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numero 56 - aprile 2018

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Perché per tanti collaboratori è difficile accettare feedback?

Perché per tanti collaboratori è difficile accettare feedback?

In un precedente articolo apparso su questa rivista a gennaio 2018 ho parlato del feedback come una delle leve manageriali più importanti nella gestione dei collaboratori, e ho pensato che oltre mettere a fuoco la questione dal punto di vista del manager mi sarebbe piaciuto affrontare la questione anche dal punto di vista del collaboratore in particolare rispetto ai vissuti, alla possibilità di riceverlo, accettarlo e metabolizzarlo a fini di miglioramento e di crescita.
A proposito dei vissuti… I collaboratori vivono il momento della valutazione in una condizione assolutamente simile e speculare a quella sperimentata dai propri responsabili. La valutazione per sua natura è un momento che genera un certo grado di attivazione e di aspettative positive o negative nel collaboratore a seconda del livello di performance raggiunto. È un momento di “intimità relazionale” in quanto c’è aspettativa di uno scambio aperto, diretto e franco pur nel rispetto di un linguaggio appropriato al contesto aziendale, in un tempo e un luogo appropriato con un adeguato livello di attenzione da parte del manager. Sicuramente l’esplicitazione da parte del manager dell’intento valutativo e non giudicante, in termini di miglioramento della performance individuale e supporto della performance aziendale, è un elemento chiave che facilita l’avvio della discussione che richiama la connessione tra il singolo e l’azienda. Valutare deriva dal latino valeo che significa appunto apprezzare, dare valore. Un punto di partenza ben diverso dal giudicare ossia dal trasferire al collaboratore “non sei capace di…”.
In merito alla possibilità e alla misura in cui collaboratori sono in grado di recepire i feedback dei loro manager, credo che la questione più delicata sia direttamente connessa a come la persona vive il momento e in genere le relazioni asimmetriche, ossia quella relazioni in cui il suo potere è differente dal potere dell’altra persona, e se nonostante tutto la persona anche in questa occasione riesce a mantenere una posizione “io sono ok tu sei ok” (Harris 2000).
Le altre componenti ritengo siano legate alla paura del giudizio e al timore del fallimento. Il collaboratore può confondere o meno la valutazione su determinati comportamenti con un giudizio rispetto a sé e alla sua persona nella sua totalità anziché intenderla come un momento di valutazione dei suoi comportamenti specifici in un determinato contesto e del suo contributo professionale. Il timore del fallimento può poi portare il collaboratore ad un ascolto selettivo e ad una certa chiusura… l’idea di fallire è talmente difficile da tollerare che il collaboratore non possa credere di aver sbagliato e spesso si ostini nella propria convinzione di aver fatto bene.
Va da sé inoltre che la valutazione possa poi richiamare esperienze di valutazione di figure significative del passato che possono inficiare l’esperienza di oggi attivando dei fantasmi del passato (“esperienze elastico”). In queste situazioni il manager si troverà di fronte ad un collaboratore che pur essendo presente fisicamente è poco raggiungibile, e si presenta molto difeso. Una domanda aperta fatta con tatto e delicatezza in questi casi può aiutare a sbloccare la situazione e a ricentrarsi sul presente.
E infine, quando i collaboratori sono in grado di recepire il feedback e utilizzarlo a fini di un miglioramento?
I collaboratori sono in grado di utilizzare e ritengono utile il feedback quando soddisfa alcune condizioni che lo rendono “actionable” ossia in grado di stimolare la persona alla riflessione e poi all’azione. Il feedback è importante che ruoti su comportamenti, sia specifico, ossia legato a particolari situazioni, e rintracciabile nel tempo. Il feedback ha valore quando è fattuale ossia basato su evidenze oggettive e quindi centrato sull’impatto e non frutto di una interpretazione soggettiva.
Per il collaboratore è importante che si faccia riferimento ad un comportamento, positivo o negativo che sia, e si offra una guida che gli consenta di prendere consapevolezza dell’effetto, aiutandolo poi nel caso il comportamento non sia in linea, a svilupparne un altro alternativo. Hai fatto così… che risultato hai ottenuto? Che cosa avresti potuto fare di diverso? Con che risultati?
Infine un buon feedback è sempre legato alle capacità chiave di un ruolo… allineato all’organizzazione e connesso alla big picture cioè richiama alla cultura e al momento di vita evolutiva aziendale (Porter, 2017).
Accettare un feedback per un collaboratore richiede apertura e desiderio di mettersi in discussione e un buon grado di maturità… d’altro canto è vero che se partiamo dal presupposto che il feedback is a gift… aggiustare il tiro ne vale la pena e aiuta a progredire. 

Bibliografia

  • Harris, T.A., (2000). Io sono ok tu sei ok. BUR.
  • Porter, J., (2017). How to give feedback people can actually use. Harvard Business Review.