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Lo Stress Questionnaire (SQ): leader e collaboratori a confronto in una prospettiva globale/locale
Lo Stress Questionnaire (SQ): leader e collaboratori a confronto in una prospettiva globale/locale
Il decreto 81/08 è un’opportunità?
Lo stress lavoro-correlato è stato definito, nel 1999, dal National Institute for Occupational and Safety and Health (NIOSH) come una serie di “reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifestano quando le richieste lavorative non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore”, collegando in tal modo le reazioni di stress al contesto lavorativo (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2007).
Le previsioni per il futuro non sono incoraggianti: l’attuale, complesso, scenario socio-economico fa presumere che il numero di persone che presentano stress correlato all’attività lavorativa sia destinato ad aumentare (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2007). Da tener, inoltre, presente che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la depressione potrebbe diventare, entro il 2020, la causa principale di inagibilità al lavoro (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2007).
In questo pericoloso scenario si inserisce un’ancora di salvezza importante per le organizzazioni, il decreto 81/08 e le sue successive modifiche (Fantini, 2009), con che prevede l’obbligo per le aziende di valutare ed intervenire sullo stress lavoro correlato. Un obbligo che, se pur oneroso e dispendioso per le aziende, può risultare anche un’opportunità di prevenire gli ingenti danni non solo monetari che il fenomeno stress può arrecare ai lavoratori tutti (European Agency for Safety and Health at Work, 2009).
Purtroppo da quando il decreto è stato emesso si rilevano non solo opportunità per le aziende, ma anche delle pericolose “trappole” messe in atto da improvvisati esperti di stress lavoro correlato.
Le organizzazioni e il loro management non si possono affidare a professionisti poco preparati sulla tematica che si sono diffusi a macchia d’olio, a piattaforme teoriche improvvisate, a strumenti non validati, a esperti di comunicazione o formatori che diventano improvvisamente esperti o formatori di stress lavoro correlato, a psichiatri o psicoterapeuti che diventano dall’oggi al domani analisti di azienda. Le aziende devono iniziare a valorizzare gli studi ed i metodi più qualificati dal punto di vista scientifico, anche nel campo dello stress per riuscire ad avere dati di partenza fondati su cui pianificare interventi ad hoc. Parallelamente, le modifiche più recenti del decreto 81 rischiano di “intrappolare” la valutazione dello stress a quantificazioni troppo riduttive fatte da esperti aziendali, tramite checklist aziendali, bypassando quello che può essere definito il cuore dello stress: la percezione soggettiva (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, 2012). In questa ottica, l’assenteismo, gli infortuni o il semplice sguardo terzo di un esperto dell’azienda diventa l’unico parametro affidabile per valutare lo stress e soltanto se il giudizio e l’analisi di dati definiti “oggettivi” volgono a favore di un rischio di stress si potrebbe procedere ad una valutazione più ampia e “soggettiva”. Tuttavia con la mera applicazione del primo e talvolta unico step di valutazione dei dati oggettivi si rischia di perdere la possibilità di analizzare le vere fonti di stress che devono necessariamente e più democraticamente esplicitate anche da chi vive la realtà aziendale ogni giorno, che non solo osserva ma soprattutto vive in prima persona potenziali costrittività organizzative. L’analisi dei dati oggettivi non terrà conto del reale vissuto dei dipendenti, delle loro emozioni, non cercherà di prevenire patologie organizzative, perché la demotivazione distruttiva e l’atrofizzazione psicologica dei lavoratori non fanno parte delle informazioni da elaborare (Giorgi, Majer, 2012). Inoltre, dati che vengono computati per la valutazione dello stress oggettivo possono non essere universalmente validi quando viene misurato lo stress soggettivo. Per esempio, la letteratura di riferimento mette in luce come esista una relazione significativa fra assenteismo e stress, anche se non appare così forte come si potrebbe pensare di primo acchito. In linea con Thyholdt et al. (1986), le persone stressate tenderebbero prima a maturare sintomi specifici piuttosto che arrivare subito all’assenteismo. È doveroso infatti rilevare come siano molti i casi in cui persone stressate, decidano comunque di non assentarsi per svariate cause: competizione interna, cultura organizzativa o del team, mole di lavoro difficile da gestire. L’individuo pertanto, anche se fisicamente presente e non necessariamente improduttivo, mette comunque a rischio il suo stato di salute.
Dall’altra parte è doveroso rilevare l’altra faccia della medaglia dell’assenteismo, ovvero quella di lavoratori che per un minimo problema restano a casa, oppure sono fisicamente presenti, ma mentalmente assenti (fenomeno che in letteratura viene chiamato preesenteism) atrofizzati da un ambiente lavorativo troppo passivo, emotivamente arido e poco intelligente (Giorgi, in press).
Inoltre, un forte limite del metodo oggettivo tramite checklist è quindi l’esiguità del numero dei valutatori che, anche per cause esterne (es. l’artificiosità del setting), può distorcere più o meno consapevolmente la checklist. Inoltre, le misure derivanti dall'osservazione e riportate nella checklist potrebbero, semplicemente, non essere così "oggettive"; per mancanza di informazioni alle quali è difficile avere accesso (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, 2012).
“Vino vecchio in vecchie bottiglie”, “vino nuovo in vecchie bottiglie”, o più semplicemente “acqua in bottiglie di plastica?”: la sfida di costruire un nuovo strumento sullo stress pensato per la cultura italiana.
Per una corretta valutazione dello stress occorre inevitabilmente inquadrare il fenomeno anche in una prospettiva culturale che enuclei processi di integrazione e differenziazione rispetto ad altri paesi europei e non solo (Giorgi, 2010). Un solo adattamento miope di scale provenienti da paesi che presentano sistemi economici particolarmente floridi e sistemi normativi diversi in materia di lavoro se da una parte possono fornire indicazioni scientifiche esatte, avvalorate da attività di benchmarking, dall’altra rischiano di distogliere l’attenzione da nuove o diverse tipologie di stressors emergenti nelle organizzazioni italiane.
Si è deciso pertanto di costruire un nuovo strumento psicometrico perché gli inventari sullo stress, nuovi o vecchi che siano, si rifanno infatti a modelli datati non al passo con i tempi. Sono passati troppo anni ed una applicazione miope di uno strumento datato nelle sue fondamenta teoriche rischia di ingessare un corpus di conoscenze e renderlo ancora più immobile.
Anche il famoso Standard Management Indicator Tool, che trova anche nel nostro contesto buona validità ed attendibilità (Toderi et al. 2013) trova le sue origine storiche, nella definizione degli stressor, negli anni 2004-2005. In quegli anni non esisteva ancora la crisi economica, il livello di precariato era già elevato nel nostro paese, ma ancora tollerabile, il mercato appariva stabile e si respirava un maggiore welfare nelle aziende.
Il valutatore dello stress non deve “ubriacare” l’organizzazione con “vino vecchio in vecchie bottiglie” né con “vino nuovo in vecchie bottiglie”, ma deve soddisfare, compatibilmente con l’ambiente di riferimento, le necessità dell’organizzazione, anche se queste corrispondono semplicemente ad “acqua in bottiglie di plastica”. Con questa metafora si cerca di esplicitare come numerosi studi italiani sullo stress, sia recenti che più datati, abbiano rigidamente aderito a modelli accreditati nel panorama internazionale, soprattutto nord-europeo, ma che non sembrano, a giudizio di chi scrive, rispondere completamente delle esigenze, forse diverse e anche più primarie, che si sono manifestate negli ultimi anni in contesti lavorativi Sud-Europei come l’Italia.
Non possiamo infatti dimenticare che in questi ultimi 10-15 anni sono avvenuti cambiamenti socio-economici particolarmente rilevanti; dalla tecnologia alla globalizzazione, dall’implosione demografica all’aging, dalle concentrazioni aziendali alla crisi, ciò ha sicuramente trasformato le organizzazioni che necessitano pertanto di essere valutate con nuovi metodi di misura. Fenomeni di pertinenza dello stress che non avevano un nome in alcuni paesi, oggi appaiono improvvisamente nella cronaca e sono oggetto di attenzione da parte dei lavoratori, dei media, della classe politica, della società. Il mobbing, forma estrema di stress, è apparso in Italia soltanto nel 1996, i comportamenti negativi sul lavoro non venivano considerati come disfunzionali, ma soltanto inefficienti. Lo stalking, oggi rivendicato in Italia sul piano legale, non veniva sanzionato. Il karojisatzu, suicidio per motivi di lavoro, era confinato in alcuni paesi dell’Asia, ma recentemente aziende europee sono diventate teatri drammatici di alienazione estrema. E ancora, stiamo affrontando da ormai qualche anno una crisi economica che non accenna ad arrestarsi e che porta con sé paura, ansia e mette i lavoratori maggiormente fragili a rischio di gesti inconsulti. Gli italiani in età lavorativa hanno sempre più difficoltà a trovare lavoro, con un triste primato dei giovani che percepiscono il loro livello di employability come molto basso. In altre parole, tutti questi fenomeni correlati allo stress lavorativo non possono che indicarci una strada da seguire: lo stress è un fenomeno inevitabilmente figlio del suo tempo che deve essere contestualizzato dal punto di vista culturale e sociale e pertanto deve essere studiato attraverso queste diverse prospettive.
Oltre il self-report
Giorgi, Arcangeli e Cupelli (2012; in press) nella costruzione di un nuovo metodo per la valutazione dello stress mettono in luce la necessità di operare un’integrazione di un’analisi di rischio della dimensione oggettiva basata su indicatori, eventi e caratteristiche stabili e parametrizzabili. Tuttavia gli autori rilevano che il limite del ricorso esclusivo a misure auto-riferite appare anche esso importante, specialmente quando si ricerca una relazione causa effetto tra variabili (Semmer, Grebner, Elfering, 2004). Cox, Griffiths e Rial-Gonzales (2000), in particolare, hanno enucleato due principali problemi metodologici legati all'utilizzo delle misure self-report, ovvero l'influenza dell'affettività negativa e della varianza comune di metodo.
Inoltre Giorgi et al. (2012) hanno evidenziato come, facendo particolare riferimento alla cultura italiana, potrebbe esserci la tendenza di alcuni lavoratori a presentare un’immagine di se stessi o dell’azienda in cui si lavora migliorativa o peggiorativa, in poche parole potrebbero esserci dei casi in cui la risposta ai questionari, più o meno consapevolmente possa essere distorta dai rispondenti. Pressioni politiche, conflitti con l’azienda, competizione in azienda sono solo alcune delle ragioni che spingerebbero il lavoratore a presentare una situazione lavorativa diversa da quella reale, ovvero dare un’”impression management”. Inoltre anche la paura di perdere il posto di lavoro, in un periodo di forte crisi economica e di ristrutturazioni organizzative, potrebbe portare alcuni lavoratori a celare il proprio livello di stress per non apparire come poco performanti e quindi maggiormente a rischio di licenziamento.
Si ricorda infine che la valutazione dello stress correlato è uno strumento potente che nel nostro paese trova una specifica ed importante valenza in quanto viene inserito nel DVR (Documentazione Valutazione Rischi) che sappiamo comportare peculiari obblighi in seno al datore di lavoro.
Su queste basi teoriche, Giorgi, Arcangeli e Cupelli (in press) nel nuovo metodo proposto di valutazione dello stress lavoro correlato, evidenziano che l’analisi del vissuto lavorativo dovrebbe risultare il più possibile impermeabile a contaminazioni di bias (andando quindi a controllare e misurare il contributo di variabili distocertenti come la Positive Impression Scale). Inoltre per superare i bias derivanti dalla varianza comune di metodo, lo stress andrebbe misurato non soltanto attraverso il percepito ed il riferito dei lavoratori (in autovalutazione), ma anche in eterovalutazione in cui i leader, oggi figure chiave per la salute organizzativa e profondi conoscitori degli aspetti sia formali che informali dell’organizzazione, valutano lo stress dei propri collaboratori/subordinati cercando di mettersi “nei loro panni”.
Il ruolo del leader nella valutazione dello stress
Lo stress, come altri costrutti simili, può essere definito un virus, una malattia contagiosa. La facile trasmissibilità dello stress è supportata non solo dagli studi sul contagio emotivo, ma anche dall’elemento più organizzativo dello “shared stress”, che spiega le situazioni in cui un lavoratore non riesce a finire il proprio compito, e questa mancanza va a cadere anche sulla mansione di un altro lavoratore, contribuendo pertanto a scaricare stress o comunque a influenzare il lavoratore non solo dal punto di vista emozionale (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, 2012; Giorgi, Arcangeli, Cupelli, in press; European Agency for Safety and Health at Work, 2009).
I manager dovrebbero pianificare molto bene il lavoro in modo che lo stress non si trasmetta troppo, anche a livello cognitivo, da persona a persona. In questa ottica è importante che il manager comprenda il livello di stress dei propri collaboratori/subordinati, per evitare che le mancanze di qualcuno vadano a pesare troppo sugli altri. Un membro dello staff che non riesce a svolgere il lavoro, come evidenziato da Felps e colleghi (Felps Mitchell, Byington, 2006), può essere una “mela marcia” che danneggia la prestazione dell’intero gruppo.
Appare quindi essenziale riflettere su quanto il leader sia in grado di riconoscere lo stress dei propri collaboratori/subordinati. Questo aspetto non è stato indagato in modo approfondito nella letteratura specialistica e pertanto non sappiamo quanto i leader siano capaci di comprendere in modo accurato lo stress dei collaboratori, leggendone anche i segnali deboli.
I leader infatti potrebbero fare degli errori fondamentali di attribuzione, per esempio valutando lo stress come un fenomeno di pertinenza al contesto organizzativo (interno ed esterno) piuttosto che del proprio gruppo di lavoro (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, in press). Oppure potrebbero sovrastimare i punti di debolezza, i gap di competenza, fino a “patologizzare” la personalità dei subordinati, attribuendo lo stress a queste lacune personali invece che a difficoltà intrinseche al compito o alla mansione (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, 2012).
Inoltre bias che spingono gli individui ad avere un’immagine positiva di se stessi (fino ad arrivare al narcisismo) potrebbero inibire i leader dal prendere seriamente cura dello stress dei propri subordinati (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, in press). Lo stress infatti potrebbe essere concettualizzato dai leader non soltanto come un cattivo indicatore di performance dei collaboratori, ma anche per loro stessi. Infine diverse ricerche (per esempio Batinic, Selenko, Stiglbauer, Paul, 2010) hanno messo in luce che i leader potrebbero avere una maggiore tolleranza allo stress dei propri subordinati e più in generale di lavoratori di minore status. Ciò potrebbe renderli meno capaci di riconoscere i segnali deboli dello stress dei subordinati.
In sintesi i processi psicologici sopra esplicitati potrebbero creare un patter di sottostima dello stress dei subordinati messo in atto dai leader. Un leader che non riconosce lo stress dei propri follower, in particolare quando li vede meno stressati di quanto davvero effettivamente sono, può automaticamente generare malessere in quanto metterà probabilmente in atto uno stile e dei comportamenti non completamente appropriati o comunque poco consoni, con maggiori rischi qualora l’errore di valutazione non riguardi il singolo, ma l’intero gruppo di collaboratori. L’incapacità di capire lo stress dei propri collaboratori può generare forte insoddisfazione e stress a catena (la fonte di stress per un soggetto diventa con il tempo fonte di stress anche per un altro soggetto) e quindi contribuire alla diffusione a macchia d’olio di disagio nell’organizzazione.
L’integrazione dell’autovalutazione e dell’eterovalutazione per la misura dello stress
L'intento di Giorgi et al. (Giorgi, Arcangeli, Cupelli, in press) in materia di stress consiste nel superare i limiti intrinseci alla "soggettività" dei self-report utilizzando anche valutazioni espresse dal superiore.
Questa doppia valutazione oltre a garantire una maggiore scientificità nella misurazione può essere particolarmente importante per una più accurata diagnosi dello stress e per i successivi interventi post-valutazione che il decreto rende obbligatori qualora lo stress rappresenti un rischio non facilmente controllabile. Infatti, i risultati dei metodi autovalutativi ed eterovalutativi possono essere sia convergenti che divergenti, cioè la correlazione tra auto ed etero-valutazioni dei fattori di rischio, può essere variabile ed aprire pertanto ulteriori spunti di riflessione. La discrepanza delle valutazioni fornite viene pertanto considerata, in linea con la letteratura (Yammarino, Dubinsky, 1994) un elemento importante di intervento. In particolare Giorgi, Arcangeli e Cupelli (in press) ipotizzano che le discrepanze dei rating leader-subordinati influenzino negativamente lo stato di salute degli ultimi. È l’under-rating, ovvero il leader che sottostima lo stress dei propri collaboratori, ad apparire particolarmente pericoloso per il benessere dei collaboratori. Se infatti i leader percepiscono i propri collaboratori poco stressati o non stressati, quando magari lo sono molto, è possibile che non alleggeriscano i carichi di lavoro, replichino modalità di lavoro poco funzionali o non cerchino di cambiare il clima dell’ufficio. Elementi invece che potrebbero rappresentare soluzioni e meccanismi di coping adattivi per far fronte al problema dello stress. Il non intervento dei leader, può aggravare la posizione dei collaboratori che potrebbero sentirsi vittime di un sistema organizzativo poco interessato alla loro salute e che tende a consumare le loro risorse provocando una forte insoddisfazione.
In linea con la letteratura internazionale, anche in materia di stress, questo studio pone l’accento sull’integrazione delle prospettive di autovalutazione ed eterovalutazione (Panari et al., 2012). In particolare l’autovalutazione, rafforzata dall’etero-valutazione che si avvale dei leader, appare un metodo di grande potenzialità per la valutazione dello stress.
Lo Stress Questionnaire
Lo Stress Questionnaire (SQ) è un test finalizzato alla promozione del benessere e all’individuazione di aree che potrebbero essere percepite come stressanti da parte del personale in azienda. La promozione della salute è infatti il principale strumento per scongiurare gli effetti negativi dello stress. Lo SQ individua cinque macro aree di indagine che vengono esaminate nel dettaglio attraverso lo studio dei diversi fattori che costituiscono ciascuna macro area. Il risultato fornito è di tipo aggregato nel senso che restituisce punteggi riferiti all’insieme di un gruppo di persone che hanno completato il test e non dei singoli individui. Tali risultati permettono quindi di cogliere lo stato di benessere o malessere percepito a livello organizzativo. Ciò che contraddistingue SQ è il fatto di poter mettere a confronto le dimensioni aggregate dei collaboratori con quelle del o dei leader per cogliere eventuali gap su cui focalizzare eventuali proposte di intervento.
Le affermazioni contenute nello SQ - Stress Questionnaire convergono principalmente nella definizione di 5 macro fattori (articolati in 69 item per ciascuno dei due questionari; quello per i leader e quello per i collaboratori) che vengono valutati sia dai leader che dagli impiegati: Individuo, Compito, Contesto fisico, Contesto psicologico, Contesto socio-economico.
Individuo
Va inteso lo stress che ricade sulla persona al lavoro. Avere carichi di lavoro difficili da poter gestire, non riuscire a poter vivere rapporti positivi con i colleghi o con i propri superiori o ancora sentirsi poco autonomi e incapaci di far fronte alle pressioni provenienti dall’ambiente lavorativo. Infine anche sentire il proprio ruolo come ambiguo e/o conflittuale rischia di portare l’individuo a vissuti di stress. Su queste basi sarà difficile svolgere la propria mansione con eccellenza.
Compito
Consiste nella percezione di stress relativo ai compiti da svolgere. Quando il compito è percepito come negativo, sia dal punto di vista fisico che psicologico, l’individuo non riesce ad influenzare la qualità delle prestazioni; ed inoltre diminuisce la capacità di dominare il nervosismo e mantenere la calma, contribuendo allo sviluppo di pensieri negativi. Percepire il compito come negativo può anche essere associato al vivere rapporti di lavoro più strumentali.
Contesto fisico
È la percezione delle condizioni di lavoro, che se poco confortevoli, inadeguate o addirittura pericolose possono rappresentare un fattore di disturbo e di stress elevato.
Contesto psicologico
Implica la percezione di un ambiente di lavoro negativo dove si possa difficilmente interagire fluidamente con gli altri, come pure cooperare e lavorare in team senza essere soggetti a discriminazioni. I lavoratori si sentono poco formati e l’organizzazione è percepita come troppo autocentrata e con poco welfare nei confronti dei propri dipendenti.
Contesto socio-economico
Implica la percezione di un ambiente socio-economico instabile e in difficoltà a causa di un crisi, reale o potenziale, che spaventa i lavoratori fino a farli sentire anche a rischio di perdere il proprio posto di lavoro. Parallelamente i lavoratori non si sentono sufficientemente competenti per ricollocarsi o cercare un lavoro di pari qualifica e pertanto sviluppano emozioni ansiogene e negative.
Le affermazioni che costituiscono ogni macrofattore si raggruppano a loro volta in diversi sub-fattori: Carico di lavoro, Supporto dei superiori, Supporto dei colleghi, Ruolo e Controllo sul lavoro per l’area Individuo. Sforzo fisico ed Elaborazioni delle informazioni per il Compito; Ergonomia e Condizioni di lavoro pericolose per l’area Contesto fisico; Welfare, Training e Condizioni di rischio per la diversità per il Contesto psicologico, Crisi ed Employability per il Contesto socio-economico.
È presente infine una scala di Impressione Positiva (la Positive Impression Scale) tesa ad identificare risposte tendenziose dei soggetti che vogliono dare un’impressione eccessivamente positiva di se stessi o della loro organizzazione, che è apparsa particolarmente efficace in alcune realtà e gruppi di lavoratori.
L’analisi integrata e multilivello di queste dimensioni di stress ha permesso ad oggi la valutazione dello stress lavoro correlato utile per il DVR e la successiva programmazione di attività di intervento su numerose organizzazioni italiane. I risultati dell’SQ appaiono estremamente interessanti sia per finalità di ricerca che di intervento, le verifiche psicometriche supportano le numerose innovazioni teoriche ed invitano a proseguire nella sfida di applicare un strumento sullo stress che non “cloni” modelli esistenti e al contempo si ponga sia come strumento leader per valutare lo stress Italia che come esempio di innovazione per altri paesi Sud-Europei. Come ormai ha evidenziato anche dalla Fondazione Europea per il miglioramento delle Condizioni del Lavoro, una conseguenza marcata della crisi è l’accentuarsi delle differenze, non solo tra ricchi e poveri o tra persone di diverse etnie, ma anche, a livello più globale, tra Sud e Nord Europa. Una ricerca italiana troppo europeizzata o americanizzata, che non sappia riconoscere nel “globale” anche l’importanza del “locale” rischia di non saper rispondere alle esigenze che ci pone il mercato e la società.
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