Rassegna stampa
Rassegna stampa #13
Rassegna stampa #13
Come è cambiata l’abitudine al fumo negli ultimi decenni
Uno dei temi fondamentali della ricerca scientifica in ambito sanitario e psicologico dell’ultimo secolo è stato quello di comprendere le conseguenze per la salute derivanti dal fumo di sigarette, e i risultati sono chiari e condivisi circa i pericoli derivanti da questa pratica. Negli ultimi trenta anni nei paesi più sviluppati è diminuito il numero di fumatori, mentre nello stesso periodo è aumentato nei paesi in via di sviluppo. Nonostante l’esistenza di un gran numero di studi sul tema del fumo, non esistono molti lavori che hanno indagato la relazione tra genere e status socio economico rispetto all’essere abituali fumatori di sigarette. Con l’obiettivo di descrivere in maniera puntuale queste caratteristiche, un gruppo di ricercatori statunitensi ha analizzato una gran mole di dati rispetto ai comportamenti di fumo delle persone a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso. I risultati hanno evidenziato come il numero di fumatori sia effettivamente diminuito ma non perché le persone che fumavano sigarette abbiano smesso ma in funzione del fatto che negli ultimi anni meno persone hanno iniziato a fumare: ad esempio, alla fine degli anni sessanta fumavano molte più adolescenti rispetto ad ora. In particolare, queste ragazze hanno continuato a fumare anche da adulte; questo risultato, tra l’altro, differisce rispetto a quanto evidenziato nei maschi nati nello stesso periodo dal momento che una maggior percentuale di adolescenti fumatori con il passare degli anni ha cambiato tale comportamento. Inoltre, è emerso come persone con uno status socio economico basso e senza titoli di studio universitari siano più propense al fumo. Concludendo, questa ricerca ha messo in luce come nel corso degli anni il comportamento relativo al fumo di sigarette sia diverso tra maschi e femmine, con i primi più propensi a smettere di fumare, e come un titolo di studio elevato e uno status socio economico medio alto, che sappiamo essere in relazione al titolo di studio stesso, siano fattori protettivi rispetto alla probabilità di diventare fumatori di sigarette, con tutte le conseguenze negative per la salute che questo comporta.
Il ruolo dell’ansia e della paura nella velocità di guida
La velocità è una delle principali cause di incidenti stradali, ed è determinata da un insieme di variabili interne al conducente ed esterne, come ad esempio il traffico e le condizioni meteorologiche. Negli ultimi cinquanta anni sono stati proposti diversi modelli motivazionali per cercare di comprendere il comportamento di guida delle persone: tali modelli differiscono per quel che concerne le assunzioni ma la maggior parte attesta la centralità della sfera emotiva del conducente. Al fine di dettagliare l’incidenza della paura e dell’ansia provata dal conducente uno studioso tedesco ha analizzato separatamente l’influenza di queste due emozioni rispetto alla velocità di guida delle persone. I risultati hanno evidenziato come al crescere della paura diminuisca la velocità di guida, così come al crescere dell’ansia provata. Oltre a questi risultati abbastanza evidenti, emerge come non ci sia una relazione tra ansia e paura durante la guida: ovvero, il provare paura non sembra avere effetti rispetto all’ansia percepita. In particolare, la paura risulta essere connessa a condizioni oggettive di difficoltà: cambiamento delle condizioni della strada, traffico e avverse condizioni meteo, in quanto questo indurrebbe un maggior timore di avere incidenti che determinerebbe la diminuzione della velocità. A differenza di ciò, l’ansia sembra essere connessa alla motivazione del conducente: ovvero, si genera ansia quando si ha una maggior discrepanza tra la motivazione ad andare veloce, ad esempio dovuta a raggiungere la meta il prima possibile, e al diminuire delle condizioni di sicurezza della guida. Per concludere, l’importanza di questo lavoro è principalmente l’aver contribuito a distinguere due cause emotive della guida troppo veloce; l’autore stesso ha proposto, quindi, due diverse strategie per far diminuire la velocità dei conducenti agendo da un lato sulla paura e dall’altro sull’ansia delle persone. Nel primo caso, ritiene opportuno effettuare delle campagne pubblicitarie con messaggi che illustrano le conseguenze derivanti da una guida troppo veloce, mentre nel secondo caso l’autore stesso propone di generare un conflitto motivazionale nel conducente, capace di incrementare l’ansia provata, ad esempio con messaggi quali “Preferisci guidare veloce o guidare sicuro?”.
Lo stile “Italiano” di attaccamento
Negli ultimi trenta anni si sono moltiplicate le ricerche in merito alle teorie dell’attaccamento, sia nel contesto scientifico internazionale sia in quello nazionale; tali studi hanno confermato la valenza universale della teoria dell’attaccamento anche se sono state trovate delle peculiarità locali derivanti dai differenti contesti sociali presenti nei vari paesi. All’interno di questo filone di studi, non è stata indagata nel contesto italiano la presenza di eventuali specificità nell’attaccamento: ciò, è particolarmente interessante dal momento che la cultura italiana è diversa rispetto ad altre e si caratterizza per un mix di individualismo e collettivismo; oltre a ciò, in Italia è presente una grande influenza della religione Cattolica che potrebbe in qualche modo determinare qualche differenza rispetto a quanto evidenziato in altri paesi occidentali. Per rispondere a questo interrogativo, un pool di ricercatori italo-olandese ha condotto una meta analisi così da valutare l’universalità dell’attaccamento nel contesto culturale e sociale italiano. I risultati mostrano, in linea con quanto evidenziato in altri paesi occidentali, che la maggioranza dei bambini (53%) e degli adulti (60%) ha sviluppato uno stile di attaccamento sicuro, e che non ci sono delle differenze di genere. In base a ciò, l’universalità della teoria dell’attaccamento pare essere confermata, anche se sono emerse delle specificità italiane. Ad esempio, rispetto alla distribuzione normativa, in Italia si ha un più elevato numero di attaccamenti evitanti; ciò sembra essere dovuto al fatto che le madri italiane ritengono il processo di sviluppo del figlio come naturale deresponsabilizzandosi di più rispetto a quanto fanno le madri di altri paesi occidentali; inoltre, le mamme italiane attribuiscono maggiore importanza all’aspetto sociale del bambino incoraggiando interazioni con pari: rispetto ad altre culture, come quella americana dove viene sviluppata in maniera quasi esclusiva la sola relazione duale tra madre e bambino, si ha un approccio maggiormente collettivistico. Inoltre, a differenza di quanto emerso negli altri contesti in Italia si ha un minor numero di attaccamenti disorganizzati: secondo gli autori, questo potrebbe essere almeno in parte spiegato dalla forte influenza della religione Cattolica nel nostro contesto socio-culturale. In sintesi, questo lavoro ha evidenziato come lo stile d’attaccamento “Italiano” sia simile a quello riscontrato in altri paesi occidentali, ma presenti delle proprie peculiarità non tanto per quel che concerne lo stile sicuro di attaccamento, quanto negli stili evitante e disorganizzato.
Indizi di intenzione suicidaria negli scritti di Marilyn Monroe
La morte di Marilyn Monroe per overdose di barbiturici nell’agosto del 1962 ha avuto grandissimo eco in tutto il mondo, ed è stata catalogata come probabile suicidio nonostante la presenza di numerose tesi molto diverse tra loro. Senza entrare nel merito della causa della morte, tre ricercatori spagnoli hanno condotto uno studio sugli scritti di Marylin per rintracciare la presenza di segnali in merito alle sue intenzioni, attraverso un’analisi qualitativa degli scritti molto utilizzata in suicidiologia. Nella biografia dell’attrice si evince come la stessa abbia avuto spesso dei comportamenti autolesionistici e come non fosse soddisfatta della sua immagine pubblica. Lo studio ha diviso la vita di Marylin in 4 periodi cronologici, e i risultati mostrano come nel terzo periodo negli scritti di Marylin siano molto diminuite le parole lunghe, per poi aumentare nell’ultimo periodo, probabilmente in virtù dei suoi sforzi di migliorare la sua educazione. Ciò indicherebbe, secondo gli autori, una diminuzione nella complessità cognitiva dell’attrice. Inoltre, è stata registrata una diminuzione nell’uso di parole riguardanti emozioni negative, in linea con altri studi che hanno indicato tale fattore come connesso all’intenzione suicidaria. Sempre in accordo con la letteratura scientifica, è stato registrato un aumento nell’utilizzo dei pronomi, soprattutto prima e terza persona singolare. Oltre a ciò, è stata osservata una differenza significativa nel’uso dei pronomi di prima persona singolare e plurale: secondo gli autori, questo confermerebbe una sensazione di isolamento e solitudine provata da Marylin. Per concludere, senza entrare nella diatriba sulle cause della morte di Marylin o sulle possibile azioni preventive che avrebbero potuto essere messe in atto, questo studio è molto interessante soprattutto per la metodologia utilizzata e consente di aumentare la consapevolezza su quanto viene fatto nel campo della suicidiologia.