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Positività: nuovo campo d’indagine della psicologia
Positività: nuovo campo d’indagine della psicologia
La soddisfazione di vita (Diener, 1984) è probabilmente il costrutto oggi più popolare e trasversale a diverse discipline. Esso ha contribuito a porre in risalto i limiti dei tradizionali indicatori economici e perciò a sottolineare la necessità di riconoscere a quello che le persone sperimentano ed esprimono a proposito della propria felicità altrettanto valore di quanto abitualmente si riconosce ai loro guadagni e perciò ai beni e alle risorse materiali che sono loro accessibili.
In realtà soprattutto nei paesi economicamente avanzati i nessi tra disponibilità di beni materiali e felicità sono molto tenui. Il caso del Giappone è eclatante dal momento che pur essendo una dei paesi più ricchi si colloca abitualmente in una posizione intermedia tra ricchi e poveri nella graduatoria della soddisfazione di vita.
L’abbondanza giova, ma non è sufficiente; anche in condizioni di mancanza, si può dichiarare di essere moderatamente soddisfatti della propria vita. Evidentemente la soddisfazione di vita non può essere considerata soltanto una variabile dipendente dalla effettiva accessibilità a beni e servizi.
Verosimilmente la soddisfazione di vita corrisponde ad una valutazione soggettiva che è in larga parte indipendente dalle condizioni materiali di vita. Parimenti l’autostima (Harter, 1993) e l’ottimismo (Scheier & Carver, 1992) corrispondono a valutazioni soggettive in larga parte indipendenti dalle condizioni materiali di vita che, come la soddisfazione di vita, sono al tempo stesso indicatori ed ingredienti importanti dello stare bene e per lo stare bene. Mentre la soddisfazione di vita concerne una valutazione globale del proprio essere al mondo, l’autostima concerne una valutazione globale di quanto si ritiene di valere, e l’ottimismo una valutazione globale del bene che si ritiene di potersi aspettare dal futuro.
Sia la soddisfazione di vita, sia l’autostima e l’ottimismo corrispondono a valutazioni soggettive, pervasive, relativamente stabili delle quali una vasta letteratura documenta le relazioni positive con la salute, il successo scolastico e nel lavoro (Steca & Caprara, 2007). Evidentemente le correlazioni non rendono conto dei nessi di causalità ed è verosimile che le influenze siano reciproche.
Godere di buona salute e riuscire bene nel lavoro, di massima giova alla soddisfazione, all’autostima e ben predispone verso il futuro, non meno di quanto il sentirsi soddisfatti della propria vita, apprezzarsi e confidare nel futuro aiutino a superare le avversità e le perdite, e a convivere con l’idea della morte nostra e dei nostri cari. Sappiamo tuttavia che alcune persone più di altre sono inclini ad una visione positiva della vita, di sé e del futuro. E la ricerca ci informa che spesso soddisfazione di vita, autostima e ottimismo vanno di concerto, per cui le stesse persone che sono inclini a sentirsi soddisfatte della vita, lo sono anche a dichiararsi contente di se stesse e a nutrire buone speranze per il futuro.
In realtà la ricerca documenta elevate correlazioni tra soddisfazione di vita, autostima e ottimismo, e le nostre ricerche avvalorano un modello che riconduce queste tre dimensioni ad un costrutto latente che ne rappresenta la matrice comune. Inizialmente abbiamo chiamato pensiero positivo il fattore latente cui erano riconducibili le misure standard di soddisfazione di vita, autostima, e ottimismo (Caprara & Steca, 2005; 2006). Quindi abbiamo preferito orientamento positivo a “pensiero positivo” per allentare i vincoli di una connotazione troppo “cognitiva” e dare pari risalto alla componente affettiva (Caprara, Steca, Alessandri, Abela & MCWhinnie, 2010). Gli studi successivi ci hanno persuaso a configurare l’orientamento positivo come un modo pervasivo di guardare alla vita, a sé e al modo di porsi in relazione gli altri, suscettibile di colorare affettivamente e perciò improntare significativamente tutto il rapporto del soggetto con la realtà. In particolare, i risultati degli studi che abbiamo condotto negli ultimi dieci anni hanno avvalorato l’ipotesi di una tendenza relativamente stabile a vedere le cose in modo per quanto possibile positivo che, declinandosi differentemente nella popolazione, assolve ad importanti funzioni biologiche e sociali.
Siamo specialmente giunti a ritenere che un certo grado di orientamento positivo è necessario a tutti, per assicurare la sopravvivenza della specie, nonostante le avversità e la caducità della vita, e cosi siamo pervenuti convincerci dell’esistenza di una disposizione, che abbiamo chiamato positività, che sta alla base della nostra inclinazione alla ricerca della felicità, che rende in larga parte conto delle nostre emozioni positive, della tendenza naturale a piacersi e a volersi bene, della convinzione comune di riuscire meglio della media ed in definitiva di valere la pena di essere amati.
Se non fossimo attrezzati sin dalla nascita con una tendenza spontanea al rispetto di noi stessi e alla tutela della vita, non potremmo convivere coll’idea dell’invecchiamento e della morte, ed affrontare le difficoltà, i fallimenti, le perdite e le malattie che una vita sempre più lunga inevitabilmente comporta.
Verosimilmente, le differenze individuali nell’orientamento positivo hanno anche un ruolo determinante nell’assicurare all’interno delle popolazioni l’equilibrio indispensabile al buon funzionamento e al progresso delle società tra tendenze maggiormente inclini ad evitare i rischi e le novità, e perciò più caute e conservative, e tendenze maggiormente inclini al rischio e alla sperimentazione, e perciò più innovative.
Ricerche
Tali convinzioni derivano da un programma di ricerca che si è sviluppato lungo le seguenti direttrici:
1) la prima ha esaminato il grado di generalizzabilità del modello che riconduce autostima, soddisfazione di vita e ottimismo ad un fattore comune;
2) la seconda ha esaminato l’esaustività ed esclusività del medesimo modello;
3) la terza la stabilità e l’ereditabilità dell’orientamento positivo;
4) la quarta ha approfondito il valore predittivo e distintivo dell’orientamento positivo in vari ambiti di azione rispetto ad autostima, soddisfazione di vita ed ottimismo, e il valore predittivo specifico di ciascuna di tali dimensioni al netto di quanto esse hanno in comune;
5) la quinta ha affrontato il cambiamento del pensiero positivo;
6) la sesta ha esplorato la possibilità di pervenire ad una misura diretta della positività;
7) la settima ha approfondito i nessi tra positività e affettività positiva, la quale che da molti studi viene indicata come il più importante indicatore della felicità oltre che un importante correlato della salute;
8) l’ottava ha approfondito il ruolo della positività nel rendere conto delle illusioni positive, del fenomeno “better than average” e più in generale della tendenza comune a sovrastimare le proprie capacità e a sovravvalutare le proprie caratteristiche di personalità.
Di seguito intendiamo presentare i risultati più significativi.
1. Generalizzabilità del modello
La figura 1 presenta il modello in cui i fattori di primo ordine relativi a soddisfazione di vita, autostima e ottimismo, sono ricondotti al fattore di secondo ordine che abbiamo denominato orientamento positivo.
Il modello è stato ripetutamente avvalorato, tramite analisi fattoriale confermativa, utilizzando la Satisfaction With Life Scale (Diener, Emmons, Larsen & Griffin, 1985), la scala di Rosenberg (1965) per la misura dell’autostima ed il Life Orientation Test per la misura dell’ottimismo (Sheier, Carver, & Bridges, 1994) su vari gruppi, diversi per età e provenienza in Italia, e quindi in altri paesi diversi per lingua e cultura come il Canada, la Germania, il Giappone, la Polonia, la Spagna, gli Stati Uniti e il Giappone. Nonostante la diversità delle medie, la medesima struttura fattoriale ha trovato conferma anche in contesti culturali molto distanti da quello italiano come il Giappone (Caprara, et al. 2012). La modestia è una caratteristica che assume particolare rilievo nella cultura giapponese e che verosimilmente rende conto delle medie più basse dei giapponesi rispetto a Italiani, Americani e Tedeschi.
I nessi tra autostima, ottimismo e soddisfazione di vita e quanto essi hanno in comune, invece, non sono sostanzialmente diversi ed avvalorano la generalizzabilità del modello che riconduce le diverse valutazioni soggettive su sé, la vita e gli altri ad una comune tendenza di base.
Figura 1 - Modello di Misura dell’orientamento positivo

Nota. Dettagli sul campione e sulla metodologia della ricerca possono essere trovati in Alessandri, Caprara, & Tisak, (2012).
2. Comprensività del modello
È stato indagato se anche altre variabili individuali, come la stabilità emotiva, la resilienza, l’efficacia generale, abitualmente associate al benessere ed indicate tra gli elementi di forza del funzionamento psichico, potessero essere ricondotte all’orientamento positivo. Seppure siano state riscontrate moderate
correlazioni di stabilità emotiva e resilienza con ciascuna delle componenti dell’orientamento positivo, il modello originale. comprendente soltanto la soddisfazione di vita, l’autostima e l’ottimismo, è risultato preferibile.
Alla medesima conclusione si è giunti quando è stata esaminata l’opportunità di ricondurre ad una medesima dimensione latente con la soddisfazione di vita, l’autostima e l’ottimismo anche l’autoefficacia generalizzata (Oles, Oles, Bak, Jankowski, Laguna, Alessandri & Caprara, 2010). Verosimilmente la generalità e la pervasività delle valutazioni e la centralità che la coscienza di sé ha in esse, sono ciò che contraddistingue l’orientamento positivo, accomuna la soddisfazione di vita, l’autostima e l’ottimismo e li distingue da altri costrutti con i quali sono correlati.
3. Stabilità ed ereditabilità dell’orientamento positivo
Mentre dati longitudinali attestano l’elevata stabilità dell’orientamento positivo (Alessandri, Caprara & Tisak, 2012), uno studio gemellare ne ha avvalorato l’ereditabilità ponendo in risalto una larga componente genetica comune ad autostima, soddisfazione di vita ed ottimismo capace di spiegare oltre tre quarti dell’ereditabilità di ciascuno (Caprara, et al, 2009).
La componente genetica, in particolare, è risultata considerevole nell’autostima, più alta di quella abitualmente riscontrata nei tratti di base e simile a quella dell’intelligenza e, invece, più contenuta nell’ottimismo dove è risultato maggiormente rilevante l’apporto ambientale. Resta tuttavia da chiarire il grado in cui soddisfazione di vita, autostima e ottimismo sono riconducibili ad un medesimo pool genetico.
4. Predittività e utilità dell’orientamento positivo
Vari studi hanno approfondito l’utilità pratica dell’orientamento positivo rispetto a quella delle sue componenti e rispetto al sistema più largamente utilizzato per la valutazione della personalità, quello dei Big Five. L’orientamento positivo ha mostrato un valore predittivo superiore all’autostima, alla soddisfazione di vita e all’ottimismo nel caso della depressione, della salute, della resilienza e della qualità delle relazioni interpersonali. Il contributo unico delle diverse componenti dell’orientamento positivo, invece, si è dimostrato spesso nullo quando valutato al netto della loro componente comune (figura 2).
L’orientamento positivo è risultato inoltre un predittore superiore a ciascuno dei Big Five (i.e. energia/estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva/neuroticismo e apertura all’esperienza/intelletto), nella prestazione lavorativa (Alessandri, et al., 2012).
Figura 2 - Contributi dell’orientamento positivo, dell’autostima, della soddisfazione di vita e dell’ottimismo alla salute, all’affettività positiva e negativa, ed alla qualità delle amicizie

Nota. Dettagli sul campione e sulla metodologia della ricerca possono essere trovati in Alessandri, Caprara, & Tisak, (2012).
5. È possibile promuovere l’orientamento positivo?
I risultati che nel corso del tempo abbiamo accumulato, come già anticipato in premessa, ci hanno indotto a guardare all’orientamento positivo come ad una disposizione largamente radicata in natura, suscettibile di improntare significativamente tutto un corso di vita. L’ereditabilità e la stabilità, soprattutto, depongono a sostegno dell’orientamento positivo come espressione di una tendenza vitale necessaria per convivere coll’idea della morte e per fare fronte alle inevitabili avversità e perdite che la vita comporta. Le differenze individuali in tale tendenza, invece, assecondano la necessità per la sopravvivenza e lo sviluppo della specie di garantire all’interno delle popolazioni un equilibrio tra spinte innovative e spinte conservative. È infatti verosimile che la maggiore propensione a confidare in se stessi e nel futuro si accompagni ad una maggiore propensione alla sperimentazione e all’innovazione, e che al contrario una minore propensione a guardare a se stessi e alla vita sotto una lente positiva incoraggi la cautela e la modestia.
I progressi recenti della genetica segnalano che quanto è ascrivibile ai geni e perciò all’eredità non corrisponde ad un determinismo inflessibile, ma al contrario a predisposizioni che si trasformano in modi stabili di sentire, agire e relazionarsi con se stessi, gli altri e la vita nel corso dello sviluppo, e perciò a seguito di una concertazione continua tra natura e cultura nella quale sono molteplici le influenze che gli ambienti esercitano sull’espressione dei geni e sulle loro interazioni. Seppure sia notevole la porzione di varianza dell’orientamento positivo che è risultata ascrivibile ad una componente genetica, non è assolutamente trascurabile la porzione di varianza ascrivibile all’ambiente, perlopiù non condiviso, e perciò alle esperienze uniche che contraddistinguono le singole traiettorie di vita individuali.
Poiché le esperienze non soltanto si subiscono, ma anche si cercano e si creano, è dunque possibile guardare all’orientamento positivo come ad una tendenza che almeno in parte si può coltivare. Se non proprio la felicità, che resta una meta indefinita nell’orizzonte dei desideri di ciascuno, quanto meno si può promuovere un modo di affrontare la vita sotto il segno della fiducia e della speranza, che permette di valorizzare ciò che ciascuno ha di buono e di apprezzare e porre in risalto gli aspetti positivi dell’esperienza. A questo proposito riuscire nel raggiungimento di mete cui si attribuisce valore, il riconoscimento degli altri, l’avverarsi delle aspirazioni, rappresentano esperienze che generalmente rafforzano la fiducia nel proprio valore, nella vita e nel futuro.
Le persone, infatti, hanno la sensazione di valere e motivo di essere soddisfatte della propria vita e fiduciose nel proprio futuro quanto più numerose sono le esperienze di realizzazione personale e di riconoscimento altrui. Se dunque si vuole incidere sulla componente variabile di autostima, di soddisfazione di vita e di ottimismo, si deve intervenire per indurre le persone ad accordare le proprie aspirazioni alle proprie mete e quindi trarre dal conseguimento dei propri scopi e dal riconoscimento altrui motivi concreti di soddisfazione e di fiducia. A questo riguardo la teoria socialcognitiva indica nelle convinzioni di efficacia personale e nelle esperienze da cui derivano tali convinzioni le determinanti e le condizioni fondamentali della riuscita, della soddisfazione e della realizzazione personale (Bandura, 1986, 1997).
È intuibile che le persone non si cimentano con compiti che percepiscono al di là della loro portata ed è largamente provato che è soprattutto l’esperienza della riuscita che nutre le convinzioni di essere in grado di dominare le situazioni, di superare gli ostacoli, di fronteggiare le avversità, di perseguire anche le mete più ambiziose. Un'ampia letteratura infine documenta l’influenza pervasiva delle convinzioni di efficacia nei più svariati ambiti di vita: nella scuola, nella famiglia, nello sport, nel lavoro, nella salute. In realtà le percezioni che le persone hanno delle proprie capacità predispongono e regolano il corso dell’azione, fissano i livelli di aspirazione e gli standard di prestazione, dettano gli scopi e sorreggono l’impegno, influenzano le percezioni dei progressi e dei fallimenti e rendono in buona parte conto dei loro vissuti e stati d’animo.
Tradizionalmente, la letteratura ha privilegiato l’esame di specifiche convinzioni relative a situazioni, compiti e azioni circoscritte, diffidando di costrutti troppo ampi (come quello di autoefficacia generalizzata), e guardando alle convinzioni di efficacia non come disposizioni, ma come strutture di conoscenza contestualizzate, relative a specifici corsi di azione in specifici contesti e derivanti dall’esperienza soprattutto diretta. In realtà le capacità dalle quali deriva il senso di efficacia possono esser molto diverse nei vari contesti: non necessariamente le convinzioni di efficacia in ambito scolastico o lavorativo si accordano con quelle relative all’ambito familiare.
Il grado in cui si ritiene di essere all’altezza delle prove e delle sfide che un determinato contesto di relazioni, opportunità e obbligazioni abitualmente comporta, raramente si rispecchia in una confidenza indifferenziata nelle diverse capacità che possono essere di volta in volta messe alla prova: le convinzioni che gli studenti hanno di essere all’altezza di ciò che la scuola richiede da loro non sono le stesse per le diverse discipline, né incidono allo steso modo nelle relazioni con i compagni e con gli insegnanti. In un sistema relazionale come la famiglia nel quale si possono ricoprire contemporaneamente ruoli diversi, le convinzioni di essere all’altezza dei propri ruoli di figlio, genitore, coniuge non necessariamente sono le stesse.
Anche le convinzioni di efficacia relative a particolari ambiti e attività, possono risultare molto diverse in circostanze differenti: essere capace di padroneggiare un determinato sport può significativamente variare in allenamento ed in gara.
Sono d’altro canto evidenti connessioni, concordanze ed influenze reciproche tra esperienze e convinzioni relative ad attività diverse. In realtà le convinzioni di efficacia si trasmettono da attività ad attività all’interno degli stessi ambiti e tra sfere di azione diverse: la sensazione di esser ormai in grado di padroneggiare una certa materia scolastica stimola e suggerisce come applicarsi anche in altre materie; la convinzione di essere stato capace di padroneggiare le difficoltà scolastiche può servire a sorreggere l’impegno richiesto nel lavoro; la convinzione di essere all’altezza delle aspettative del proprio coniuge, può rappresentare una buona premessa ed un modello per divenire e sentirsi capace di corrispondere alle aspettative dei propri figli.
Quanto più è rilevante l’ambito in cui le persone si ritengono capaci e quante più sono le attività che esse ritengono di padroneggiare tanto più hanno motivo di confidare nelle loro capacità e tanto più sono inclini ad esporsi ad esperienze che permettono di rafforzare ulteriormente le loro capacità e generarne di nuove. Quanto più le persone traggono della riflessione su stessi e sull’esperienza una maggiore conoscenza di sé, tanto più alcune convinzioni di efficacia relative ad ampi domini di funzionamento assumono un ruolo guida che è in qualche modo sovraordinato alle varie convinzioni specifiche ed è centrale nel sostenere la motivazione e concertare l’azione nei diversi ambiti.
Verosimilmente le convinzioni di efficacia relative alle proprie capacità di gestire la propria vita affettiva e di relazione sono quelle che maggiormente influenzano tutte le altre convinzioni di efficacia specifiche, e quelle che in definitiva maggiormente contano per il benessere e lo sviluppo.
In realtà quanto più le persone ritengono di essere in grado di gestire le proprie emozioni negative come paura, colpa, vergogna, tristezza e rabbia tanto più sono capaci di vivere in armonia con se stesse ed instaurare e preservare relazioni costruttive con gli altri. Parimenti quanto più le persone sono in grado di esprimere, condividere, amplificare, generare affetti positivi come quelli della gioia, della sorpresa, della fierezza, dell’estasi, della pace interiore, tanto più sono capaci di offrire e comunicare agli altri sostegno, conforto, sollievo, simpatia, entusiasmo e di trarre dal loro apprezzamento motivi di appagamento, fiducia e serenità. Un’ampia letteratura, di varia ispirazione, corrobora tutto ciò, indicando nella capacità di gestire gli affetti e le relazioni interpersonali e sociali, gli ingredienti fondamentali dello stare bene con sé e con gli altri. Siamo perciò approdati a proporre un modello concettuale nel quale l’autoefficacia emotiva assume un ruolo determinante nel promuovere l’autoefficacia interpersonale e di concerto nel sostenere il buon adattamento sociale nei vari contesti di vita, e perciò il benessere (Caprara, 2002).
Tale modello è stato avvalorato in numerose ricerche che hanno permesso di soppesare l’influenza dell’autoefficacia emotiva ed interpersonale e delle loro diverse espressioni e di chiarire il ruolo delle loro reciproche connessioni nel promuovere sviluppo e buon adattamento e nel contrastare il disagio e la devianza (Bandura, Caprara, Barbaranelli,Gerbino & Pastorelli, 2003: Caprara, Gerbino, Paciello, Di Giunta & Pastorelli, 2010).
La novità del modello tuttavia va oltre i risultati di ricerca che documentano il ruolo determinante delle convinzioni di efficacia nel favorire comportamenti virtuosi come quelli pro-sociali e nel contrastare esperienze indesiderabili come la depressione e la delinquenza. La teoria sociale cognitiva infatti, non soltanto chiarisce i nessi tra le variabili in gioco, ma è anche in grado di dettare le pratiche che possono servire a promuovere le capacità che sostanziano le convinzioni e rendono conto degli esiti.
Verosimilmente anche nella sfera della regolazione emotiva e della gestione delle relazioni interpersonali, come già provato in vari ambiti dell’azione, soprattutto la messa alla prova e la riflessione sull’esperienza di essere in grado di dominare le proprie emozioni e gestire le proprie relazioni permettono di rafforzare sia le proprie capacità sia la convinzione di possedere tali capacità.
A questo proposito un primo studio, di cui la figura 3 riporta i nessi tra le variabili che sono state esaminate, indica che anche l’autostima può cambiare, ed essere rafforzata, tramite il potenziamento dell’efficacia sociale (Caprara, Alessandri, Barbaranelli, 2010) che, a sua volta, può essere sviluppata tramite il rafforzamento dell’efficacia emotiva. Anche l’orientamento positivo, in definitiva può essere potenziato, capitalizzando sulle proprietà della mente umana di riflettere su di sé e sull’esperienza, di apprendere dall’esperienza propria ed altrui, e di trarre da ciò gli elementi per generare continuamente nuove capacità.
Figura 3 - Influenze dell’autoefficacia emotiva e sociale sulle componenti di primo ordine dell’orientamento positivo

Nota. Dettagli sul campione e sulla metodologia della ricerca possono essere trovati in Alessandri, Caprara, & Tisak, (2012).
6. La scala di positività
Per rendere più agevole la misurazione dell’orientamento positivo, Caprara, et al (2012) hanno recentemente proposto uno strumento breve e molto semplice da usare. Questo strumento, denominato P-Scale, include 8 degli item maggiormente correlati con il costrutto latente della positività, e che insieme coprono quattro ambiti concettuali: autostima, soddisfazione per la propria vita , ottimismo e fiducia negli altri. Le proprietà psicometriche dello strumento, sono state estensivamente indagate e i dati empirici disponibili attestano il buon funzionamento in sette paesi europei ed extraeuropei (Italia, Giappone, Spagna, Polonia, Stati Uniti, Serbia e Germania). Nessuna differenza è stata infine attestata nel funzionamento della P-Scale in campioni di uomini e donne. Inoltre, i punteggi nello strumento hanno rivelato un’alta stabilità temporale (Caprara, et al., 2012).
Dunque, misurare in maniera rigorosa la positività è possibile, e molti sono i vantaggi che possono derivarne. La Pp-Scale, infatti, si è rivelata un potente predittore del benessere emotivo (in termini di affettività positiva e negativa), di migliori relazioni interpersonali, di un più elevato impegno nel lavoro e, infine, di successo in generale (Alessandri, et al., 2012).
7. Positività e affettività positiva
Studi recenti hanno indagato le relazioni che intercorrono tra positività e affettività positive nel corso della transizione dalla tarda adolescenza (16 anni) alla prima età adulta (24 anni). A questo proposito, Caprara, Alessandri, e Eisenberg (2012) hanno dimostrato come la positività possa agire come potente predittore dell’affettività positiva, da molti considerata un indicatore prossimale della felicità (Diener, 1984), misurata anche a notevole distanza temporale (4 anni). Al contrario, l’affettività positiva, benché predetta dalla positività non ha rivelato a sua volta alcuna significativa influenza su quest’ultima.
Dunque, gli individui più positivi possono diventare più felici, ma la felicità di per sé non costruisce positività. Questi risultati avvalorano la bontà di un modello concettuale all’interno del quale la positività rappresenta un tratto di base, una disposizione innata alla natura umana, capace di esercitare un’influenza pervasiva sul funzionamento delle persone (Caprara, et al., 2009, 2012).
8. Illusioni positive
Studi recenti hanno trovato una elevata correlazione tra la positività e la tendenza a sovrastimare i risultati delle proprie prestazioni e a sopravvalutare le proprie caratteristiche di personalità. Ciò avvalora l’ipotesi che pone la positività alla base delle illusioni e convinzioni positive che le persone nutrono nei propri confronti, spesso in contrasto coll’esame di realtà.
In conclusione
Le ricerche esposte avvalorano l’influenza della positività in vari contesti di vita, inclusi quelli organizzativi. Verosimilmente la positività può rappresentare un “valore” da coltivare all’interno delle organizzazioni ed una componente essenziale della leadership. Restano tuttavia da chiarire quale sia il grado ottimale di positività. Sono infatti evidenti i costi di un livello deficitario di positività. Ma non sono da sottovalutare le conseguenze dovute ad un eccesso di positività.
Non si può infatti escludere che fenomeni di groupthinking derivino da relazioni e interazioni in cui le varie tendenze positive finiscono col generare sentimenti di eccessiva fiducia nelle proprie possibilità sino a degenerare in sentimenti condivisi di onnipotenza che non lasciano spazio ad alcuna sensibilità critica, che inducono a sottovalutare gli oneri di imprese molto difficili, e che infine conducono ad assumere rischi che vanno molto al di là del ragionevole.
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