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numero 73 - dicembre 2019

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Istruzioni per rendersi felici

Istruzioni per rendersi felici

Si sente sempre più spesso parlare di felicità e di cosa fare per ottenerla o mantenerla. A lungo esplorata da filosofi e pensatori, la felicità solo di recente è diventata oggetto di studio per la psicologia, che tradizionalmente si è occupata di stati d’animo più adiacenti all’infelicità. 
Definire la felicità in termini psicologici e comprendere come si realizzi, ha richiesto studi specifici, dato che la felicità non è esattamente l’opposto dell’infelicità.Possiamo non essere infelici, ma non per questo dirci felici. E viceversa, possiamo non essere felici ma non per questo sentirci infelici.
Ma allora cos’è la felicità? E come la si ottiene?

Felicità e piacere

Nella nostra cultura, il senso comune associa la felicità al piacere. Basti pensare alle pubblicità che vogliono far credere che il sapore di un cioccolatino o la fragranza di un profumo possano renderci felici! È riduttivo, certo, ma qualcosa di vero c’è, in quanto le sensazioni piacevoli sono accompagnate da componenti emotive, che possono regalare briciole di felicità.
La chimica del piacere si può attivare anche in maniera endogena e senza controindicazioni. La musica, lo sport, la natura possono dare piacere.  L'attività fisica ad esempio fa secernere serotonina e dopamina, le sostanze del benessere.
Tuttavia cercare la felicità nell’accumulo di piaceri non è una buona idea. I piaceri sensoriali, per loro natura, sono effimeri, fugaci. In più, a causa di un meccanismo di assuefazione, il loro potenziale di felicità tende a diminuire nel tempo. Quel sapore che la prima volta ci ha mandato in estasi, alla centesima non ha più lo stesso effetto.
Lo stesso meccanismo vale anche per il piacere che deriva dal possesso di beni materiali o di danaro, oppure per quello dovuto alla considerazione di sé, come un successo professionale. Anche in questi casi vale il meccanismo della macina edonistica, verificato da molte ricerche, per il quale l’acquisizione di beni materiali o di successi, aumenta sì il livello di felicità, ma solo temporaneamente. Presto si tornerà al livello precedente, cioè al proprio livello di felicità costituzionale.
Può essere sorprendente, ma alcuni studi (Okbay et al., 2016) dimostrano che ognuno di noi ha un livello standard di felicità, ereditato geneticamente. I geni individuati sarebbero collegati al modo in cui si affrontano le difficoltà e gli eventi della vita.
Ciò non significa che se si è geneticamente poco felici, non si possa accrescere il proprio livello standard dato che, il fattore ereditario, sempre in base a queste ricerche, incide sulla capacità di essere felici per circa il 50%. Per attenuare i vincoli ereditari, si ha quindi la possibilità di intervenire sull’altro 50%.  
Pur se in parte ereditaria, la felicità non è un dono piovuto dal cielo, ma uno stato d’animo che è possibile auto-produrre, a patto di saperne creare le condizioni. Essere felici può essere considerata una sorta di competenza che può sempre essere sviluppata, a condizione di sapersi separare da abitudini mentali che generano infelicità.
Per diventare felici dobbiamo saper rinunciare alla dose di infelicità che ci auto-causiamo.
Paul Watzlawick nel suo bestseller del 1984 “Istruzioni per rendersi infelici” scriveva:
È giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita… Parliamoci chiaro: cosa e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria.
Per quanto ironica e paradossale, questa tesi, contiene una verità profonda. Quante persone conosciamo affezionate alla loro infelicità più che al loro gatto?
E noi? Siamo proprio sicuri di non avere l’insana abitudine di crearci, da soli, una certa dose di infelicità?

I meccanismi dell’infelicità

L’infelicità si genera e si alimenta grazie a meccanismi e abitudini mentali, piuttosto diffusi nella nostra cultura. Tutti i grandi e persistenti generatori di infelicità come sensi di colpa o inadeguatezza, rimorsi, rimpianti, assilli, vengono concepiti e tenuti in vita nel mondo virtuale della nostra mente, anche se poi producono effetti disastrosi nel mondo reale. La maggior parte delle fonti di malessere non riguarda tanto gli avvenimenti della vita, quanto il nostro modo di reagire ad essi.  
Più di quanto si pensi, ciò che si frappone fra noi e la felicità siamo proprio noi stessi e il nostro modo di vedere le cose.
Conoscere i meccanismi mentali che generano sofferenza non garantisce di per sé la felicità ma è una pre-condizione necessaria. Ecco perché ho pensato di elencarne alcuni.
Uno dei meccanismi principali riguarda il nostro rapporto con il tempo.
I nostri pensieri sono sempre rivolti al passato o al futuro. Salvo eccezioni, i pensieri sul futuro sono accompagnati da ansia, preoccupazione, inquietudine, mentre quelli sul passato causano stati d’animo che vanno dal rimpianto alla nostalgia, dalla tristezza al risentimento.
Possiamo fare del passatouna fonte inesauribile di sofferenza pensando, continuamente, a una particolare stagione della vita o storia d’amore, come all’età dell’oro, irrimediabilmente perduta. Un pensiero reso possibile grazie al meccanismo di distorsione della realtà, che lascia filtrare nel ricordo solo il buono e il bello di quel periodo o di quell’amore, cancellando tutto il resto.
Oppure possiamo tornare ripetutamente ad episodi dolorosi del passato, ri-attualizzando continuamente la sofferenza. In tutti e due i casi ci stiamo procurando, nel presente, una dose di infelicità non giustificata da una causa reale attuale. Si tratta proprio di infelicità auto-prodotta.
Di fronte ad eventi dolorosi è normale che si verifichi un abbassamento temporaneo dell’umore. Ma dopo un certo tempo, che ovviamente dipende dalla gravità dell’evento, l’umore toma a quel livello di felicità costituzionale di cui ho parlato prima. Il dolore, la tristezza, l’amarezza, la rabbia, come tutte le emozioni, non persistono immutate nel tempo ma evolvono, si trasformano. È la nostra mente, che le trattiene e le cronicizza.
Per loro natura le emozioni tendono nel tempo a stemperarsi, a dissolversi, a meno che noi non le ri-attualizziamo, rievocando ciò che le ha provocate o anticipando ciò che potrebbe provocarle.
Un altro modo in cui auto-causiamo infelicità è proprio l’anticipazione del futuro, come nutrire paure di pericoli immaginari.  
La mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali non si è mai verificata”.
Dobbiamo a Michel de Montaigne questo modo folgorante di descrivere quel deleterio processo mentale che consiste nell’indugiare nelle proprie paure, fino a costruire scenari virtuali drammatici, ai quali finiamo poi per credere.
Per arginare questi meccanismi perversi possiamo imparare ad abitare il più possibile il presente. Se impariamo a so-stare nel presente, eviteremo che la nostra mente lavori in modo pernicioso sul passato e sul futuro.
Quando abitiamo il presente, come dimostrano gli studi sulla mindfulness, mettiamo il cervello nella condizione ideale per secernere endorfine, le sostanze del benessere e dell’autoguarigione.
Essere presenti, e connessi con sé stessi, è il più potente principio attivo terapeutico e promotore di felicità che possiamo produrre autonomamente. Più economico ed ecologico del ricorso ad ansiolitici o antidepressivi.
Non vi sembra una buona ragione per imparare a sostare nel presente?
Ma vediamo quali altri meccanismi mentali creano infelicità.
Uno tra i più perniciosi è quello di porsi obiettivi eccessivamente elevati, piuttosto che impegnarsi nella politica dei piccoli passi e perseguire scopi ragionevoli e raggiungibili. Non voglio sostenere che non ci si debba porre obiettivi sfidanti ma che, per non andare incontro ad inutili sofferenze, occorre che questi siano sfidanti sì ma commisurati alle proprie capacità e fondati su un sano contatto con la realtà.
Spesso invece nutriamo aspettativesu di noi, sul nostro lavoro, sul ruolo di genitori o di figli che rasentano l’illusione e portano inevitabilmente ad avere uno sguardo severo verso noi stessi. Quel continuo condannarsi, e poi assolversi, porterà, fatalmente, a nutrire sentimenti di inadeguatezza o impotenza
Se c’è una cosa che rende infelici questa è proprio la valutazione negativa di se stessi. Non posso farcela, Non sono in grado di… sono voci interiori attivate da aspettative irrealistiche che è inevitabile provochino una certa dose di infelicità. Ancora una volta infelicità auto-prodotta.
Anche su questo meccanismo generatore di infelicità possiamo intervenire, auto-educandoci a non nutrire aspettative di performance più elevate di quelle che siamo realisticamente in grado di avere. Se le nostre performance supereranno le aspettative, non potremo che sentirci orgogliosi e contenti di noi. Così ci saremo guadagnati un pezzetto di felicità.
In ogni caso tenere a bada l’abitudine al giudizio severo verso sé e verso gli altri è un ottimo modo per arrestare la fabbrica di sofferenza auto-prodotta.
Anche gli altri possono essere un’inesauribile fonte di infelicità, a causa di meccanismi mentali relativi ai rapporti umani o di specifici atteggiamenti relazionali.
Vediamone alcuni.

  • Sentirsi vittime di genitori, figli, insegnanti, capi o amici. O al contrario, coltivare la fatale tendenza, frequente nelle donne, a voler salvare a tutti i costi gli altri, meglio se giocatori, alcolisti, inconcludenti, depressi. Questo modo di vivere le relazioni è perfetto riguardo al suo potenziale di infelicità.
  • Confrontarsi con gli altri, spesso in modo del tutto infondato, riuscendo a demolire ai propri occhi, le qualità possedute o i successi conseguiti.
  • Non nutrire alcuna fiducia nel prossimo, anzi sentirsene continuamente minacciati, costringendosi a vivere in un costante stato di allerta.
  • Percepire le differenze di opinioni come un attacco rivolto a se stessi, facendo di qualunque conversazione un’occasione di scontro e di conseguente sofferenza.
  • Delegare la propria felicità. Pensare che si potrà essere felici solo se il partner non ci tradirà, il figlio sarà promosso, il genitore non si ammalerà, il capo cambierà atteggiamento e così via.

La nostra felicità non si realizza mettendola nelle mani di qualcun altro, ma soltanto partendo dall’unica cosa sulla quale possiamo esercitare un vero controllo: il nostro mondo interiore.
Gli atteggiamenti relazionali che ho citato rendono difficile costruire rapporti in cui possa realizzarsi uno scambio davvero arricchente, che renda più felici. Ed è un peccato, perché le relazioni sono una delle maggiori fonti di benessere e felicità.
Per questo è una buona idea stare il più possibile in compagnia di persone felici. Come l’infelicità, la felicità è contagiosa!
Conoscere i meccanismi mentali che causano infelicità e rendersi conto che il nostro benessere non dipende tanto dai reali avvenimenti della vita, quanto dal modo in cui li interpretiamo non ci renderà automaticamente più felici, ma è un passo necessario da compiere se vogliamo imparare ad esercitare il diritto di essere felici.

Felicità temporanea e felicità durevole

È importante a questo proposito distinguere la felicità temporanea da uno stato più stabile. La felicità temporanea si può ottenere facilmente, come abbiamo visto, con esperienze che regalano piacere: un bel massaggio, un film divertente, un buon cioccolato, un abito nuovo.
Per Seligman (2010) la felicità durevole è frutto invece della gratificazione che deriva dell’impiegare le proprie potenzialità al servizio di qualcosa di più grande e ricco di significato. Questo tipo di gratificazione genera uno stato di felicità più durevole dei piaceri, perché non è soggetta ad assuefazione.
La gratificazione è diversa dal piacere se deriva da attività che ci impegnano a fondo, che ci coinvolgono totalmente, come quando conversiamo con qualcuno con cui siamo in sintonia, leggiamo un bel libro, pratichiamo lo sport preferito o balliamo. Sono quelle attività nelle quali il tempo si ferma, in cui si entra in contatto con le proprie potenzialità e le si esprime, costruendo un capitale psicologico di benessere.
Questo procura quel senso di appagamento inteso come star bene nel mondo, con se stessi e con gli altri. Lo stesso appagamento che sperimenta chi dedica il proprio tempo o mette a disposizione le proprie capacità per una causa elevata e ricca di valore sociale ed etico, come ad esempio nel volontariato.

Investire sulla propria felicità

Investire sulla propria felicità è uno dei migliori investimenti che possiamo fare. E non solo perché provare emozioni positive è appagante di per sé, ma perché attiva una disposizione mentale espansiva, tollerante, creativa che dà origine ad un rapporto migliore con il mondo e con la vita.
Essere felici arricchisce anche la vita di relazione perché quando si è felici si è meno focalizzati su se stessi, si apprezzano di più gli altri e si è più disposti a condividere la vita con loro. E poi, diciamolo, si è più attraenti.
Avere una vita di relazione soddisfacente equivale a mantenersi in buona salute. Anche questo è ormai dimostrato: le persone con una vita relazionale ricca ed appagante, oltre ad essere più soddisfatte della propria esistenza, si ammalano di meno o si riprendono più velocemente dalle malattie.
Insomma, impegnarsi ad essere felici è la strada maestra per vivere a lungo e in buona salute. 

Bibliografia

  • Okbay, A., Baselmans, B.M.L., [...], & David Cesarini (2016). Genetic variants associated with subjective well-being, depressive symptoms and neuroticism identified through genome-wide analyses. Nature Genetics, 48(8): 970.
  • Seligman, M.P. (2010). La costruzione della felicità. Milano: Sperling e Kupfer.
  • Watzlawick, P. (1984). Istruzioni per rendersi infelici. Milano: Feltrinelli.