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numero 12 - novembre 2013

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #12

Rassegna stampa #12

Ansia, depressione e sintomi somatici nei pazienti con cardiopatie congenite

Negli ultimi decenni sono stati fatti grandi passi in avanti nel trattamento delle cardiopatie congenite: molti neonati con tali problemi riescono a sopravvivere e circa 4 adulti su 1000 ne soffrono. Questo gruppo di pazienti può inoltre sviluppare altre problematiche psicosociali derivanti dal grande numero di cure alle quali si sottopongono che necessariamente hanno delle ripercussioni sula vita sociale dei pazienti stessi. Nonostante ciò, solo pochi studi si sono occupati di studiare queste conseguenze e con risultati non del tutto chiari: per questo motivo è stato condotto uno studio da un gruppo internazionale di ricerca su un ampio campione di adulti sani e di adulti che soffrono di cardiopatie congenite. I risultati hanno evidenziato come questi pazienti abbiano maggiori livelli di ansia rispetto agli altri adulti, mentre non sono state registrate delle differenze significative per quel che concerne la depressione. Allo stesso modo, riportano un numero maggiore di sintomi somatici. Un risultato molto interessante riguarda l’influenza delle variabili anagrafiche: nonostante nella popolazione sana sia accertato come le donne abbiano maggiori livelli di ansia e depressione e riportino con maggior frequenza sintomi somatici, nel campione di pazienti con cardiopatie congenite non sono state trovate differenze significative in base a sesso ed età in tutte e tre queste variabili. A differenza di ciò, e analogamente a quanto osservato nella popolazione generale, nel gruppo di pazienti con cardiopatie congenite un minor status socio economico è associato sia a maggiori livelli di ansia e depressione sia a un maggior numero di sintomi somatici. Per concludere, questo studio mette in luce come pazienti con cardiopatie genetiche, che sono sottoposti ad un gran numero di cure mediche nella loro vita quotidiana, oltre a dover lottare con la loro malattia hanno anche una probabilità maggiore degli altri di soffrire di ansia e depressione e di manifestare sintomi somatici: per questo motivo, quindi, diventa centrale affiancare alla terapia medica per il trattamento della cardiopatia congenita altri supporti in grado di prevenire e, laddove necessario, curare anche questi disturbi al fine di migliorarne la qualità della vita.

Eslami, B., Sundin, Ö, Macassa, G., Khankeh, H. R. & Soares, J. J. F. (2013). Anxiety, depressive and somatic symptoms in adults with congenital heart disease. Journal of Psychosomatic Research, 74, 49-56. 

 

Le figlie sane di persone con problemi di depressione danno più importanza alle informazioni negative

La depressione è un disturbo molto noto e sul quale sono stati condotti tantissimi studi e ricerche che, tra le alter cose, hanno attestato come ci sia una componente genetica, stimata tra il 30 e il 40%, nell’ereditarietà del disturbo. Una delle caratteristiche centrali della depressione riguarda il fatto che le persone diano maggiore importanza, processino, analizzino, elaborino e ricordino meglio le informazioni negative rispetto a quelle positive, in misura molto maggiore rispetto alle persone che non soffrono di depressione, soprattutto per quel che riguarda la sfera affettiva. Lo studio qui presentato si è proposto l’obiettivo di indagare se tale bias affettivo sia presente anche in ragazze senza storia di depressione ma con genitori che ne soffrono, in modo tale da testare preliminarmente l’ipotesi che non fosse solo il disturbo depressivo ad essere geneticamente trasmissibile. I risultati mostrano come donne non depresse ma con un più elevato rischio di sviluppare il disturbo si differenziano significativamente rispetto a donne non depresse e senza familiari affetti da depressione per quel che concerne questo bias affettivo: ovvero, elaborano un numero maggiore in informazioni negative soprattutto nella sfera emotiva e affettiva. La forza di tale differenza è talmente elevata che tale sottogruppo di donne non si differenzia in tale variabile rispetto ad un campione di donne con una diagnosi di depressione; questo risultato, però, secondo gli autori può essere in parte spiegato dal fatto che le donne con diagnosi di depressione assumono degli psicofarmaci che influiscono sull’elaborazione e il ricordo di informazioni negative. Oltre a ciò, i risultati di questo studio mettono in luce altre un’altra importante caratteristica: questo sottogruppo di donne non si differenzia rispetto alle altre donne in merito allo stesso bias in senso opposto; in altre parole, non sembrano processare meno delle altre le informazioni positive. Per concludere, questo studio evidenzia che non solo la depressione è parzialmente ereditaria ma lo sembrano essere anche i correlati cognitivi che influiscono sulla sfera emotiva delle persone, aprendo numerose ipotesi di trattamento per i professionisti del settore.

van Oostrom, I., Franke, B., Arias Vasquez, A., Rinck, M., Tendolkar, I., Verhagen, M., van der Meij, A., Buitelaar, J. K. & Janzing, J. G. E. (2013). Never-depressed females with a family history of depression demonstrate affective bias. Psychiatry Research, 205, 54-58. 

 

Gli esami tossicologici in pazienti psichiatrici ricoverati al pronto soccorso sono utili?

In letteratura scientifica si ha un vivo dibattito in merito all’utilità di eseguire esami tossicologici ai pazienti psichiatrici che si recano al pronto soccorso: in alcuni casi vengono condotti tali esame come se fossero di routine nonostante l’American College of Emergency Phisicians abbia diramato delle linee guida che sconsigliano di effettuare tali analisi in quanto non realmente utili ai fini di effettuare una corretta diagnosi e al tempo stesso molto dispendiose, soprattutto in funzione dell’elevato numero di pazienti psichiatrici che ogni giorno si reca al pronto soccorso. Il problema principale riguarda il fatto che molto spesso i pazienti psichiatrici si recano al pronto soccorso senza una chiara diagnosi ed è importante conoscere chiaramente quali sostanze il paziente abbia assunto, siano esse droghe o psicofarmaci. Al fine di comprendere la reale utilità di tali esami nel fare una diagnosi accurata, è stato condotto uno studio su un ampio numero di pazienti psichiatrici che si sono recati in un pronto soccorso statunitense. I risultati hanno osservato un’assenza di differenze statisticamente significative nella correttezza della diagnosi tra pazienti psichiatrici ai quali sono state condotte analisi tossicologiche e pazienti psichiatrici ai quali non sono state condotte: in altre parole, sembra che effettuare delle analisi tossicologiche ai pazienti psichiatrici nel pronto soccorso non produca un reale beneficio. Una possibile causa è data dal fatto che i pazienti psichiatrici sono stati raggruppati in un solo macro gruppo, senza distinguere tra sottogruppi specifici per tipologia di disturbo psichiatrico. Per concludere, questo studio, pur essendo preliminare e con i limiti descritti, è molto interessante soprattutto perché unisce la ricerca scientifica con la pratica clinica: in altre parole, è centrale condurre degli studi scientifici al fine di indagare l’utilità e l’adeguatezza di determinate procedure mediche e diagnostiche così da migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’intero processo.

Kroll, D. S., Smallwood, J. & Chang, G. (2013). Drug screens for psychiatric patients in the emergency department: evaluation and recommendations. Psychosomatics, 54, 60-66. 

 

Intervento precoce su bambini con disturbi dello spettro autistico incrementa l’efficacia a lungo termine

Il disturbo dello spettro autistico è uno dei disturbi più comuni nei bambini e ha delle gravi conseguenze a lungo termine; i sintomi principali riguardano deficit di comunicazione e la presenza di comportamenti ripetitivi e stereotipati. Inoltre, è spesso associato ad un’ampia gamma di quadri psicopatologici quali la sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD), ansia e depressione. Il disturbo dello spettro autistico è stato ampiamente studiato, così come le diverse tipologie di trattamento. Tra questi, recentemente è stato sviluppato l’Early Intensive Behavioral Interventions (EIBI): un trattamento che consiste di 20-40 ore di intervento alla settimana per circa un anno ed inizia quando il bambino ha un’età compresa tra i due e i tre anni. Alcuni studi hanno dimostrato l’efficacia dell’EIBI, la cui applicazione comporta dei costi molto elevati. Due studiosi statunitensi hanno condotto una rassegna al fine di indagare l’efficacia di tale intervento a lungo termine, dal momento che la maggior parte dei lavori presenti in letteratura si limita a valutarne l’efficacia immediata o a breve scadenza. Da questa analisi emerge che l’EIBI funziona bene con la maggior parte dei bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, giustificando quindi i maggiori costi da sostenere per l’implementazione di questo tipo di intervento. Nonostante ciò, il problema di non avere molti dati a supporto dell’efficacia a lungo termine non è del tutto risolto. Per concludere, questa rassegna mette in luce come sia cruciale cercare di intervenire il prima possibile nel caso di bambini con disturbo dello spettro autistico in modo tale da migliorare la loro qualità della vita e quella dei familiari, a causa dell’elevata invasività di tale disturbo.

Matson, J. L. & Konst, M. J. (2013). What is the evidence for long term effects of early autism interventions? Research in Autism Spectrum Disorders, 7, 475-479.