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numero 59 - luglio 2018

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L'intervista

Intervista a Romeo Lippi

Intervista a Romeo Lippi

Romeo Lipi è fondatore di un approccio chiamato Songtherapy, che ha sviluppato per entrare in contatto e lavorare con le persone. L'obiettivo di questa prospettiva è quello di  velocizzare, migliorare, rendere emotivo e divertente il processo di creazione di relazione con l’altro, attraverso e con le canzoni.
A lui abbiamo fatto qualche domanda per capire come lavora e in quali circostanze si applica questo approccio terapeutico. 

D. Dott. Lippi come è nato lo psicologo del Rock e da dove viene questo tipo di approccio?

R. Ero in supervisione dal mio maestro Edoardo Giusti, mi lamentavo del fatto che lavorando tanto come psicologo avevo poco tempo per la musica. Lui mi disse perché non unisci questi due mondi? Perché non li integri? Lì per lì mi sembrò una provocazione. Poi dopo poche settimane ho aperto il blog. Ed eccomi qui.
Il mio approccio viene dalla psicoterapia integrata mixata con gli orientamenti di crescita personale e le ultime ricerche scientifiche in merito al rapporto tra mente e canzoni.
Presto cambierò il naming del progetto: probabilmente si chiamerà “lo psicologo con le canzoni”.

D. Qual è, dal suo punto di vista, il principale aspetto che rende la musica uno strumento efficace nel lavoro terapeutico?

R. La musica è un’autostrada verso il conscio e l’inconscio che puoi percorrere senza che il paziente si senta in difficoltà, o si percepisca malato. È un ottimo strumento per creare relazione in maniera informale. È un linguaggio che accomuna il 96% della popolazione.
È una macchina del tempo che ti può portare direttamente a emozioni, ricordi, cicli di vita.

D. Come si articolano i corsi di Songtherapy e quale è la loro finalità? Qual è, per lei, la parte più emozionante di questi corsi?

R. I corsi di Songtherapy hanno l’obiettivo di diffondere tra i professionisti il mio approccio. In modo tale che sempre più professionisti della salute usino un linguaggio di educazione + intrattenimento. Sì alla psicologia seria, no alla psicologia noiosa. Il momento più bello è quando faccio lavorare in coppia e le persone in 5 minuti, parlando delle loro canzoni preferite, si alleano, si amano, si commuovono.
Altri corsi sono per tutti: uno a cui tengo molto è la Song-Fight-Therapy. Usiamo le canzoni per attivare la rabbia che è un’emozione molto inibita nel nostro mondo, per cavalcarla e trasformarla in energia “buona”. Partiamo dalle fantasie aggressive fino ad arrivare ad una sorta di Fight Club dove nessuno si fa male. Ovviamente con musica molto alta come sottofondo.

D. I percorsi di Songtherapy sono adatti anche ai bambini?

R. Penso che per i bambini la musicoterapia sia molto più indicata. Io lavoro molto sui testi e sulle emozioni collegate, un aspetto semantico che spesso manca nella fruizione musicale da parte dei bimbi.

D. Negli anni se ne sono tristemente andate tante icone della musica, anche di recente; si pensi a personaggi della portata di Elvis Presley, Kurt Cobain ma anche Chris Cornell e Dolores O’Riordan. Nei percorsi di Songtherapy si parla anche delle biografie e delle vite, spesso dolorose, di questi personaggi? Può accedere che la persona possa sentire propri aspetti della vita dell’autore di una canzone?

R. Certo che ne parliamo, sono dei modelli di riferimento e il loro esempio, spesso drammatico, ci può servire per capire delle cose: ad esempio che non è tutto oro quello che luccica, e che come dice Tony Robbins, il successo senza la soddisfazione dei bisogni profondi è il peggiore dei destini, perché porta all’abisso. Altri artisti sono degli esempi: Sting medita e si dedica alla natura. Identificandosi in alcune star, il paziente può trovarci degli aspetti personali: “mi sento come Amy Winehouse” è una frase che mi sono sentito dire più di una volta. Oppure gli adolescenti con cui lavoro vogliono fumare ed essere gangstar come i loro miti della musica trap.

D. La musica parla alle emozioni più che alla ragione. Come mai, dal suo punto di vista, la nostra società cerca di razionalizzare tutto quasi considerando le emozioni come qualcosa di scomodo?

R. Perché più le persone sono distanti dalle loro emozioni primarie, più sono disposte a ingozzarsi, a comprare, a riempire il vuoto. Appunto la canzone “Il Nulla” dei Baustelle. 

D. Lei ha scritto sul ruolo catartico della tristezza. Secondo la sua esperienza, la tristezza è un’emozione in cui le persone riescono a stare o da cui tendono a fuggire?

R. Ovviamente dipende dalla persona. La tristezza è il primo passo per elaborare delle situazioni interne complesse e lo step 1 del problem solving. C’è chi indugia troppo nella tristezza senza muoversi, chi scappa, nascondendosi nelle sostanze o nelle abbuffate. Tuttavia una bella playlist di canzoni tristi la consiglio sempre, io ne ho una che si chiama “Bella Malinconia”. Tenco può anche far sorridere di gioia. Bisogna lavorare su se stessi per godere dell’amaro sapore della tristezza.

D. Dal suo punto di vista, ci sono casi in cui la musica può colludere e nutrire gli aspetti disfunzionali di una persona?

R. Certo. Il classico esempio dei “cattivi maestri” in cui ci si identifica per condurre una vita di sostanze e reati. Fare la rockstar maledetta è una fase di passaggio per molte persone, meglio che sia solo una fase. Anche perché è solo l’emulazione di un modello, non ha niente di autentico rispetto alla persona. Anche perché negli anni ’70 sfidare le regole aveva un senso di crescita, essere trasgressivi era veramente rivoluzionario. Oggi dove tutto è possibile e permesso, penso che sia più “rompi-schemi” essere umani e normali; non nel senso di mediocri ma di essere senza troppa tracotanza.