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numero 91 - ottobre 2021

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Personalità: dall’approccio categoriale a quello dimensionale

Personalità: dall’approccio categoriale a quello dimensionale

In occassione dell'imminente pubblicazione dell'edizione italiana di SPECTRA, il nuovissimo questionario per la valutazione clinica della personalità negli adulti, basato su un approccio dimensionale e gerarchico, pubblichiamo in anteprima la presentazione che i curatori dell'adattamento italiano hanno scritto per il manuale del test.

La critica alla diagnosi categoriale

Le classificazioni psichiatriche, da Kraepelin in poi, hanno privilegiato un’ottica categoriale e top-down. La psichiatria è una branca della medicina e le malattie nella nosologia medica sono tradizionalmente intese come entità categoriali. Le diverse edizioni del DSM, soprattutto a partire dal DSM‑III fino al DSM‑5 (2013), e dell’International Classification of Diseases (ICD‑6, 1949; ICD‑10, WHO, 1992) sono infatti basate su sistemi categoriali: si basano quindi sull’assunto che i singoli disturbi siano reciprocamente esclusivi (Kraepelin, 1919); una tipologia di classificazione che presenta vantaggi e limiti. Tra i vantaggi, è indispensabile ricordare che permettono una buona comunicazione tra clinici di diversa formazione, forniscono una descrizione facile e agevole delle entità nosologiche studiate, hanno un’ampia letteratura di riferimento e sono costruiti per rispecchiare il modo in cui le persone abitualmente pensano (Frances, 2013; Blashfield, 1984; Blashfield e Draguns, 1976). Viceversa, tra i limiti, si sottolineano gli elevati livelli di comorbilità, il basso livello di affidabilità di questo tipo di classificazione e un eccessivo riferimento al modello medico, che non sempre riflette adeguatamente le caratteristiche della psicopatologia. Diversi autori sono, inoltre, dell’avviso che le diagnosi categoriali abbiano una ridotta rilevanza clinica, poiché pazienti che hanno il medesimo disturbo sono estremamente eterogenei, sia per quanto concerne i sintomi riportati, sia in termini di funzionamento (Coid, Yang, Tyrer, Roberts e Ullrich, 2006; Lenzenweger, Lane, Loranger e Kessler, 2007; Kring, Davison, Neale e Johnson, 2013; Krueger, 2013; Zimmerman, Ellison, Young, Chelminski e Dalrymple, 2015; Magnavita, Powers, Barber e Oltmanns, 2016; First et al., 2018).
Al momento è evidente che la nosologia psichiatrica sta attraversando una crisi di fiducia (Zachar e Kendler, 2017). Una serie di lavori (Caspi et al., 2014; Krueger, 1999) e un susseguirsi di analisi teoriche (Kendler, Zachar e Craver, 2011; Zachar e Kendler, 2007) hanno messo in discussione la validità, almeno in psichiatria, della struttura categoriale. I lavori degli ultimi 15 anni hanno dato il via a quello che sempre più appare come un evidente cambio di paradigma (Zachar e Kendler, 2017). Nonostante l’American Psychiatric Association e l’Organizzazione Mondiale della Sanità siano poco propensi all’adozione in toto di un modello dimensionale, nelle recenti revisioni dei loro manuali diagnostici hanno entrambi incluso alcuni elementi dimensionali (Narrow e Kuhl, 2011; Tyrer, Mulder, Kim e Crawford, 2019). Anche l’U.S. National Institute of Mental Health (NIMH) ha eliminato le diagnosi categoriali dal suo ultimo progetto (NIMH, 2020), come peraltro era già emerso quando erano stati pubblicati gli RDoC (Research Domain Criteria). I cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni riflettono proprio questa “crisi” verso la nosologia psichiatrica. Zachar e Kendler (2017) constatano che man mano che la nosologia psichiatrica si sposta verso un’ipotesi dimensionale, il dibattito scientifico e professionale si intensifica, e gli assunti fondamentali della classificazione cominciano a spostarsi. 

A sostegno della diagnosi dimensionale

I modelli dimensionali sono l’esito sia del tentativo di superare i limiti dei modelli categoriali sia di decenni di ricerche riguardanti la psicopatologia infantile e adulta. Il metodo della ricerca quantitativa (che utilizza specifici strumenti statistici, tra cui l’analisi fattoriale) è stato inizialmente applicato a studi che analizzavano il funzionamento in età evolutiva. Queste ricerche hanno dimostrato che si può inscrivere la maggior parte dei disturbi psichiatrici in alcune ampie dimensioni, talvolta denominate anche spettri (Achenbach, 1966, 1978; Achenbach e Edelbrock, 1978). Successivamente è emerso che questi spettri di psicopatologia possono, a loro volta, essere organizzati in una gerarchia: da qui l’interesse verso la creazione di strumenti per organizzare le informazioni relative a un paziente con i modelli dimensionali, in modo da confrontare le caratteristiche di un paziente con quelle di altre persone con problemi analoghi.
Il salto è avvenuto quando sono apparsi i primi studi condotti sulla popolazione adulta, che mostravano risultati sovrapponibili a quelli ottenuti in età evolutiva (Krueger, 1999; Krueger, Caspi, Moffitt e Silva, 1998; Krueger, Kotov, Watson et al., 2018; Caspi, Houts, Belsky et al., 2014; Kotov, Krueger, Watson et al., 2017).§Questo ha permesso di ipotizzare che anche negli adulti i disturbi psichici fossero caratterizzati da una dimensione internalizzante, indice di una potenzialità a sviluppare disturbi dell’umore e disturbi d’ansia, e da una dimensione esternalizzante, che suggerisce la possibilità di sviluppare disturbi caratterizzati da un comportamento manifesto e accentuato nelle sue caratteristiche (per esempio, uso di sostanze, comportamento antisociale ecc.) (Caspi et al., 2014). Negli anni si è potuta osservare una terza dimensione – la dimensione psicotica o di disturbo del pensiero, diversamente denominata dai singoli autori (Markon, 2009; Kotov, Chang, Fochtmann et al., 2011; Kotov, Ruggero, Krueger et al., 2011; Keyes et al., 2013).
A differenza dei modelli categoriali, i modelli dimensionali sono quindi l’esito di un processo bottomup, che avviene attraverso passaggi successivi: 

  1. in un campione cospicuo di persone si identificano gli “elementi costitutivi” della psicopatologia; 
  2. si procede verso maggiori livelli di generalizzazione, unendo segni e sintomi differenti in componenti omogenee e assemblando queste componenti in sindromi derivate empiricamente; 
  3. si organizzano le sindromi in fattori di ordine superiore, gli spettri (Waszczuck, Kotov, Ruggero et al., 2017; Kotov, 2016; Watson, 2005). 

Basandosi sulla covariazione di sintomi è quindi possibile ricavare le sindromi e, dalla covariazione delle sindromi, gli spettri di più ampio livello e così via (Kotov et al., 2017; Kotov, 2016).
In sintesi, lo scopo di queste ricerche è stato quello di individuare dimensioni sovraordinate via via più generali, utilizzabili per identificare la struttura della psicopatologia, descritta attraverso più livelli da leggere a cascata: quelli più alti sono quelli più generali e mano a mano che si prosegue verso quelli inferiori possono essere ulteriormente specificati. L’organizzazione gerarchica è una caratteristica importante della nosologia quantitativa: un approccio multilivello (che include sintomi, tratti, sindromi, sottofattori e spettri) permette di descrivere in modo flessibile il paziente, utilizzando, a seconda delle esigenze cliniche, diversi livelli di specificità (Kotov et al., 2017). Si può considerare lo spettro come una macrocategoria che ha un livello medio di selettività, all’interno del quale, valutando le dimensioni o i sintomi, rientrano soggetti che hanno caratteristiche cliniche comuni, ma eterogenee.

Il  fattore p

Il problema della comorbilità, tuttavia, non si risolve prendendo esclusivamente in considerazione i fattori di ordine superiore: dai dati di ricerca emerge che anche questi fattori condividono una grande percentuale di varianza (Krueger, 1999; Krueger et al., 1998; Wright, Thomas, Hopwood et al., 2012; Krueger e Markon, 2006). Alcuni ricercatori ipotizzano di conseguenza l’esistenza di un fattore più generale e di livello superiore – il fattore p – che spiegherebbe gli elevati tassi di correlazione tra gli spettri (Lahey, Applegate, Hakes et al., 2012). Diversi autori propendono per la presenza di questo fattore (Caspi et al., 2014), analogo al fattore generale delle abilità cognitive (fattore g; Spearman, 1904), che è associato alla probabilità di sviluppare una qualsiasi forma di psicopatologia, di riscontrare nel soggetto una qualità di vita inferiore, la presenza di difficoltà nella storia evolutiva e una maggiore familiarità con altre forme di psicopatologia (Caspi et al., 2014; Lahey et al., 2012; Krueger e Markon, 2006).
Non è facile definire che cosa sia p. È improbabile che esista una base eziologica comune per questo fattore generale. È peraltro possibile che questa dimensione sia un artefatto statistico, perché riflette gli impairment o la disfunzione associata senza rilevare le cause sottese. Il livello di menomazione accusato dal paziente determina il livello di p del singolo rispetto a un fattore generale e non la presenza di un determinato disturbo o tratto, nonostante autori diversi abbiano proposto interpretazioni differenti. Alcuni autori hanno, ad esempio, ipotizzato che il fattore possa riflettere una disposizione a un’emotività negativa (Lahey et al., 2017; Tackett, Lahey, Van Hulle et al., 2013) o una tendenza a rispondere in maniera impulsiva alle emozioni (Carver et al., 2017; Smith, Guller e Zapolski, 2013; Wright et al., 2013) o un basso livello di funzionamento cognitivo (Martel, Pan, Hoffmann et al., 2017; Caspi e Moffitt, 2018) o ancora una disfunzione del pensiero (Caspi e Moffitt, 2018). O – come formulato da altri ricercatori (Caspi e Moffitt, 2018; Lahey et al., 2017; Smith e Cyders, 2016; Tackett et al., 2013) – che sia un indicatore che si situa a livello superiore rispetto a quello delle singole disfunzioni.
Gli autori di SPECTRA fanno riferimento a questo fattore p come un importante indicatore che si situa a livello superiore, che permette di ipotizzare la presenza di una o più cause comuni che potrebbero concorrere a diverse forme di disfunzionamento. In questa nostra sintesi abbiamo cercato di definire quelle che sono le basi teoriche che hanno giustificato la decisione di creare uno strumento innovativo come SPECTRA che si colloca nel contesto di un approccio dimensionale.
A partire dalla sintetica definizione che ne danno Mark Blais e Justin Sinclair, il clinico si rende subito conto di avere in mano uno strumento completamente nuovo:

SPECTRA, creato sulla base dei modelli di ricerca quantitativa, permette di effettuare una valutazione gerarchica e integrata della psicopatologia, che parte dai costrutti clinici di livello inferiore e arriva a misurare i tre spettri di ordine superiore, fornendo al contempo informazioni fondamentali sulle capacità cognitive e adattive del paziente, che generalmente non sono disponibili in altri test.

Questa l’architettura di SPECTRA: al livello più alto (supraspectrum) si trova l’Indice Generale di Psicopatologia (GPI); al secondo livello (spettri) trovano posto lo Spettro Internalizzante (INT), quello Esternalizzante (EXT) e lo Spettro Compromissione della Realtà (RI).
Al terzo livello (subspectra) si collocano i fattori denominati Disturbo del Pensiero (TD), Mania, Disturbo da Uso di Sostanze (SUD) e Comportamento Antagonistico Disinibito (DIS) che a coppie fanno capo allo spettro RI e a quello EXT. Alla base della struttura gerarchica (quarto livello) i 96 item di cui è composto lo SPECTRA declinano le dodici scale che descrivono differenti sintomatologie cliniche. Se consideriamo il modo in cui siamo abituati a utilizzare i self-report, il cambiamento è enorme. SPECTRA si pone come un punto di partenza per il nuovo paradigma imposto dalla lettura dimensionale. Lo scenario delineato è quello che avverrà nel nostro futuro di psicologi clinici. I tre spettri, che concorrono a SPECTRA, non sono tuttavia il punto di arrivo, ma una fermata intermedia. La nostra attenzione è già stata “catturata” dal modello Hierarchical Taxonomy of Psychopathology – HiTOP (Kotov, Krueger e Watson, 2018) che definisce le sindromi psicopatologiche e i loro componenti basati sulla covariazione osservata dei sintomi, raggruppando i sintomi correlati; combina le sindromi co-occorrenti in spettri e caratterizza questi fenomeni dimensionalmente. In questo modo si può far meglio fronte ai problemi di confine e all’instabilità diagnostica, seguendo un percorso che è quello della logica dimensionale. Il modello HiTOP, tuttavia, postula sei ampi spettri di psicopatologia (somatoforme, internalizzante, disturbo del pensiero, esternalizzante disinibito, esternalizzante antagonista e distacco) che includono – a livello di ordine inferiore – dei sottofattori e a livello di sindrome osservata sintomi di disturbo individuali. L’HiTOP rappresenta l’ennesimo sforzo per sviluppare una riorganizzazione globale della psicopatologia, che a questo punto rappresenta, e non potremmo intenderlo diversamente, un work in progress. 

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Ripreso e adattato da Blais, M.A., e Sinclair, S.J., (2018). SPECTRA Indices of Pstìychopathology. Lutz, FL: PAR. (Ad. it. a cura di L. Abbate, M. Lang e E. Francia, 2021, Firenze: Hogrefe).