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numero 14 - febbraio 2014

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #14

Rassegna stampa #14

I valori come possibili mediatori delle conseguenze negative del razzismo

Il tema del razzismo è sempre più presente nella cronaca quotidiana e suscita ancora una grande attenzione da parte dei media e non solo. Innanzitutto, è opportuno evidenziare come nella letteratura scientifica psicologica il razzismo sia definito come credenze, atteggiamenti e azioni che denigrano degli individui o dei gruppi a causa di caratteristiche fenotipiche o per affiliazione a determinati gruppi etnici. Sulla base di ciò, quindi, si evince come il fenomeno del razzismo sia enormemente complesso dato che chiama in causa differenti ambiti ed aspetti; l’importanza di combattere questo fenomeno è attestata da numerosi studi americani che hanno evidenziato come le vittime di razzismo tendano a presentare maggiori sintomi psicopatologici, come depressione, ansia, somatizzazione e paura. Questo studio si prefigge l’obiettivo di indagare la possibilità che i valori personali delle vittime di episodi razzisti possano fungere da mediatori rispetto a queste conseguenze negative. La premessa deriva dal fatto che in alcuni studi di laboratorio è emerso come un lavoro sui valori personali possa diminuire l’impatto di esperienze stressanti. Su un campione di 36 persone di colore, gli studiosi hanno cercato di comprendere se questo fenomeno possa essere esteso a stressor derivanti da episodi di razzismo. I risultati di questo studio condotto in laboratorio, e questo risulta forse esserne il limite principale, evidenziano come già dei lavori molto brevi sull’impianto valoriale delle persone possano avere degli effetti significativi sulla riduzione delle conseguenze negative per le persone vittime di razzismo come, ad esempio, una diminuzione di stress percepito e di sentimenti negativi. In sintesi, questa ricerca permette di identificare i valori personali come una potenziale fonte di inibizione delle reazioni negative derivanti da episodi di razzismo: per questo motivo, gli stessi autori concludono suggerendo come, nella pratica clinica, un lavoro sui valori personali sia consigliabile in questi casi al fine di ridurre, o quantomeno contenere,le accertate conseguenze negative che il razzismo porta con sé.

West, L. M., Graham, J. R. & Roemer, L. (2013). Functioning in the face of racism: preliminary findings on the buffering role of values clarification in a black American sample. Journal of Contextual Behavioral Science, 2, 1-8. 

 

L’integrità e l’onestà nei leader

La centralità del ruolo dei leader nelle organizzazioni è ormai ampiamente accettata, non solo dalla comunità scientifica ma anche dalle persone che operano all’interno delle organizzazioni stesse. Un fattore, invece, sottovalutato riguarda l’importanza che i leader siano onesti e si comportino seguendo l’etica e la morale: una recente ricerca ha visto come i leader stessi riconoscano questo fattore come il più importante per essere un leader di successo, seguito dalla competenza. Partendo da questo presupposto due ricercatori hanno pubblicato una breve rassegna per fare luce su cosa si intenda per leadership etica. In primo luogo, all’interno del contesto organizzativo, un leader per essere veramente etico deve riuscire ad integrare tre differenti approcci al problema: intenzioni, comportamenti e conseguenze. In altre parole, per essere etico un leader deve avere delle buone intenzioni, dei comportamenti in linea con tale etica e le conseguenze delle sue azioni devono rispettare questi principi. A tal proposito, è opportuno sottolineare come tutte queste sfaccettature siano condizioni necessarie ma non sufficienti: infatti, gli autori evidenziano come un leader etico debba riuscire a coniugare tutti e tre gli aspetti. Ciò è reso complicato, sempre secondo i ricercatori, da una serie di difficoltà quali: la mancanza di condivisione tra i membri di un’organizzazione di cosa sia etico, il fatto che i leader commettano errori e il conflitto di interessi personali e organizzativi cui è sottoposto il leader. Per cercare di ovviare a tali ostacoli, un’organizzazione dovrebbe supportare i propri leader in questa sfida chiave in più modi: da un lato promuovendo una cultura della moralità, anche per esplicitare quale significato tutto i membri dell’organizzazione dovrebbero dare a tale termine, ad esempio con un serio e scrupoloso codice etico, e dall’altro incentivando azioni di questo tipo attraverso una serie di ricompense e punizioni. Concludendo, l’importanza di questo articolo è dettata principalmente dal porre la questione di azioni morali ed etiche dei leader come valore aggiunto per un’azienda in grado di migliorarne la competitività e, quindi, il fatturato.

Quick, J. C. & Goolsby, J. L. (2013). Integrity first: ethics for leader and follower. Organizational Dynamics, 42, 1-7. 

 

La cura degli anziani

In Europa l’età media della popolazione si sta alzando, tanto che la percentuale di persone anziane, ovvero con almeno 65 anni di età, è in costante aumento. Ovviamente, questo ha enormi ripercussioni, oltre che sul piano sociale, su quello sanitario dal momento che le persone anziane presentano maggiori problemi di salute rispetto ai membri più giovani della popolazione. Nonostante ciò, la maggiore preoccupazione ha da sempre riguardato gli aspetti fisici dello stato di salute degli anziani e non quelli mentali. Partendo da questo presupposto due studiosi svizzeri hanno condotto una rassegna in merito agli aspetti della salute mentale nella popolazione anziana del loro Paese. Questo studio è risultato molto interessante dal momento che evidenzia come questi aspetti non debbano essere trascurati: infatti, emerge come circa il 13% dei soggetti soffra di disturbi mentali. In particolare, nel sottogruppo di persone anziane le problematiche più diffuse sono nell’ordine: depressione, demenza, ansia, disturbi legati al sonno. Il problema principale riguarda l’accesso di queste persone alle cure sanitarie  e la diagnosi di questi stessi disturbi. Infatti, gli autori stimano che solo un terzo di queste persone riceva l’effettiva diagnosi del proprio disturbo, solo un quarto riceva delle cure farmacologiche e solo un quinto inizi un percorso psicoterapeutico. Da qui, l’esigenza di ripensare l’intero sistema sanitario al fine di migliorare questi aspetti relativi alla diagnosi e cura dei problemi mentali nelle persone anziane. In sintesi, senza voler identificare il modello svizzero come quello migliore, l’importanza di questo articolo risiede soprattutto nell’identificazione di questi aspetti troppo spesso trascurati e nella stima accurata della quantità di persone anziane che possono aver bisogno di aiuto nella diagnosi e nel trattamento di questi disturbi.

Bährer-Kohler, S & Hemmeter, U. (2013). Aspects of mental health care provision of the ederly in Switzerland. Geriatric Mental Helath Care, 1, 11-19. 

 

La prevenzione dagli stressor psicosociali cura il cancro?

Il cancro è una delle prima cause di morte nei paesi industrializzati ed è accertato come una buona prevenzione dipenda in larga parte dallo stile di vita delle persone, ad esempio evitando comportamenti dannosi come il fumo. Al di là di ciò, in letteratura è emerso come l’esposizione a stressor psicosociali influisca sulle probabilità di contrarre il cancro dal momento che tale esposizione diminuisca le difese immunitarie delle persone. Infatti, numerosi studi presenti nella letteratura scientifica nazionale ed internazionale attestano come gli stressor psicosociali portino a numerosi problemi per la salute delle persone, compreso il cancro. Partendo da questo stato dell’arte un pool composto da tre ricercatori americani attraverso degli studi condotti sia in laboratorio, manipolando gli stressor psicosociali ai quali sottoporre dei roditori, sia in ospedale hanno cercato di indagare gli effetti che tale tipologia di stressor ha  sull’evolversi della malattia. La prima evidenza riguarda l’elevata comparabilità dei risultati ottenuti in laboratorio sugli animali con quelli relativi all’uomo. Il risultato più importante attesta come l’assenza di stressor psicosociali possa aiutare una persona a guarire dal cancro: infatti, sembra che l’esposizione a tali stressor, attraverso la conseguente produzione di una serie di ormoni la cui natura è alquanto complessa ed esula dagli obiettivi di questo breve resoconto, aumenti la probabilità che le cure cui si sottopongono le persone malate di cancro risultino inefficaci. Per concludere, questo studio fornisce supporto scientifico a ciò che tutti già pensavano; l’importanza, però, dipende dal fatto che il supporto scientifico qui mostrato determini una maggiore assunzione di responsabilità da parte degli istituti per la cura dei pazienti affetti da cancro e, non secondariamente, da parte delle famiglie dei pazienti stessi: infatti, solo attraverso una reale sinergia tra tutte queste componenti è possibile ridurre al minimo l’esposizione agli stressor psicosociali in modo da aumentare la probabilità di guarigione.

Powell, N. D., Tarr, A. J. & Sheridan, J. F. (2013). Psychosocial stress and inflammation in cancer. Brain, Behavior, and Immunity, 30, S41-S47.