QI - Questioni e idee in psicologia - Il magazine online di Hogrefe Editore

Qi, il magazine online di Hogrefe Editore.
Ogni mese, cultura, scienza ed aggiornamento
in psicologia.

numero 57 - maggio 2018

Hogrefe editore
Archivio riviste

Tema del mese

Perché le emozioni primarie sono così importanti?

Perché le emozioni primarie sono così importanti?

Visitando lo zoo di Londra, Darwin si fermò davanti alla teca contenente un esemplare di Bitis arietas, la vipera soffiante, un serpente letale. Provò ad appoggiare il naso sullo spesso contenitore di vetro con l’obiettivo di provare a non fare un passo indietro se il serpente si fosse avventato verso di lui. Non solo non ci riuscì quella volta ma non vi riuscì mai. Ogni volta che il serpente si avventava, lui indietreggiava seppure protetto dalla teca.

Questo aneddoto è uno di quelli che Darwin riporta per mettere in luce quanto la spinta delle emozioni primarie sia decisamente più forte di quella della volontà razionale.
Perché questo avviene? Semplice, perché le emozioni sono filogeneticamente più antiche del pensiero razionale, sono innate e hanno il preciso compito di salvarci la vita o, quantomeno, favorirci nell’adattamento all’ambiente. Sappiamo infatti come l’adattamento all’ambiente sia la condizione principale per garantire la sopravvivenza, non sono fisica ma anche psichica.
Le emozioni sono un qualcosa di molto potente verso cui gli esseri umani, hanno spesso atteggiamenti ambivalenti; in altre parole grande amore e grande odio. Grandi amori dovuti al fatto che le emozioni “colorano” le esperienze che viviamo; grandi odi da attribuire la fatto che  il colore che danno non è sempre così piacevole o, comunque, è un colore diverso da quello che gli altri si aspettano da noi.
Pensiamo alla gioia che proviamo nel sentirci amati, nel vivere un successo, nel realizzare qualcosa di importante. Pensiamo invece a come ci sentiamo quando veniamo lasciati, riceviamo una cattiva notizia o veniamo prevaricati da qualcuno. Pensiamo anche a quando, da piccoli, ci siamo sentiti tristi per qualcosa (ad esempio una sorellina in arrivo che vivevamo come una minaccia) ma i genitori ci dicevano che non dovevamo essere tristi, bensì felici. In quest’ultimo caso è possibile che la tristezza venga vissuta come un’emozione non legittima.

Per molti anni in Europa ha prevalso una visione dualistica della mente: ragione vs emozione dove l’emozione veniva vista come una sorta di interferenza alla razionalità. Ma perché nella storia c'è stata tutta questa diffidenza e a volte anche ostilità per la dimensione emotiva? Per due motivi sostanziali:

  • Perché le emozioni sono difficilmente controllabili. Darwin lo sapeva bene. La ragione non ha mai ottenuto particolari successi nel “tenere a bada” le emozioni; e ciò che non è controllabile, non è prevedibile e ciò che non è prevedibile spaventa o quantomeno viene percepito come un problema.
  • Perché inviano messaggi "scomodi", dove per scomodi si intende in controtendenza rispetto agli imperativi morali dei vari periodi storici o anche solo della famiglia. Tanto per fare un esempio, prendiamo i sette vizi capitali: superbia avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia; quattro hanno a che fare con la sfera emotiva (su lussuria, invidia, ira e accidia, e anche sulla gola, volendo si può parlare...). Nella mia esperienza non sono rari i pazienti che si trovano a vivere in conflitto tra le spinte emotive che hanno e gli imperativi familiari.

Partiamo dal primo punto. Se le emozioni e la ragione facessero a braccio di ferro, vincerebbero senza ombra di dubbio le prime; le emozioni, infatti, sono programmate per prendere il sopravvento sulla razionalità.
Chiaramente c’è un vantaggio evolutivo in questo, non è che siamo programmati con un bug del sistema!
Pensate cosa accadrebbe se nell’attraversare la strada sentissimo arrivare un’auto a tutta velocità e non avessimo paura; se non avessimo l’istinto di difenderci quando siamo minacciati. Le emozioni ci fanno fuggire, combattere ecc. in modo quasi automatico. Ad esempio, la paura è pensata per farci scappare e permetterci di salvarci la vita quando ci piomba addosso un pericolo (anche l'immobilizzarsi è un comportamento innato connesso alla paura che si attiva in quelle situazioni in cui la fuga non è possibile o non è la soluzione più vantaggiosa).
La paura è un'emozione primaria ossia, finalizzata alla sopravvivenza della specie. Altre emozioni primarie sono:

  • gioia: ci informa che la situazione che stiamo vivendo è positiva per noi e ci stimola a preservarla o mantenerla; inoltre avvicina le persone e favorisce la cooperazione;
  • tristezza: ci informa che stiamo vivendo una situazione di separazione, perdita, speranza infranta, fallimento; è programmata per farci ritirare prendendoci il tempo per riprenderci da un evento negativo ed è programmata anche per chiedere supporto agli altri, pensiamo al comportamento del piangere che attiva un comportamento di cura nell'altro;
  • rabbia: ci informa che i nostri confini sono stati violati e stimola al combattimento e all'autodifesa;
  • disgusto: ci informa sul fatto che qualcosa può essere nocivo per il nostro organismo e quindi potenzialmente mortale.

Quello che hanno in comune le emozioni primarie è che ci informano su che cosa sta accadendo e su che cosa fare; hanno in sé quella spinta ad agire che ci distrae da quello che stiamo facendo per farci concentrare sul fatto che dobbiamo sopravvivere!
Questo è il ruolo evolutivo delle emozioni: tenerci al corrente su cosa è nel nostro interesse e stabilire un obiettivo da raggiungere predisponendoci all'azione. Il come farlo è compito della ragione. È come se ci fosse un doppio controllo: il comportamento automatico, infatti, non sempre è quello migliore, specie quando la complessità aumenta. La ragione serve ad affinare la tecnica.
Quindi, l'emozione ci informa su che cosa è nel nostro interesse e ci predispone ad agire; la ragione ci consente, in molte situazioni in cui la nostra vita non è in pericolo imminente, un ulteriore livello di valutazione che ci consente di scegliere come raggiungere al meglio ciò che è nel nostro interesse. Pensiamo, ad esempio, a un cliente che ci fa arrabbiare. L’istinto sarebbe quello di mandarlo al diavolo. Questo però potrebbe essere controproducente per noi perché il cliente non ci pagherebbe più quindi, la ragione ci aiuta a trovare strategie diverse in cui entrano in gioco i processi cognitivi superiori come le funzioni esecutive o la memoria che non sono compito del cervello limbico (quello emotivo) ma della corteccia (la logica).
Per questo motivo è importante un equilibrio tra ragione ed emozione. Facile a dirsi ma difficilissimo a farsi! Infatti, uno sbilanciamento sul versante emotivo può avere come conseguenza il mettere in atto comportamenti in linea con il bisogno personale ma che tengono poco conto del contesto sociale (avete presente tutte quelle volte che avete fatto una cosa di impulso e poi vi siete pentiti? Parlo di questo…), uno sbilanciamento sul versante della razionalità rende le persone meno efficaci nel valutare ciò che è nel loro interesse e che va nella direzione del loro benessere (pensiamo a tutti quegli imperativi più o meno morali a cui ci si adegua perché è logico fare così: scegliere lavori che non si amano, sposarsi perché ci si aspetta che ci si sposi dopo una certa età, magari con quella persona, non esprimere mai rabbia e malessere quando si è prevaricati per paura di compromettere un rapporto ecc). Si tratta di un equilibrio difficile in cui occorre imparare a regolare sia la dimensione emotiva che quella razionale.
Le emozioni ci informano di qualcosa, tutte le emozioni! Quindi non esistono in sé emozioni positive e negative, giuste o sbagliate, ma la società ne ha sicuramente penalizzata qualcuna più di altre: la rabbia (soprattutto nelle donne), la paura (soprattutto negli uomini) e la tristezza (democraticamente ammonita fra i due sessi) non hanno riscosso sempre tutta questa simpatia a livello sociale.
Frasi come "come sei brutta quando piangi", "che uomo sei se hai paura?", "il nonno non vorrebbe vederti piangere" (al suo funerale…), "le signorine non si arrabbiano", “ma non ti vergogni a arrabbiarti così?” sono finalizzate a inibire un'emozione (attraverso un giudizio) e quindi indurre qualcuno a non ascoltare un segnale che lo sta informando di qualcosa.
I bambini, quando ricevono un giudizio da una figura di riferimento, si trovano a dover compiere una scelta molto, molto difficile: rimango fedele alla mia emozione (pena l'abbandono di mamma) oppure mi convinco di non essere arrabbiato (così ricevo l'approvazione della mamma)? Indovinate per quale opzione optano i bambini? Già, perché oltre ad essere programmati alle emozioni siamo programmati anche per soddisfare il bisogno di accudimento e dipendenza da una figura di riferimento com'è tipico dei mammiferi. In questo modo, però, le persone fin da piccole sono abituate e imparano a trasformare i messaggi emotivi in qualcos'altro con la conseguenza che i comportamenti che ne derivano non sempre sono azzeccati.
Se apprendo che provare rabbia è sbagliato, quando sentirò la rabbia mi convincerò (a livello inconsapevole) che quello che sento è sbagliato e tenderò o a negarlo o a trasformarlo in qualcos'altro. Ed è così che escono fuori quelli che i media chiamano raptus. Il raptus altro non è che l’esito di un’indigestione emotiva. 

Un caso

Ricordo un cliente che ho seguito qualche anno fa. Un uomo di 38 anni, molto (troppo?) affabile, con un'espressione del viso spesso sorridente e bonaria, quasi da apparire ingenuo.
Mi colpirono molte cose di lui tra cui la sua struttura fisica esilissima e il fatto che quando mi parlava degli episodi relativi alle sue interazioni con persone con cui aveva a che fare (colleghi, parenti, amici, compagna) aveva la tendenza ad apparire adattabile a "lasciar correre". Il disagio che mi portava, però, era legato ad alcuni momenti che lui definiva di black-out in cui, in situazioni in cui si sentiva prevaricato (anche molto piccole come una mancata precedenza) si sentiva completamente sopraffatto dalla rabbia e agiva comportamenti pericolosi e, spesso, privi di logica (ad esempio minacciare fisicamente le persone anche con una fisicità molto più pronunciata della sua che, in effetti, era molto esile).
Quello che è emerso nella storia della persona era quanto, fin da piccolo, sua madre non avesse mai ammesso nessun tipo di sentimento riconducibile alla rabbia. Anche nei momenti di prevaricazione subiti dalla persona, l'atteggiamento della madre era quello di giustificare gli altri (o comunque incitarlo a perdonarli) delegittimando qualunque sentimento di rabbia etichettato come sbagliato. Questa dinamica si è verificata anche quando il mio cliente scoprì di essere stato tradito dalla precedente compagna. Anche in quel caso la madre aveva delegittimato la sua rabbia incitandolo al perdono.
Questa impossibilità di prendere contatto con la rabbia lo aveva portato, negli anni, a raccontare a se stesso (in modo inconsapevole) che la rabbia che provava non era mai legittima. Quindi la prima strategia era quella di giustificare gli altri e dire a se stesso che non c'era motivo di arrabbiarsi (adattarsi agli altri). Tuttavia, quando questa strategia non funzionava (ad esempio perché succedeva tutto rapidamente oppure perché aveva davanti sconosciuti e quindi meno informazioni da utilizzare per argomentare la giustificazione di un comportamento di prevaricazione), esplodeva. Il non poter sentire la rabbia, aveva avuto due conseguenze sulla persona: la difficoltà a riconoscere le situazioni di prevaricazione (si adattava) e la difficoltà a regolare la rabbia (regolare qualcosa che non si conosce è difficile).
Lavorammo insieme, con successo, proprio sul sentire la rabbia, riconoscerla e gestirla.

Conclusioni

E quindi con queste emozioni cosa si fa? Il consiglio è quello di imparare a riconoscerle il meglio possibile perché in questo modo abbiamo informazioni sulla situazione che stiamo vivendo e siamo consapevoli di come ci sentiamo. Più elementi abbiamo a disposizione per valutare una situazione, più strumenti ci sono per pianificare una strategia di azione. 

Bibliografia per l’approfondimento

  • Damasio, A. (1995). L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi.
  • Greenberg, L. S., & Paivio, S. C. (2000). Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata. Roma: Sovera Edizioni.
  • Rogers, C. (1994). La Terapia Centrata sul Cliente. Firenze: G.Martinelli.