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numero 16 - aprile 2014

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Psicologia delle Organizzazioni e Direzione Risorse Umane

Psicologia delle Organizzazioni e Direzione Risorse Umane

I rapporti tra la psicologia delle organizzazioni e l’area H.R. non sono mai stati semplici e lineari, pur se potenzialmente forieri di un’evidente utilità reciproca. Ciò che ancora oggi si nota è sostanzialmente una sottoutilizzazione delle conoscenze della psicologia applicata all’area del lavoro e delle organizzazioni, esattamente come osservato diversi decenni addietro da alcuni accademici e professionisti, come ad esempio Frank Heller (1991). La situazione non appare realmente modificata dall’inizio degli Anni Novanta: al contrario, nel corso del tempo sono emersi numerosi fattori di complicazione. Va ricordato che è stato soltanto con molta fatica – e combattendo opposizioni di ogni sorta – che nel nostro Paese è emersa l’area della psicologia, quindi della psicologia applicata e, all’interno di questa, della psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Fino all’istituzione dei corsi di laurea negli anni Settanta gli psicologi erano pochissimi e – nel campo del “lavoro” – la figura imperante era quella del testista. Si applicavano test di attitudine e di abilità al fine di selezionare una forza-lavoro di limitato livello di scolarizzazione. È solo a partire dalla fine degli Anni Settanta che si sono sviluppate, con una certa forza, le dimensioni della formazione e dello sviluppo, l’ottica dell’organizzazione come un sistema socio-dinamico complesso e aperto al mondo esterno, la tematica della valutazione dei meriti e delle potenzialità, e così via. Da allora ad oggi il mondo è cambiato in modo sostanziale e la psicologia applicata al lavoro ha seguito i forti e numerosi cambiamenti della realtà del lavoro, insieme ai mutamenti che sono avvenuti nel campo stesso delle discipline psicologiche sia di base, sia applicate (nel campo sociale e clinico). Lentamente, a partire dai tempi “eroici” della psicotecnica, si è sviluppata quella che oggi definiamo psicologia del lavoro e delle organizzazioni, ma… Cosa è rimasto per strada? Cosa non si è riusciti a fare? Perché le organizzazioni pubbliche e private – e, per loro, i manager di vertice e i responsabili delle risorse umane – continuano così spesso a vedere le applicazioni della psicologia come un “di più” di cui si può fare facilmente a meno?

Le responsabilità degli psicologi

A valle delle rivoluzioni studentesche e operarie che, in Italia, sono state riassunte nell’etichetta del “1968”, sia la psicologia, sia la sociologia, si sono trovate in una scomoda posizione – una posizione che hanno anche pesantemente contribuito a creare. Le aziende diffidavano degli psicologi e dei sociologi del lavoro in un clima in cui in molti sostenevano che il “ruolo tecnico” dovesse essere preminentemente un “ruolo politico”. Molti interventi di consulenza in azienda di genere “para-rivoluzionario” avevano causato evidenti danni: era fin troppo facile per il formatore di turno entrare in aula, accendere gli animi contro i padroni e il capitale, e quindi andar via, lasciando i partecipanti in uno stato di forte contrapposizione con la direzione e con l’impresa. Si manifestò persino una sorta di negazione del ruolo professionale dello psicologo del lavoro il quale smentiva la propria specificità e competenza, o si mimetizzava nei diversi ambiti produttivi assumendo su di sé identità professionali improprie (Castiello d’Antonio, 1982). Oggi questo genere di eventi – in specie, la negazione del ruolo professionale – si è riproposta non in base all’ideologia politica, bensì in base al totem del “mercato” che richiede “flessibilità” e adattamento ai contesti: una richiesta che di fatto si traduce in limitata attenzione all’etica professionale ed eccessiva disponibilità a “fare di tutto” pur di accontentare il committente.

Sono davvero pochi, in Italia, gli psicologi divenuti direttori del personale (o dirigenti di strutture pubbliche) e non rappresentano sempre un buon esempio – sul tema dello psicologo-manager vedi il bel libro di Kelly & Finkelman (2013), recensito nel numero 10 (settembre 2013) di Qi – Questioni e Idee in Psicologia. La maggior parte degli psicologi del lavoro che sono collocati nelle strutture organizzative hanno la qualifica di tecnici o di professional, eppure appaiono troppo spesso in difficoltà nei confronti di altre figure professionali, come se non credessero davvero a quel secolo e più di storia che hanno alle spalle e a tutto ciò che nel mondo è stato elaborato sul tema specifico (si veda, ad esempio, Zedeck, 2010).

Ed è anche vero che numerosi psicologi che hanno lavorato, o lavorano, nelle strutture produttive lo fanno senza una vera e propria vocazione, più interessati all’attività clinica (o al “mito” dell’attività clinica…). Eppure vi è ancora molto da fare nel mondo del lavoro, anche applicando l’ottica “clinica” e orientandosi quindi verso la dimensione della psicologia clinica occupazionale (Castiello d’Antonio, 2013a) che è invece aspramente osteggiata da coloro che ritengono la psicologia sociale la base unica dell’orientamento organizzativo ed occupazionale.

La debolezza della psicologia del lavoro italiana è probabilmente frutto del “combinato disposto” della diffusa debolezza professionale della disciplina (pressapochismo, genericità degli interventi), e del mancato sostegno sia da parte degli accademici (che hanno a lungo disprezzato le applicazioni della psicologia al lavoro), sia da parte dell’ordine professionale. È sorprendente notare come nella quasi totalità delle pubblicazione accademiche gli autori evitino accuratamente di dichiarare in modo esplicito che per “fare” valutazione, formazione, indagini di clima, sviluppo del potenziale, interventi sul disagio lavorativo, e così via, sia obbligatorio convocare lo psicologo e non un soggetto con (non meglio identificate) “conoscenze” psicologiche, o il solito “tuttologo” di turno. Sull’altro versante, la mancata presenza dell’ordine professionale ha lasciato campo libero a chiunque si volesse appropriare di aree della psicologia applicata non direttamente connesse con la psicoterapia: vedi l’esempio del counseling e del coaching (Castiello d’Antonio, 2013c) – ma vedi anche ciò che accade in altri ambiti, come quello psicologico-giuridico, certamente non meno delicato rispetto all’ambito occupazionale.

Si sarebbe potuto aprire un forte fronte di cooperazione professionale con i medici del lavoro proprio sulle tematiche connesse al benessere-malessere organizzativo ma in questo campo è riemersa da un lato la debolezza globale della psicologia italiana (peraltro ammalata di incomunicabilità al suo stesso interno) e dall’altro l’annosa opposizione della classe medica ad ogni tentativo da parte dello psicologo di acquisire nuovi spazi occupazionali.

L’arretratezza culturale delle Direzioni del Personale

L’Italia non è la Francia! si sente spesso affermare, alludendo al forte sostegno che in Francia ha sempre avuto la formazione, supportata anche dalla presenza di istituti di eccellenza noti in tutto il  mondo. In effetti, è difficile considerare la cultura diffusa in Italia come qualcosa di favorevole alla “formazione continua”, all’apprendimento lungo l’intero arco della vita, al cambiamento in chiave di sviluppo personale. L’esempio dei soggetti che sono collocati ai vertici delle organizzazioni è chiaro: più si sale la scala gerarchica e meno si ha bisogno di formazione, aggiornamento, confronto… Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe indicare un “buon modello” manageriale! In questo quadro le direzioni del personale – o “per il” personale (Castiello d’Antonio, 1988) – non fanno eccezione. Nei tempi in cui il denaro correva (e veniva dilapidato) si è fatta molta formazione a pioggia: un corso sulla comunicazione non si negava a nessuno e le aule erano riempite di soggetti demotivati o annoiati. Poi è venuto il tempo della formazione “apparente”, tanto per fare: era necessario spendere i budget della formazione, sia per evitare di perdere il potere di spesa per l’anno successivo, sia perché in qualche contratto integrativo era stato così scritto. Ottimi esempi di formazione apparente sono stati i corsi in cui erano assurdamente stipati decine e decine di soggetti – dato che del fattore “apprendimento” non importava niente  a nessuno. Quindi è venuto il momento della formazione di intrattenimento, tipicamente gestita dalle star di turno, siano esse allenatori di squadre sportive, presentatori televisivi, guitti vari: la formazione doveva “divertire”, meglio se realizzata d’estate in barca a vela!

Da qualche tempo i fondi per la formazione sono scarsi (a parte quelli comunitari, talvolta sottratti e dislocati direttamente nelle tasche di coloro che dovrebbero utilizzarli a favore di altri) e quindi la formazione è stata ridotta, tagliata, in alcuni casi annullata. Insomma: se ne può fare a meno!

La mancanza di vere e proprie “scuole” di direzione del personale nel nostro Paese ha causato l’incresciosa situazione che vede soggetti del tutto inabili e demotivati al ruolo gestionale collocati ai vertici dei settori H.R. Trattandosi di persone che hanno come motivazione centrale la scalata alle piramidi aziendali e per i quali il ruolo di direttore delle risorse umane è solo un passaggio verso l’alto, non solo non possiedono le competenze professionali necessarie, ma trattano anche le “risorse umane” come un indebito fastidio da sbrigare al più presto. Uno dei tanti effetti di tale situazione è stato il proliferare dei tuttologi, degli pseudo-consulenti, di personale riciclato da altri settori organizzativi, e così via. Se un tempo il “consulente” era una persona che dopo aver compiuto un significativo arco di vita d’azienda nel settore del personale decideva di mettersi in proprio, o di associarsi ad agenzie di consulenza, oggi il cosiddetto consulente copre un ampio spettro di tipologie: dal neo-laureato al pensionato, dal soggetto licenziato dall’impresa all’esperto di informatica che mette su il classico “pacchetto” su come parlare in pubblico, dal doppiolavorista all’accademico di mestiere che arrotonda lo stipendio statale.

Se diviene difficile individuare un responsabile del personale esperto e consapevole del proprio ruolo – ma anche motivato a fare bene, e interessato a poter fare “meglio” nel futuro – ne consegue che chiunque può presentarsi alle aziende come “consulente” a tentare la fortuna di essere ingaggiato. Ancora una volta, il caso del coaching è lì a dimostrarlo (Castiello d’Antonio, 2013d).

Il predominio dei tuttologi e dei finti-consulenti va di pari passo con l’alternativa – spesso utilizzata dalle direzioni H.R. dei gruppi più importanti – di affidarsi alla “grande sigla”, alla società di consulenza che ha sedi ovunque, ampie referenze, numerosi dipendenti, e nome altisonante. Che poi la famosa e nota società di consulenza, a contratto firmato, invii in azienda un giovanotto imberbe e impreparato, o un vecchio un po’ svanito, non interessa molto. Esattamente come nelle gare di appalto per la funzione pubblica. Da diverso tempo queste gare si vincono con ribassi fino al 60% ma ciò non sembra destare allarmi o sospetti: come se un lavoro stimato a 100 potesse essere realizzato, con la medesima qualità, a meno della metà del costo indicato nel bando... C’è chi crede a queste favole e, tra questi, i responsabili del personale della P.A. che non vogliono avere grattacapi e che, con una gara pubblica d’appalto, si sentono tranquilli: e, infatti, sul piano formale, non vi è nulla da eccepire.

Conclusioni

Come in numerosi altri domini della vita organizzativa, anche nell’ambito della gestione del “capitale umano” sono entrate in vigore etichette un po’ astruse. Così, le qualità umane, cioè le caratteristiche psicologiche, sono oggi diventate le “soft skill” – come a dire che il medico del lavoro opera sulle “hard skill”… Ma non mi sembra di aver mai ascoltato una sciocchezza simile - mentre tutti vanno alla ricerca dell’oggettività e degli standard. Uno degli standard di maggior successo è divenuto il modello delle competenze, una creazione seria e utile, sviluppata decenni fa da uno psicologo noto internazionalmente, ben presto divenuta nel nostro Paese uno dei tanti “prodotti da vendere” alle organizzazioni committenti. Ma la ricerca di standard è imperante e ormai incide su ogni ambito della psicologia (Castiello d’Antonio, 2013b).

Un secondo aspetto che richiede a gran voce “il mercato” è la rapidità - unita naturalmente ai bassi costi. Già un po’ di tempo fa, qualcuno ha proposto il fast assessment, una procedura rapida ed indolore per valutare le potenzialità delle persone… Si potrebbero proporre altri esempi di questo genere, ma credo che possa essere sufficiente ciò che è stato esposto fin qui.

In sostanza, cosa è diventata la psicologia del lavoro e delle organizzazioni? Una pratica fine a se stessa e rabberciata nel contesto iper-competitivo del “mercato” ove tutti offrono tutto, e tutti si dicono in grado di fare tutto. Un discorso inutile e astratto nei tanti manuali accademici o libri scritti per gli studenti nei quali si rappresenta un mondo che non esiste più, dove sembra che l’azienda sia lì ad aspettare a braccia aperte lo psicologo del lavoro e la sua “scienza”. Una quantità di aria fritta e di fumo nei convegni, congressi e libri di auto-promozione, e nei tanti the delle 5 del pomeriggio organizzati dalle sigle di consulenza per accalappiare ciò che rimane libero del “parco” dei responsabili del personale. Un frenetico marketing telefonico volto ad ottenere almeno un appuntamento di conoscenza reciproca con i direttori delle risorse umane. Una altrettanto frenetica ricerca degli sponsor “giusti” per arrivare a contattare la persona che, nel contesto organizzativo, ha in mano la gestione aziendale del budget delle risorse umane…   

Forse, della psicologia, e della psicologia del lavoro, importa poco a tutti. Non a caso, la traduzione “aziendalese” è: gestione delle risorse umane. L’essere umano in quanto tale, in quanto psiche e condotta, rimane sullo sfondo: al massimo emerge se si parla di organizational behavior. Ma ciò che stupisce è che la dimensione interna, mentale, psicologica, umana e soggettiva della persona-che-lavora (in qualunque ruolo o posizione organizzativa essa sia) possa importare così poco persino agli stessi psicologi del lavoro. Qualche anno fa vi è stato un rapido scambio di opinione in un sito internet sulle caratteristiche che dovrebbe possedere chi svolge la selezione del personale nel mondo del lavoro. Ebbene, diversi psicologi occupazionali hanno affermato che, secondo loro, non era necessario possedere una laurea in psicologia per “fare selezione”: poteva essere sufficiente avere doti di “ascolto e comunicazione”… Che la selezione del personale fosse, in realtà, una vera e propria attività di diagnosi psicologica della persona nel contesto organizzativo non sfiorava la mente di costoro. Come a dire che il medico del lavoro non deve essere in possesso della laurea in medicina: gli è sufficiente avere una “buona manualità”! Non ho mai ascoltato alcun medico affermare una corbelleria del genere, né mi è mai capitato in riferimento ad altre professionalità impiegate nel mondo delle organizzazioni. Ma gli psicologi del lavoro, evidentemente, possono permettersi di coltivare uno speciale e sottile masochismo… 

Bibliografia

  • Castiello d’Antonio A. (2013a). L’assessment delle qualità manageriali e della leadership. La valutazione psicologica delle competenze nei ruoli di responsabilità organizzativa. Milano:  FrancoAngeli.
  • Castiello d’Antonio A. (2013b). Il mito degli standard. Giornale Italiano di Psicologia, XL, 2, 429-448.
  • Castiello d’Antonio A. (2013c). Il Coaching. Risorse Umane nella Pubblica Amministrazione, XXVII, 6, 55-70.
  • Castiello d’Antonio A. (2013d). Coaching e Coaching psicologico. Qi. Questioni e Idee in Psicologia, 7
  • Castiello d’Antonio A. (1988). Direzione del personale o direzione per il personale?. Diritto & Pratica del Lavoro, 28, 1873-1876.
  • Castiello d’Antonio A. (1982). Lo psicologo e la negazione dell’identità professionale. Giornale Italiano di Psicologia, IX, 3, 493-501
  • Heller F.A. (1991). “The underutilizations of applied psychology”. The European Work and Organizational Psychologist 1, 9-25.
  • Kelly L., Finkelman J. M. (2013). The Psychologist Manager. Gottingen: Hogrefe.
  • Zedeck, S. (2010), (Editor-in-Chief). APA Handbook of Industrial and Organizational Psychology. American Psychological Association, Washington, D.C.