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numero 83 - dicembre 2020

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L'intervista

Intervista a Sara Pezzuolo

Intervista a Sara Pezzuolo

In occasione dell’uscita, presso Hogrefe Editore, del manuale Psicologia giuridica. La teoria, le tecniche, la valutazione. 2a edizione, intervistiamo Sara Pezzuolo, curatrice del libro, assieme a Silvio Ciappi.

D. È appena uscita la seconda edizione del volume Psicologia giuridica, che lei e Silvio Ciappi già curaste nel 2014. Che cosa ha motivato una seconda edizione? Quali sono le novità e le differenze rispetto all’edizione precedente?

R. La scelta di una seconda edizione è stata determinata dal fatto che, l’ambito della psicologia giuridica, e quindi degli ambiti di cui essa si occupa, prevedono evoluzioni nel tempo.
Si pensi alle ricerche relative alla memoria per lo studio della psicologia della testimonianza, orientamenti giurisprudenziali che modificano la ratio di un accertamento (si pensi alla numerosa giurisprudenza in materia di danno), l’adozione di nuovi test specifici per l’ambito forense e via di seguito. 
Facile a questo punto comprendere che la prima edizione del Manuale doveva considerarsi “vecchia” e, sicuramente, non esaustiva del tema tanto che, questa nuova versione, oltre ad aver visto la partecipazione di più Autori rispetto alla precedente è anche composta da 31 capitoli contro i 28 della precedente.  

D. Quali sono le caratteristiche distintive deI colloquio clinico in ambito forense? Come dovrebbe essere condotto e da chi?

R. Su tale argomento, di importanza per uno psicologo giuridico, è stato dedicato un lungo capitolo. Una delle prime considerazioni da fare sul colloquio forense è quello inerente l’importanza dell’ascolto: al colloquio ci si arriva spesso su indicazioni di terzi e il setting non sempre può essere quello confortevole di uno studio professionale (si pensi ad esempio al colloquio forense in carcere). Ancora, non è un colloquio con finalità terapeutiche ma è colloquio che va a determinare una valutazione (sia essa in sede civile che penale) che determinerà scelte terze e che, in funzione di eventuali vantaggi o svantaggi può essere anche strumentalizzato. Ecco allora che, allora, il colloquio clinico si deve basare su un ascolto-ascoltato che tiene in considerazione molteplici variabili: da quelle verbali a quelle non verbali, quali argomenti vengono proposti e perché, questioni che devono essere tutte inserite nella cornice del “Chi? Quale? Quando? Dove? Come? Perché? Cos’altro?”. Nel colloquio forense esistono i “momenti”. I momenti per fare domande aperte, i momenti per fare domande chiuse.
Ovviamente il colloquio forese deve essere condotto da professionisti che hanno specifiche competenze tecniche nell’ambito della psicologia e della psicologia della testimonianza e consapevolezza di quelli che sono le variabili che, in ogni situazione, possono inficiarlo o comprometterlo.    

D. Quali sono i principali strumenti di valutazione psicologica in ambito giuridico e il tipo di utilizzo che il contesto richiede?

R. La valutazione psicologica giuridica si avvale del colloquio, come detto sopra, di osservazioni e di una valutazione psicodiagnostica la quale, di volta in volta, viene decisa e stabilita in funzione del contesto in cui si è chiamati ad intervenire.
Ogni contesto (si pensi solo alle differenti regole del processo civile e quello penale) ha le sue proprie peculiarità. La valutazione di un anziano è diversa da quella di un soggetto adulto o di un minore e, una perizia sulla imputabilità è diversa ed ha caratteristiche diverse da quella in materia di danno o tutela dei soggetti fragili. 

D. Che differenze ci sono tra neuropsicologia clinica e forense?

R. La neuropsicologia forense è “figlia” della neuropsicologia e come tale hanno similitudini e differenze. Le differenze più importanti e significative sono il fatto che il neuropsicologo forense non si occupa del paziente ma del periziando, esaminando o cliente. Non è detto che il committente della valutazione sia il medesimo soggetto che si valuta (come accade in ogni ambito della psicologia forense). Maggiore attenzione deve essere posta dal neuropsicologo forense a processi di simulazione o dissimulazione determinando quindi se e come le eventuali alterazioni neuropsicologiche siano compatibili, ad esempio, con il trauma o con una imputabilità.
Detto in altri termini, la valutazione neuropsicologica forense non si limita a descrivere le disfunzioni cognitive ma deve indicare, se possibile, l’esistenza di un nesso di causalità tra la disfunzione cognitiva rilevata e l’evento giuridicamente rilevante.  

D. Che cosa sono l’autopsia neuropsicologica e quella psicologica e come vengono condotte?

R. L’autopsia neuropsicologica può essere richiesta per stabilire lo stato cognitivo di una persona che ha preso decisioni in epoca quando era in vita e, solitamente, concernono valutazioni inerente lasciti, testamenti etc. È quindi un’indagine post-mortem finalizzato ad accertare la c.d. capacità o incapacità di un soggetto in uno specifico momento a compiere atti giuridici. Secondo il modello di Greiffenstein, ad esempio per ciò che concerne la capacità di fare testamento, l’autopsia neuropsicologica consta di sei fasi: 1) concerne di aspetti di ordine generale e cioè se è possibile che il testatore sia stato influenzato 2) controllo se gli standard formali e legali del testamento sono stati rispettati 3) acquisizione di tutta la documentazione medica e non di periodi precedenti o poco successivi alla data di relazione del testamento nonché valutazione degli scritti e testimonianze 4) individuazione di possibili deficit neuropsicologici emersi dallo studio della documentazione 5) determina se le abilità cognitive valutate sulla base delle evidenze risultano indicative di una capacità o incapacità a testare 6) stesura della relazione in cui (date le risultanze delle precedenti fasi) il neuropsicologo identifica, argomentando, la presenza o meno di un’incapacità. L’autopsia psicologica è un profilo psicologico che ricostruisce a posteriori il modo di essere e di fare di un soggetto che non è più in grado di raccontarlo. Si applica sia in ambito civile, penale, investigativo anche se, più spessi, ce ne se avvale nei casi di morte sospetta (omicidio, suicidio, morti violente). Ad oggi non esiste un protocollo per l’autopsia psicologica unanime anche se il MAPI (Model de Autopsia Psicologica Integrado) è considerato un modello ben strutturato e sistematizzato.

D. Quali sono le principali aree da prendere in considerazione nella valutazione del minore autore di reato?

R. Per la valutazione di un minore autore di reato occorre usare un metro di valutazione diverso rispetto a quello dell’adulto. Occorre comprendere perché ha fatto quel gesto, il suo livello evolutivo, le condizioni in cui lo ha commesso, il tutto per procedere al suo recupero ed alla sua risocializzazione. È necessario procedere alla rilettura del gesto per comprendere la migliore strategia di intervento. Il momento dell’arresto è sicuramente il più traumatico per questo il passaggio al Centro di Prima Accoglienza (CPA) è un momento fondamentale perché rappresenta uno spazio protetto atto a limitare il trauma. 
Una parte poi preliminare dell’intervento è quella dell’osservazione e della valutazione dirette a comprendere il senso soggettivo del reato commesso in relazione alla personalità del minore autore di reato. In questo ambito, compito dello psicologo è quello di fornire una valutazione preliminare della personalità del reo (art. 9 d.P.R. n. 448/88) nonché la compatibilità del soggetto con il regime detentivo e la valutazione del rischio di agiti. 
Tutto il lavoro sul minore autore di reato, lo si ripete, è quello finalizzato ad una rilettura e ad una nuova ri-attribuzione di significato al gesto-reato.

D. Qual è il ruolo dello psicologo nelle istituzioni carcerarie? 

R. La figura dello psicologo in carcere è una figura professionale relativamente recente. Dalla nascita del Servizio di Osservazione e Trattamento, gli esperti di psicologia hanno il compito di prendere in carico ogni detenuto e costruire un progetto insieme volto a modificare gli atteggiamenti devianti e favorire il reinserimento nella società, scrivere relazione di aggiornamento al Tribunale di Sorveglianza per contribuire a concedere o negare misure alternative alla detenzione e prendere parte alla commissione disciplinare presieduta dalla direzione del carcere chiamata, in caso di trasgressione, a stabilire sanzioni. I compiti dello psicologo in carcere, pertanto, possono essere così sintetizzati: osservazione e trattamento, sostegno psicologico, servizio nuovi giunti, presidio tossico-dipendenti, consiglio disciplina integrato ex art. 14 bis c.p.

D. Il tema dell’alienazione genitoriale è emerso molto frequentemente nelle discussioni recenti condotte anche in contesti lontani da quelli strettamente legati alla psicologia. Come mai, secondo lei, questo tema coinvolge così tanto?

R. Il tema coinvolge molto perché è un tema molto attuale e molto presente. Che piaccia o meno, il fenomeno della c.d. alienazione genitoriale esiste e non di rado emerge nelle consulenze. Ovviamente il rifiuto di un genitore non sempre può essere ricondotto alla concretizzazione di un processo di condizionamento in quanto le cause possono essere molteplici ma, a volte, una di essa può essere proprio l’alienazione genitoriale. Occorre saperla riconoscere proprio perché, altrimenti, si possono commettere degli errori sulla “pelle dei bambini”. L’alienazione genitoriale laddove si verifichi è una forma di violenza psicologica, è una forma di maltrattamento riconosciuta come tale dalle società scientifiche e presente anche nei Manuali Diagnostici Statistici (DSM). Nel DSM 5, al pari del DSM- IV TR si evidenziano, tra le altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica, i problemi relazionali genitore-bambino in cui, a volte, la causa di questi problemi è proprio la alienazione genitoriale. 
Occorre sottolineare che, chi si limita a parlare di alienazione genitoriale come problema che concerne l’affidamento o il collocamento dei figli, non ha chiaro che, la alienazione genitoriale, è un problema che riguarda la protezione dell’infanzia essendo quest’ultima un maltrattamento psicologico, cioè, la forma più violenta di abuso che un minore possa subire. 

D. Quali sono le accortezze che ritiene opportuno suggerire ai colleghi psicologi che svolgono perizie?

R. In questo lavoro, ma in nessun lavoro, ci si può improvvisare. Occorre studiare, studiare e ancora studiare perché non si smette mai di imparare. Occorre sacrificio e passione. Occorre fare scelte. Non si può essere “tutttologi” ed invece molti colleghi pensano che essere psicologo vuole dire fare anche lo psicologo giuridico. Io dico, essere psicologo giuridico permette di fare lo psicologo giuridico. 
Con questa seconda edizione proprio questo abbiamo cercato di portare a conoscenza: la complessità di una disciplina immensa ed affascinante ma molto complessa nel suo intrinseco significato in cui, in ogni caso, si entra in punta di piedi.