e 24 anni. Infatti, i giovani hanno una probabilità maggiore di sviluppare un’ideazione suicidaria e di sviluppare dei piani per metterla in pratica: il 6% degli studenti universitari americani ha pensato di togliersi la vita, e tra questi il 38% ha un piano per farlo e ben il 14% ha tentato almeno una volta di eseguirlo. Da qui, l’importanza della ricerca scientifica nel cogliere le cause di tali condotte. Il fattore di rischio principale negli studenti universitari è la depressione e il sentirsi senza speranza; ovviamente, non tutti gli studenti che soffrono di depressione hanno tentato il suicidio. Un altro fattore di rischio sembra essere la delinquenza, anche se i risultati sono contrastanti tanto che in un lavoro è emerso come la delinquenza possa fungere da fattore protettivo verso i comportamenti suicidari. Partendo da questi presupposti, e alla luce del fatto che la maggior parte degli studi condotti hanno analizzato tali variabili separatamente, tre studiosi americani hanno condotto una ricerca su un ampio campione di studenti di psicologia misurando contemporaneamente tutte queste variabili. I risultati hanno innanzitutto confermato la portata del problema dal momento che il 22% degli intervistati ha dichiarato di avere pensato al suicidio e il 10% ha tentato di farlo almeno una volta. Gli autori, inoltre, hanno cercato di comprendere il delicato fenomeno vedendo, al contrario di quanto emerso precedentemente in letteratura e in linea con l’ipotesi teorica di partenza, che i comportamenti criminali agiscono da mediatori tra la depressione, il sentirsi senza speranza e i tentativi di suicidio. Ovvero, le persone con la maggior probabilità di mettere in atto tale condotta sono i ragazzi con problemi di depressione, la quale predice fortemente la possibilità di mettere in atto condotte delinquenziali, le quali, a loro volta, predicono la probabilità di comportamenti tesi a togliersi la vita. In sintesi, da questo studio appare evidente come si debba tenere in grande considerazione il problema del suicidio negli studenti universitari e come si possa agire non solo sulle cause psicopatologiche di tali condotti ma, anche, attraverso politiche di recupero e reintegro sociale.