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numero 22 - novembre 2014

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La formazione e i suoi limiti. Cause e rimedi per una formazione utile e sostenibile

La formazione e i suoi limiti. Cause e rimedi per una formazione utile e sostenibile

La formazione è un mestiere ampiamente inflazionato, eppure di formazione vi è un gran bisogno, a tutti i livelli, e in ogni settore del mondo produttivo.
È inusuale parlare dei limiti della formazione: le pubblicazioni in tema di formazione delle risorse umane ci hanno abituati che, quando si scorre un articolo o un volume sulla formazione, immancabilmente si leggono solo e soltanto mirabilie. Metodi innovativi, teorie mai sentite prima, tecniche di gestione dell’aula per mezzo delle quali anche il più demotivato dei dipendenti passivi, nascosto tra i meandri della peggiore pubblica amministrazione può, miracolosamente, rinascere!
Mai che si senta dire, o che si legga, di qualche difficoltà nella gestione dell’aula, di un programma formativo interrotto a causa dell’incompetenza dei formatori, di “proposte indecenti” fatte dai committenti ai consulenti-formatori… Tutto appare bello: come si usava dire un tempo, la formazione si fa perché è bella!
Oggi, slogan di questo genere non attecchirebbero più nemmeno se, insieme a questi, si offrisse nel deserto una borraccia d’acqua ad un assetato in fin di vita. Oggi di formazione, di buona formazione, se ne fa “q.b.”: quanto basta a tenere sveglio il paziente (che in questo caso è il dipendente dell’organizzazione), non molto di più.
Credo che vi sia una grande necessità di ripensare autocriticamente la formazione e di vederla nei suoi molteplici aspetti chiedendosi, ad esempio, come mai taluni programmi di formazione non abbiano dato risultati, cosa significa entrare in aula senza un progetto e senza una meta, perché sono ancora oggi organizzati gruppi di formazione di svariate decine di partecipanti in corsi di un paio di giornate tenuti da un singolo docente, e così via...
Formazione a pioggia, formazione apparente, formazione tanto-per-fare. In sostanza: formazione inutile. Ma anche: formazione dannosa.
In questo scritto vorrei sottoporre all’attenzione del lettore alcuni spunti (tra i tanti, tantissimi) che mi hanno indotto a pubblicare un libro centrato proprio su questi aspetti e intitolato – per non dare adito a dubbi – Come, quando e perché la formazione non funziona (Castiello d’Antonio, 2014). Un libro che potrà risultare scomodo per alcuni, soprattutto per i “venditori di formazione”: coloro che – proprio al fine di “vendere” un prodotto – non possono fare altro se non elencarne i pregi e i vantaggi. Ma l’impressione di molti è che nel corso dei decenni siano stati spesi molti denari, privati e pubblici, in formazione inutile, gettando ulteriore discredito su un’attività che, già di per sé, non è particolarmente valorizzata nel nostro Paese. E, in effetti, un fattore generale che spesso inficia le attività di formazione, è proprio questo della diffidenza, dello scetticismo verso tutto ciò che non sia legato strettamente al lavoro operativo, al “fare”, alla prestazione professionale.
Paradossalmente, si tratta di un pregiudizio negativo condiviso un po’ da parecchie persone, almeno potenzialmente: troppo spesso è capitato, e capita, di parlare di formazione con responsabili organizzativi il cui unico scopo èfare il corso”: perché così è stato deciso da altri, perché questa attività compare nel loro piano-obiettivi, perché la formazione è stata negoziata con i sindacati, e così via.
Se il committente può avere davvero una scarsa sensibilità in merito alla formazione e allo sviluppo delle persone che lavorano, non maggiore sensibilità (talvolta) la manifestano proprio i “formandi”, coloro che dovrebbero trarre il beneficio diretto dall’esperienza. Nelle situazioni più difficili si salda il preconcetto negativo su tutto ciò che può essere percepito riduttivamente come insegnamento, indottrinamento e addestramento, con esperienze pregresse non felici. E sicuramente, ogni pseudo-corso di formazione lascia dietro di sé una lunga scia distruttiva che sarà poi difficile ribaltare nel momento di aprire l’iniziativa formativa successiva.
In ogni caso, questi sono fattori ad ampio spettro, mentre ve ne sono molti altri assai più specifici.
Il primo fattore specifico fondamentale è la competenza di coloro che esercitano il ruolo di formatore (riferendosi in questo scritto soprattutto a coloro che entrano in aula per “fare formazione”). Tale competenza, così come la figura stessa del formatore, è assai variabile, direi ondivaga, spesso imperscrutabile a meno che l’interlocutore non sia egli stesso, veramente, un esperto di formazione degli adulti (Knowles, 1984).
Se ci si soffermasse sul fatto sconcertante che oggi chiunque può definirsi “formatore” – così come “coach”, o “consulente di risorse umane” – si aprirebbe una vera e propria voragine: infatti, è difficile immaginare un campo professionale – per meglio dire: scientifico-professionale – che non delimiti i propri confini e non riesca a fare chiarezza e fare pulizia al proprio interno. Così, oggi, la presenza di un formatore, di un formatore-consulente, di un “addetto alla formazione” interno all’impresa, o di un responsabile della formazione, nulla dice circa la reale competenza professionale e conoscenza del campo specifico possedute dalla persona in questione.
Se questo è il problema della identità professionale – ma anche della identità personale! – in parallelo scorre la questione dei servizi-prodotti che sono offerti come veicoli di formazione. Da un lato le attività formative davvero utili e importanti da svolgere nel mondo del lavoro non sono cambiate di molto nel corso del tempo e, di conseguenza, le attività che si dovrebbero svolgere permangono assestate su filoni omogenei (che, peraltro, sono basati su conoscenze consolidate in teorie e modelli). Ciò offre l’errata impressione al committente che tutti sanno fare tutto, e che scegliere il classico (ma spesso inutile…) corso sulla comunicazione, tutto sommato, sia possibile sulla sola base di un unico parametro: il costo.
Proprio per emergere dal marasma in cui tutto sembra confondersi, ecco nascere le nuove proposte, i nuovi metodi, i nuovi approcci. In tal caso ci si trova di fronte al mare magnum del possibile: è possibile formare alla leadership con un corso di due giornate in azienda, ma anche con un seminario residenziale di quindici giorni suddiviso in tre tranche, impiegando le fantastiche tecniche attive (come oramai è scritto in ogni dépliant di offerta formativa) o con un’immersione in se stessi basata sulla mindfulness, lanciando un outdoor (in barca, in montagna, in cucina? Dipende dai gusti) o attraverso una metodologia blended
Insomma, la gamma delle possibilità e delle opzioni appare infinita. Seguendo l’esempio del corso sulla leadership, emergono pure come infinite le declinazioni del concetto di leadership: non è una questione semplice. Ma sarebbe il caso, almeno, di non confondere le metodologie (cfr. Quaglino, 2014) con i prodotti-da-vendere…
Tra il formatore e i suoi metodi stanno i partecipanti.
Qualche volta motivati – come si dice: presentano una motivazione intrinseca – qualche volta  inerti, altre volte annoiati e scettici, raramente apertamente ostili, ma potenzialmente polemici e distruttivamente critici.
Una delle tante variabili che incidono su come i partecipanti si presenteranno alla sessione formativa sta nelle modalità con cui sono stati convocati, o sollecitati (o obbligati) a parteciparvi. Un buon corso di formazione può essere azzoppato fin dai primi minuti a causa della pessima comunicazione interna che ha veicolato i partecipanti in aula.
Nonostante i possibili difficili inizi delle sessioni di formazione, gran parte della responsabilità del buon esito dell’iniziativa sono racchiuse nelle mani di chi conduce in aula i lavori: come ho specificato nel mio ultimo libro, soprattutto nel capitolo intitolato Cinquanta modi per de-formare le persone in training, è assolutamente facile distruggere un ottimo programma d’aula posto nelle mani di un docente incompetente oppure semplicemente non motivato a svolgere il ruolo di formatore.
Si torna, dunque, al tema delle competenze professionali del formatore e una delle tante domande che ci si potrebbe fare intorno a questo argomento è quale dovrebbe essere la preparazione di base, accademica, necessaria per svolgere la funzione di formatore. Le opinioni, naturalmente, divergono all’interno della stessa comunità dei formatori.
Anche se è vero che la formazione non è una disciplina (lasciamo perdere la qualifica di scienza…) esattamente definibile come può essere la medicina – in merito alla quale nessuno si sogna di chiedersi se sia necessario un laureato in medicina per fare il medico, o possa andar bene anche un laureato in informatica – appare davvero strano che non si colga nella sua pienezza il legame tra formazione e dimensione umana. Se tale legame fosse colto non vi sarebbero dubbi nell’affidare la formazione (almeno) a coloro che si sono evoluti e strutturati nel grande campo delle discipline umanistiche (universitarie e post-universitarie).
Ma compiendo un piccolo passo avanti, ed andando a guardare di cosa si occupa realmente chi fa professionalmente formazione, non dovrebbe meravigliare che l’oggetto della materia è di genere psicologico o, almeno, psicosociologico, e che pertanto dovrebbe essere obbligatoria una preparazione di base in tal senso.
Eppure tutto ciò nel nostro Paese non emerge, non si nota il legame tra la formazione e i processi di apprendimento e cambiamento, né tra questi due complessi processi esistenziali e l’area delle conoscenze psicologiche. Così, in aula può entrare qualcuno che “lancia un’esercitazione” e poi sta a vedere cosa succede non sapendo fare altro che cavalcare l’onda, colludendo con i partecipanti, buttandola sul divertimento, o lasciando fare e lasciando andare il gruppo dove vuole, con buona pace della consapevolezza delle dimensioni della gruppalità (cfr. Kaneklin, 2010).
Da parte della committenza c’è troppo spesso la richiesta e l’ammirazione per l’azzeccagarbugli che in aula “se la cava sempre”, e che “comunque vada, è stato un successo!”. E cercare di capire come è davvero andato un corso di formazione facendo compilare il classico questionario di fine-corso può solo far sorridere.
Sicuramente, alla formazione non può essere chiesto di tutto, né essa può prendere in carico tutto ciò che l’organizzazione non risolve – che non sa, o che non vuole risolvere – venendo manipolata e distrutta in applicazioni fuorvianti.
Troppo spesso alla formazione si chiede l’impossibile, ad esempio di rimotivare personale ampiamente annientato dagli stessi meccanismi che sono in gioco nell’organizzazione: organizzazione che, per l’appunto, non ha il benché minimo interesse a cambiare se stessa, ma vuole soltanto usare la leva della formazione come copertura per procedere come sempre si è fatto. A fronte di richieste di tale genere, ci si dovrebbe chiedere se si ha il coraggio di ingaggiare con il potenziale committente un dialogo critico e serio, o se si ha il coraggio di rinunciare, infine, all’impegno prospettato. Direi, a occhio, che tali eventi siano molto rari…
Se non fosse un tema detto e ripetuto mille volte sarebbe questo il momento di enunciare l’argomento dell’etica della formazione. Al di là di ogni situazione o evento che possa far legittimamente dubitare che esista qualcosa di lontanamente avvicinabile all’etica professionale, e quindi molto prima di “agire” l’etica nell’esecuzione del mestiere, sarebbe necessario che ognuno riflettesse sulla propria dimensione interiore dell’etica e sull’orizzonte dei propri valori personali prima ancora che professionali. Certamente, se si pensa che Enron possedeva un codice etico perfetto, si può formulare qualche dubbio circa la coincidenza del dichiarato con il vissuto.
In prospettiva psicodinamica, la formazione è un processo di costruzione e di autorealizzazione dell’identità che si sviluppa interagendo con il contesto socioculturale” (Pinkus, 2006, p. 37). Se questa definizione si rivolge al classico setting formativo, qualcosa di diverso e forse di ancor più delicato lo si trova in quella speciale attività, che non è solo di formazione, che oggi va sotto il nome di coaching. Ho esposto in diversi interventi le mie attuali opinioni sul coaching (v., ad esempio, Castiello d’Antonio 2013a, 2013b) e qui vorrei limitarmi a segnalare la pericolosa deriva ormai imboccata senza che alcun soggetto istituzionale prendesse tempestivamente posizione. Ricordo di aver inviato una email a diversi ordini regionali degli psicologi molti anni fa in merito all’arrembaggio che si stava verificando su una attività così, delicata e specialistica qual è quella del coaching psicologico-organizzativo, dell’executive coaching, e del counseling organizzativo psicosociale, senza ottenere alcuna risposta. Cito il coaching perché ciò che è accaduto è paradigmatico dei processi selvaggi in cui sono impigliate le attività di sviluppo e formazione delle risorse umane. In sintesi, con l’avvento del coaching è emersa un’attività di interesse scientifico-professionale, utile alle persone e alle organizzazioni: dapprima sostanzialmente ignorata, tale attività è poi esplosa, e tutti si sono autodefiniti coach. In parallelo sono sorte le “scuole di coaching” con i loro corsi, esami e attestati, mentre la richiesta organizzativa di coaching – che pure è stata evidente e, moderatamente, è ancora presente – è stata immediatamente travolta da una offerta selvaggia portata avanti dagli immancabili “tuttologi”, e dalle agenzie di consulenza. Oggi il coaching sembra diventato uno dei tanti prodotti-da-vendere, inserito nel portafoglio dei commerciali della consulenza di risorse umane, collocato nei siti web e nelle brochure di presentazione delle agenzia di (cosiddetta) consulenza. Mi chiedo da tempo se esista un altro campo applicativo, oltre quello della consulenza in area risorse umane, in cui la vendita-di-prodotti abbia preso il sopravvento sulla dimensione professionale, scientifica e etica con un peso così evidente da sconvolgere del tutto ogni parametro di valutazione!
Se si è diffusa una formazione spesso de-formante, è anche vero che solo la consapevolezza di ciò che non funziona concretamente, e del perché ciò accade, può portare a sviluppare e adottare dei “rimedi” affinché la formazione diventi non solo efficace, ma utile e sostenibile, a dimensione umana, per il benessere delle persone e delle organizzazioni.
Dunque la formazione ha necessità di essere risanata e “bonificata”, come suggerisco nel mio libro: si tratta di un’attività troppo importante per essere lasciata alla deriva, e possediamo tutte le conoscenze e le esperienze per fare sia un’opera di risanamento, sia per riparare gli errori del passato e del presente. 

Bibliografia

  • Castiello d’Antonio A. (2014). Come, quando e perché la formazione non funziona. Cause e rimedi per una formazione utile e applicabile. FrancoAngeli, Milano.
  • Castiello d’Antonio A. (2013a). Il Coaching. Risorse Umane nella Pubblica Amministrazione, XXVII, 6, 55-70.
  • Castiello d’Antonio A. (2013b). Coaching e Coaching psicologico. Qi. Questioni e Idee in Psicologia, 7.
  • Kaneklin C. (a cura di).(2010). Il gruppo in teoria e in pratica. L’intersoggettività come forza produttiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Knowles M. S. (1984). Quando l'adulto impara. Pedagogia e Andragogia. Franco Angeli, Milano, 1993.
  • Pinkus L. (2006). Pensare la formazione: il contributo psicodinamico. In: U. Margiotta (a cura), Pensare la formazione. Strutture esplicative, trame concettuali, modelli di organizzazione. Mondadori, Milano.
  • Quaglino G. P. (a cura di).(2014). Formazione. I metodi. Raffaello Cortina, Milano.