L'intervista
Intervista a Sandra Vannoni
Intervista a Sandra Vannoni
Sandra Vannoni, psicologa e psicoterapeuta, dal 2006 è Presidente dell'Ordine degli Psicologi della Toscana e Membro del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi (CNOP). Si occupa di diagnosi psicologia, promozione del benessere e politica professionale. Grazie al suo ruolo istituzionale di presidente di categoria è da anni a stretto contatto con gli psicologi ed è proprio per questo che la intervistiamo chiedendole una sua personale opinione sul ruolo odierno dello psicologo e sui temi caldi della professione. A partire da una discussione sul ruolo e sulla percezione dello psicologo nell’immaginario collettivo, Sandra Vannoni ci offre l’occasione di riflettere sulla professione e la professionalità dello psicologo e sui legami con gli aspetti dell’etica e della deontologia professionale.
D. Sembra che la professione di psicologo si sia scontrata spesso con stereotipi e credenze; secondo lei è ancora così? Se sì, quali sono gli stereotipi più diffusi?
R. Ci sono stereotipi molto radicati che si pongono ad un livello superiore, generativi di altri stereotipi più specifici. Mi riferisco al considerare la psicologia e l’intervento psicologico come “ovvio”, “banale”, legato alla “sensibilità del professionista” ed il cui successo è basato solo sulle “caratteristiche personali”. Queste credenze portano molte persone a pronunciare la fatidica frase “siamo tutti un po’ psicologi”.
Nel corso del 2012 abbiamo partecipato al Festival della Salute ed in quella occasione abbiano sondato alcuni stereotipi, utilizzando un semplice questionario costruito ad hoc. Alcuni risultati preliminari sono stati pubblicati in un articolo sula rivista Psicologia Toscana nel dicembre 2012. Guardando con occhio critico i primi risultati, emerge una certa sopravvivenza delle credenze che citavo prima, anche se forse in calo rispetto al passato.
D. Nonostante l’informazione e la presenza sempre più diffusa degli psicologi in diverse aree di intervento (salute e prevenzione, scuola, contesti aziendali, psicologia dello sport ecc…) la professione di psicologo nell’immaginario collettivo viene ancora sovrapposta a quella di psicoterapeuta. Come mai secondo lei?
R. Innanzitutto un dato oggettivo rilevabile da una recente indagine svolta dal prof. Bosio per il Consiglio Nazionale: il 45% degli psicologi italiani è abilitato all’esercizio della psicoterapia. Quindi per quasi la metà degli psicologi non si può parlare di una distorsione cognitiva dell’immaginario collettivo. Ma anche per una fetta di psicologi appartenenti all’altra metà non si è lontani dalla verità se li si considera psicoterapeuti. Infatti, considerando che in Italia ci sono circa 300 scuole di specializzazione in psicoterapia, che possono accogliere ogni anno una media di 10-20 allievi, per un totale di 40-80 unità per l’intero corso, si può giungere ad avere tra i 12.000 ed i 24.000 psicologi che si stanno formando in psicoterapia.
D. L’EFPA spinge molto nella direzione della certificazione di competenze per lo psicologo. Quanto questa linea di pensiero e di azione può proteggere e tutelare l’identità dello psicologo?
R. Molto sinceramente devo dire che ancora non sono riuscita a costruirmi un'idea compiuta sull'utilità della certificazione europea. Non credo che un mero certificato possa agire a tutela di un'identità professionale che risulta ancora molto variegata, e spesso confusa, nei suoi assi portanti. C'è chi continua a parlare di “psicologie” anziché di “ psicologia” e questo la dice lunga. Ritengo, comunque, che la certificazione europea abbia certamente un valore importante come strumento di circolazione e di accreditamento, per chi vuole lavorare fuori dall'Italia.
D. La modernità liquida continua a generare sempre nuove professioni che vanno a sovrapporre la propria attività a quella dello psicologo (si pensi, ad esempio, al D.Lgs. 81/2008 e a quanto la componente soggettiva dello stress lavoro-correlato sia stata presa in carico da professionisti non psicologi). Oltre a ciò, le riforme del sistema scolastico e l’organizzazione didattica di alcuni atenei hanno reso la formazione in psicologia talvolta troppo frammentata. Quanto tutto questo ostacola lo sviluppo di un’identità professionale forte negli psicologi?
R. Nell'interfaccia con l'Università abbiamo chiesto ripetutamente di progettare corsi di laurea maggiormente professionalizzanti e agganciati alla domanda del mercato/della società, fornendo quelle competenze, ad oggi assenti, atte ad intercettarla e rispondervi.
L’identità professionale degli psicologi è oggi assai debole; escono dall’università con molte teorie ma con le idee confuse su come applicarle nella realtà. Si approcciano al tirocinio con la speranza di cogliere il saper fare che toglierà quella nebbia che li costringe a brancolare. Riusciranno anche a superare l’Esame di Stato ed iscriversi all’Albo per poter cominciare a lavorare. I lavori che si troveranno a fare saranno frammentari, su ambiti totalmente differenti, senza la possibilità di crearsi un nucleo reale di competenza. Si confronteranno con il saper essere di psicologi “affermati”, non comprendendo che tali professionisti hanno creato la propria identità in tempi differenti. Infatti molti studiosi ritengono che l’identità professionale si costruisca necessariamente in una dialettica professionista-contesto e sia quindi legata all’intersoggettività. Con gli enormi cambiamenti avvenuti, l’identità dello psicologo di oggi non può sovrapporsi a quella dello psicologo di ieri. E questo naturale conflitto generazionale dovrebbe portare i giovani a differenziarsi, creando una propria identità, mentre spesso si costruisce un’identità “per imitazione”, che può rilevarsi poco funzionale ai contesti, andando quindi ad incidere sull’autostima professionale dei giovani psicologi.
D. Il dott. Giuseppe Luigi Palma ha definito la legge sulle professioni non regolamentate “il nostro 11 settembre”: quali saranno secondo lei le conseguenze di questa legge per i professionisti psicologi?
R. Non condivido tale lettura catastrofica anche se la Legge può essere un “cavallo di Troia”. La legge va a delineare confini, prima vacui e mal definiti, affermando che “ai professionisti di cui all'art. 1, comma 2, anche se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non è consentito l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale” (L 4/2013, art. 2, comma 6). Ovviamente è compito in primis degli Ordini degli psicologi vigilare e far valere, oltre agli strumenti già esistenti, i nuovi che questa legge mette a disposizione, tra cui anche la vigilanza sulla corretta attuazione delle disposizioni da attuarsi a cura del Ministero dello Sviluppo Economico. Spetta a noi impedire che vengano autorizzate e riconosciute ad “altri” prestazioni che sono una mera segmentazione della nostra, camuffati da nomi “ anglosassoni” e talvolta fantasiosi.
D. Parliamo di test psicologici: da un lato c’è un Codice Deontologico che ne regolamenta l’utilizzo in Italia così come c’è l’International Test Commission che ne regolamenta le regole (di standardizzazione e applicazione) nel mondo; dall’altro lato però in Italia c’è un abuso di test da parte di personale non specializzato e una generale tolleranza verso questo fenomeno. Come mai ciò avviene secondo lei?
R. Il test psicologico è uno strumento conoscitivo fondamentale per il professionista psicologo. Spesso però viene considerato l’UNICO strumento da utilizzarsi in determinate situazioni, affidandosi totalmente ai risultati emersi e senza inquadrare la situazione in base a fattori derivanti da altre fonti conoscitive. Questo atteggiamento, ipervalutante nei confronti del test e svalutante nei confronti del professionista che si avvale di tale strumento nel suo intervento “diagnostico”, porta le persone esterne alla professione a ritenere di poter utilizzare il test, che è corredato di un manuale, di griglie di lettura, di profili ecc... Nella comunità degli psicologi ritengo sia presente anche un atteggiamento diametralmente opposto a quello che ho precedentemente delineato: lo psicologo che non utilizza alcun test, svalutandone l’apporto conoscitivo ed affidando totalmente la raccolta di dati e informazioni al colloquio clinico, all’intervista ecc. È necessario un bilanciamento, privilegiando un approccio multidimensionale all’assessment, alla diagnosi, all’analisi della domanda di intervento psicologico.
D. Lei è una delle poche donne presidente di un Ordine Regionale, nonché consigliere dell’Ordine Nazionale. Secondo lei quanto le psicologhe si scontrano ancora con retaggi culturali maschilisti nel mondo del lavoro?
R. Tantissimo. Immancabilmente viene da chiedersi come mai una professione composta per circa l'80 % da donne vota, quali suoi rappresentanti istituzionali, in ampissima maggioranza uomini. Forse perché loro sono più bravi? Mi resta difficile crederlo. Sicuramente questo dato è riconducibile a quello più generale per cui in politica le donne tendono , spesso, a votare uomini. Un altro elemento di criticità è dato dal fatto che un numero ridotto di donne è disposto ad impegnare il proprio tempo per la politica professionale. È ancora molto radicata l'idea, specie se ci sono figli, che l'attività politica porti via tempo prezioso a loro. Il che è assolutamente vero, però il risultato di questo è una politica sempre orientata al maschile. È un circolo vizioso. Per affrontare politiche specifiche per le donne, e anche costruire strumenti che ne facilitino l'assunzione di ruoli politici, sarebbe necessaria una maggiore presenza di donne nelle cariche istituzionali. Questo non perché i colleghi maschi siano a priori contrari ad interventi a favore delle colleghe, quanto perché sono, ovviamente, più ignari dei problemi connessi all'essere donna, professionista, madre. La nostra professione risente di tutte quelle criticità appartenenti alle donne che lavorano: spesso guadagnano di meno , sono ostacolate nello sviluppo della carriera, anche libero professionale, hanno un carico in generale maggiore in merito a cura dei figli e della famiglia. Ma nell'approntare le politiche professionali questi temi molto, molto raramente vengono considerati ed affrontati.
D. Una domanda che tocca un tasto un po’ dolente: la questione dei tirocini per gli specializzandi in psicoterapia. Da qualche tempo alcune ASL richiedono un cospicuo contributo economico a specializzando, che teoricamente dovrebbe essere versato dalla scuola, per poter svolgere il tirocinio. Lei si sta battendo molto per far fronte a questa situazione. Qual è lo stato dell’arte?
R. Premetto che non condivido in termini assoluti il pagamento di un contributo per chi sta svolgendo un’attività di tirocinio. Non lo dovrebbe versare la scuola né tantomeno lo specializzando. Su questa linea ci siamo mossi scrivendo al Presidente Rossi ed a tutte le ASL della Regione Toscana. Infatti, lo psicologo specializzando in psicoterapia, durante il tirocinio non si limita ad un’attività di osservazione degli interventi operati dal supervisore, ma può operare direttamente con l’utenza. Un recente monitoraggio sui tirocini di specializzazione svolti presso le ASL della nostra Regione, promosso da questo Ordine in collaborazione con le Scuole di Specializzazione operanti in Toscana, ha fatto emergere (anche nella limitatezza del campione osservato, pari a 187 casi) che più della metà dei tirocinanti opera da solo in servizi che spesso percepiscono il ticket per le prestazioni erogate (pertanto anche su quelle svolte direttamente dagli specializzandi). Appare anomalo che la stessa ASL conceda lo svolgimento dei tirocini formativi e di orientamento (i così detti stage) e dei tirocini professionalizzanti per l’ammissione all’Esame di Stato per Psicologo, senza alcun onere a carico del tirocinante, e chieda un rimborso per i tirocini degli specializzandi che, al contrario dei precedenti, possono fattivamente contribuire allo svolgimento degli interventi portati avanti dall’Azienda. Risulta poi alquanto incongruente che le ASL chiedano un contributo per l’accoglimento dei tirocinanti di specializzazione, a fronte degli indirizzi regionali che vanno nella direzione opposta, e cioè quella di garantire una retribuzione/rimborso al tirocinante (sia esso stagista che praticante). C’è stata anche un’interrogazione parlamentare nel novembre 2012, senza che portasse alcun risultato.
D. Le professioni del counselor e dello psicologo (e ovviamente dello psicoterapeuta) sono nettamente distinte ma non sempre questa distinzione sembra essere chiara. Secondo lei fra le persone c’è consapevolezza della diversità di tali professionalità?
R. Come ho più volte ripetuto nelle varie sedi e nei vari incontri, faccio fatica a chiamare quella del counselor una professione. Infatti ritengo che il termine professione meglio si addica alle professioni regolamentate e con percorsi formativi normati e chiari. Venendo alla domanda, non posso che rilevare che la risposta non può che essere sì in molti casi e no in molti altri casi. Ci sono persone che scelgono a chi rivolgersi inconsapevoli delle differenze esistenti tra le varie figure. Ce ne sono altre che scelgono consapevolmente di andare da un counselor perché così si sentono meno stigmatizzate. Ad esempio quando progettammo la campagna di valorizzazione della figura professionale dello Psicologo vennero effettuati da GFK-Eurisko alcuni focus group dai quali emerse un’interessante concezione delle due diverse figure: “dal counselor ci vado per un problema che ho identificato e circoscritto (es: voglio migliorare la mia capacità di comunicazione con i miei figli, ho un problema di relazione col mio capo); dallo psicologo ci vado quando ho uno stato di malessere e sono disorientato e confuso, non sapendo esattamente di che cosa si tratti, o da che cosa sia dovuto”. Considerazioni come queste devono far riflettere noi psicologi, soprattutto in relazione ad una prospettiva sostanzialmente clinico-terapeutica che, di fatto, ha limitato il corretto ambito applicativo della disciplina. Infatti tutta una serie di potenziali domande dei nostri clienti, che riguardano ad esempio la costruzione del benessere e le possibili risposte ai bisogni quotidiani (ad esempio i training sulle capacità genitoriali, l’area della psicologia della salute, la psicologia scolastica, le applicazioni della psicologia del lavoro e molti altri), sono state lasciate da noi psicologi inevase. È proprio in questi ambiti che si sono inserite figure di pseudo-professionisti, riempiendo il vuoto lasciato dalla professione psicologica ed accreditando nei cittadini l'idea che tali prestazioni non riguardassero l'intervento dello psicologo. Come Ordine stiamo promuovendo la professionalità dello psicologo come colui che favorisce il cambiamento e potenzia le risorse individuali e collettive, in tutti i vari momenti della vita delle persone, delle coppie, delle famiglie, delle organizzazioni, dei cittadini e della società nel suo complesso. Noi lo facciamo dall’alto, ma è fondamentale che tutti i colleghi psicologi si facciano diffusori positivi di questa rappresentazione della nostra professione.