L'intervista
Intervista a Riccardo Luccio
Intervista a Riccardo Luccio
Riccardo Luccio, nato a Roma nel 1941, si è laureato a Milano nel 1965 in Medicina. Professore ordinario dal 1975, ha insegnato Psicologia generale, Storia della Psicologia e Psicometria a Torino, Firenze e Trieste. Dal 2011 è Professore emerito di Psicometria presso l'Università di Trieste. Autore di oltre 300 articoli scientifici e di una quindicina di volumi, tra cui citiamo La psicologia: un profilo storico (2000), Ricerca sperimentale e analisi dei dati in psicologia (2006) e The Legacy of Gestalt Psychology (2012), è per noi un grande onore aprire con lui la rubrica di interviste del nostro magazine.
D. La psicologia, benché trasformatasi in una parte integrante delle scienze cognitive, sembra mostrare resistenze e difficoltà nel mettersi a disposizione della società. Lei cosa ne pensa?
R. Personalmente non ho questa impressione, anzi, semmai mi preoccupa il contrario. Mi spiego: in tutte le professioni, a partire dalla medicina, che nella sua organizzazione generale e soprattutto culturale la psicologia si sforza di scimmiottare, c’è una forte tendenza a ritenersi i portatori della salvezza del mondo, e a cercare di intervenire per salvare l’umanità, dando chiavi interpretative universali medicalizzanti in un caso, psicologizzanti nell’altro. Si osservi però che il mondo della psicologia va nettamente distinto tra chi si occupa di ricerca e di insegnamento e chi pratica la professione. I primi, oltretutto, quando si occupano di attività altre, esterne all’università, lo fanno in modo scisso distinguendo tra un’attività principale e una secondaria. Questa Spaltung è culturalmente e professionalmente nociva. Quando, più di quarant’anni fa, si discuteva dell’istituzione della laurea in psicologia, Franco Fornari faceva osservare che a nessuno verrebbe in mente di istituire una Facoltà di Medicina senza aver prima creato un Policlinico; ma il problema in psicologia non si è mai posto, né sembra porsi oggi. Così chi si occupa della scienza della psicologia fugge dalla società, e chi declina la psicologia nella società fugge dalla scienza…
D. A volte chi si occupa di metodologia della ricerca in psicologia si porta dietro uno stereotipo e cioè quello di chi preferisce i numeri alle persone. Cosa pensa di questo stereotipo?
R. Vorrei dire che più conosco le persone, più amo i numeri – ma non sarebbe corretto cavarmela con una battuta. In realtà tutti gli stereotipi portano con sé una parte di verità, e anche qui non si sfugge. Occuparsi a livello scientifico di metodologia (si tratti di metodi statistici, di modelli matematici, o anche di apparecchiature e del loro uso corretto) significa oggi fare un lavoro scientificamente molto avanzato, che prescinde in larga misura dal versante dell’applicazione (per cui resterebbe comunque poco tempo). D’altro canto, chi si occupa di applicazioni (e quindi è a contatto diretto con il “cliente”) ben difficilmente ha il tempo e le competenze indispensabili per affrontare i fondamenti scientifici degli strumenti che utilizza. Ritengo che questa situazione sia difficilmente modificabile, ma non credo che di per sé sia dannosa. Chi applica deve conoscere bene il “senso” di quel che fa, non i suoi fondamenti. D’altro canto, è vero che chi si occupa di fondamenti spesso non ha la minima idea di come sia fatto il “cliente”, e questo non è positivo.
D. Sembra che le riviste scientifiche tendano a dare più importanza ai risultati che sono statisticamente significativi; secondo lei è vero? Quali possono essere le implicazioni di tale approccio?
R. Questo era senz’altro vero fino a una trentina di anni fa, ma in questi ultimi anni le cose sono almeno in parte (e con molta lentezza) cambiate. Il concetto di significatività statistica si è imposto in psicologia negli anni ’30, con il modello dominante della “falsificabilità dell’ipotesi nulla”. In due parole, e per fare un esempio che rende chiaro un discorso altrimenti molto astratto, il ragionamento che faceva il ricercatore era questo: io studio la possibile esistenza di un certo effetto, per esempio il fatto che un certo stimolo modifichi i tempi di reazione; parto allora dall’assunto (ipotesi nulla) che lo stimolo sia inefficace, e calcolo la probabilità associata all’ipotesi nulla. Se questa probabilità è troppo bassa (convenzionalmente, il livello critico viene posto a 0,05 o a 0,01), ne concludo che è altamente improbabile che lo stimolo in questione non abbia effetto (ho falsificato l’ipotesi nulla), e quindi affermo che è statisticamente significativa l’ipotesi alternativa, che abbia invece effetto. Si osservi che questo modo di usare la statistica è specifico della psicologia, e di poche altre scienze (medicina sperimentale, sociologia, agraria), ma in grande maggioranza le altre scienze della natura analizzano i dati in modo profondamente diverso, e in particolare cercano di determinare la correttezza di “modelli”, specie sotto forma di cosiddette “leggi”. Questo modo alternativo di vedere le cose si sta affermando anche in psicologia, come dimostrano ad esempio le straordinarie affermazioni della statistica bayesiana, dei modelli di equazioni strutturali, dei modelli informazionali, tutti aspetti su cui qui non posso ovviamente entrare. Soprattutto, però, è ormai diventata comune la consapevolezza che la semplice significatività statistica, se l’analisi si ferma qui, è un esercizio abbastanza vacuo.
D. Molti psicologi che usano i test tendono a saltare a piè pari i capitoli sull'analisi dei dati nei manuali: secondo lei come mai?
R. Credo, tristemente, che la maggior parte di chi lo fa semplicemente non ne capisca nulla. Noi insegniamo agli studenti con enormi fatiche, alcuni rituali di calcolo, che permetteranno loro, bene o male, di capire il perché dei conti per la propria tesi di laurea; perché la persona cui si sono rivolte per farseli fare, li ha condotti in quel modo, e perché l’ipotesi nulla si respinge con p < 0,05. O, ancora, che bisogna gioire se l’alfa di Cronbach supera quel certo valore (e i motivi reali di tale gioia sfuggono largamente). Ma per la maggior parte, una volta dati i prescritti esami di psicometria e teoria dei test, tutto viene dimenticato. D’accordo, il medico con cui si troveranno a lavorare di massima potrebbe essere messo molto peggio, e saremo noi a dover spiegare cos’è un centilaggio – ma non credo che sia una grande consolazione.
D. Parliamo di Item Response Theory: è l'ultima frontiera della psicometria o secondo lei ci sono le possibilità di andare oltre?
R. La IRT ha svolto un ruolo estremamente importante nella teoria dei test, perfettamente in linea con quella svolta più ampia nell’analisi dei dati che segnalavo sopra, e che è consistita soprattutto nell’abbandono di certe formule semplicistiche per la ricerca di modelli che spieghino più in profondità quanto si osserva. In questo caso, Rasch ha potuto mostrare come era possibile determinare il contributo di ogni item alla misurazione delle abilità mentali, e ordinare i soggetti sulla base dei latent scores. Ma questo avveniva nel 1960, oltre mezzo secolo fa. Da allora, è vero, ci sono stati progressi imponenti, sia sul piano della teoria (dal SOL, stochastic ordering of latent traits, al PCM, partial credit model, alle varie forme di MIRT, multidimensional IRT) con il superamento dei vincoli molto rigidi che con il modello di Rasch si ponevano alla sua applicabilità; sia sul piano della somministrazione dei test, con lo sviluppo del CAT (Computer Assisted Testing) e soprattutto dei metodi cosiddetti adattativi, nati in origine in psicofisica, che consentono di modificare online la somministrazione sulla base delle risposte del soggetto. Si tratta però sempre di perfezionamenti “tecnici” che nulla innovano sul piano delle idee di fondo rispetto all’intuizione fondamentale di Rasch.
Certo, sono convinto che i tempi siano maturi per una nuova “rivoluzione” psicometrica, ma proprio non sono in grado di prevederne la direzione. Peraltro, in Italia la stessa IRT appare, salvo che a un numero ristretto di addetti ai lavori, un’ultima frontiera della conoscenza, un’avanzatissima e quasi esoterica teorizzazione – e comunque da confinarsi nelle stanze dei pensatoi, e da non declinare in nessun modo nella realtà dell’applicazione. Stando così le cose, è difficile immaginare che le novità, se e quando compariranno, potranno vedere la luce nel nostro paese.
D. Secondo lei sarebbe opportuno un aggiornamento dei programmi di Psicometria nei corsi di laurea psicologia? E se sì, perché?
R. Preliminarmente, bisogna chiarire un equivoco. Il termine “psicometria” a livello internazionale ha un significato ampio e uno ristretto. Nella sua accezione più ampia, significa “teoria della misurazione in psicologia”, in quella ristretta significa “teoria dei test”. In molti paesi prevale l’accezione ampia, ma di solito è più comune quella ristretta. L’Italia anche in questo settore presenta un’anomalia tutta particolare, e sotto il nome di Psicometria quasi in tutti i corsi di laurea si insegna in realtà la statistica applicata alla psicologia. È quanto faccio anch’io. Perché? La storia è curiosa, e illumina quanto spesso da noi avviene. Fino agli anni Novanta la dizione era quasi ovunque “Statistica psicometrica”, ma questo diede modo agli statistici di rivendicare il diritto alla titolarità della disciplina. Per salvare la corporazione, si ricorse allora a quest’escamotage, e alla Statistica psicometrica si cambiò il nome in Psicometria. E gli statistici dovettero abbozzare.
Ora, i problemi sono diversi se ci riferiamo alla psicometria in senso lato, o alla psicometria come teoria dei test. Ovviamente, è banale dire che ovunque si guardi, se i programmi non vengono rinnovati una disciplina muore. Ma questo rinnovamento, per la statistica applicata alla psicologia, c’è sostanzialmente stato. E se un tempo l’insegnamento veniva affidato (non solo in Italia) a giovani privi spesso delle più elementari competenze in attesa di farli passare in aree ritenute più “nobili”, oggi abbiamo in Italia una larghissima serie di giovani studiosi seriamente preparati, per cui mi sembra di poter dire che quasi ovunque abbiamo programmi aggiornati, impartiti da persone qualificate. Solo per fare un esempio, i modelli di equazioni strutturali, un tempo ritenuti strumenti avanzatissimi a disposizione di poche élite, sono oggi comunemente al centro degli insegnamenti di analisi multivariate, anche a livello di lauree triennali.
Il problema è più serio per la teoria dei test. Non credo che sia un problema di programmi, quanto di preparazione dei docenti – o meglio, probabilmente, della loro cultura. Sfoglio i testi di teoria dei test, e troppo spesso li trovo non più aggiornati del vecchio Anastasi. Non solo, ma troppo spesso chi insegna Teoria dei test non possiede neppure lontanamente la preparazione, soprattutto matematica, indispensabile per impartire insegnamenti aggiornati. Parlavo sopra di PCM, di SOL o di MIRT. Ma le competenze matematiche chi si richiedono per capire di cosa si tratta eccedono nella maggior parte dei casi di gran lunga quelle possedute dai nostri docenti di quest’area. E del resto, la basilare impreparazione matematica dei nostri studenti di psicologia, renderebbe sterile ogni tentativo di insegnamento aggiornato.
D. I suoi interessi spaziano molto; dalla statistica alla storia della psicologia, dalla poesia alle neuroscienze. Quale di questi ambiti di interesse la rappresenta di più?
R. Forse ha dimenticato la musica… Ma, a parte gli scherzi, non credo di avere più interessi della media dei miei colleghi. Comunque, da un lato ci sono i miei interessi privati (la musica, la poesia, le buone letture…), che credo non riguardino altri che me e i miei familiari e amici; dall’altro, i miei interessi scientifici. Per molti anni mi sono identificato con il lavoro di ricerca sperimentale, ma ho sempre cercato di dare un solido fondamento storico alle mie idee teoretiche, e di condurre ricerche non solo metodologicamente corrette, ma anche aventi al proprio centro una modellistica per quanto possibile avanzata. In realtà, la vita mi ha spesso indotto a occuparmi di problemi anche marginali, e comunque collaterali rispetto a questi interessi centrali, con il rischio (che spero di avere sostanzialmente superato) anche in qualche occasione di disperdermi. Da un paio di decenni, gli interessi storici e statistico-matematici si sono fatti decisamente prevalenti, e oggi mi definirei in parte come uno storico della psicologia, in parte come un matematico applicato – che nel tempo libero, invece di far jogging, frequentare party o andare al cinema, suona la chitarra classica, scrive sonetti, o legge e rilegge Tolstoi, o Faulkner, o Proust.