L'intervista
Intervista a Pier Luigi Avolio
Intervista a Pier Luigi Avolio
D. Dott. Avolio, lei ha maturato esperienza in diversi ambiti della psicologia applicata, dalla psicologia clinica alla psicologia delle organizzazioni, ha inoltre lavorato all’estero come responsabile delle Risorse Umane. Cosa direbbe ai giovani psicologi che si affacciano alla professione?
R. La prima cosa che suggerisco è quella di essere tenaci. Se la passione guida le vostre scelte, a poco a poco, le cose cominceranno a prendere la giusta direzione. Bisogna cogliere ogni situazione come un’occasione per evolversi come professionisti, e soprattutto come esseri umani. Con gli anni ho imparato che se non si migliora come esseri umani difficilmente miglioreremo come professionisti. Dunque, ragazzi scegliete ciò che vi entusiasma, anche se intorno ascoltate lamentele o persone che sono allenate a cercare problemi dove non ce ne sono per scoraggiarvi. Un altro suggerimento che mi sento di darvi è quello di affrontare l’ignoto con coraggio e fiducia, alla lunga il lavoro da i suoi frutti anche se, ogni tanto, sembra non esserci alcuna via di uscita: credo che proprio in quei momenti siete vicini a una svolta.
D. Lei gestisce un servizio di consulenza online, un modo diverso di dare supporto psicologico rispetto a quello tradizionale in presenza. Quali sono le strategie che lo psicologo deve tener presenti perché la relazione sia efficace?
R. Bisogna considerare che anche attraverso uno schermo le emozioni si trasmettono in maniera netta. A primo impatto lo schermo di un personal computer può sembrare un filtro che pregiudica l’intensità del lavoro; in realtà, o almeno questa è la mia esperienza, la comunicazione non verbale avviene soprattutto attraverso le espressioni del viso e attraverso gli occhi, per cui si possono cogliere anche molte sfumature. Tutto ciò che suscita un’emozione positiva rimane chiaramente nell’interlocutore e arricchisce la sua mappa emotiva. È ovvio che anche la mia mappa si arricchisce e diventa più varia e flessibile, migliorando la qualità del mio servizio.
D. Dal suo punto di vista, gli utenti che chiedono supporto online lo fanno solo per motivi legati alla distanza oppure per qualcuno la modalità online può esser percepita come più efficace e meno minacciosa (ci si connette da casa propria dal proprio computer, una situazione, quindi, più conosciuta)?
R. La seconda alternativa mi sembra quella più plausibile. Per alcuni, arrivare in uno studio di un professionista può essere percepito come pericoloso, nel senso che ci si può sentire giudicati e dunque da casa ci si sente meno sotto pressione. E poi non bisogna dimenticare che non si corre il rischio di essere “visti” da qualcuno che ci conosce e essere definiti come “con dei problemi gravi” da chi non conosce nulla di psicologia o di chi non sa come funzionano queste cose. A ogni modo la distanza gioca il suo ruolo, anche se dopo qualche tempo alcuni utenti hanno espresso il desiderio di volermi incontrare di persona, pur abitando lontani.
D. Per uno psicologo, la promozione delle proprie attività è molto complicata e riuscire a emergere è sempre molto difficile. Crede che la modalità di supporto online possa essere una nuova frontiera per molti psicologi?
R. Sì. I supporti tecnologici sono ormai entrati in maniera definitiva nella nostra vita. Se non li usiamo rischiamo di essere lenti nella comunicazione. Basta uscire fuori e vediamo molte persone con smartphone in mano che operano sui social network. Dal mio punto di vista la tecnologia deve servire a migliorare la nostra vita; è chiaro che in molti casi l’abuso delle tecnologie rischia di far dimenticare la vita vera. Va considerato anche il fatto di poter avere accesso a un’utenza più ampia rispetto a qualche anno fa, dove si poteva operare solo nell’ambito della nostra città o nel raggio di qualche decina di chilometri.
D. Nei suoi articoli e nei suoi interventi spesso parla della paura, un’emozione primaria adattiva da un lato, ma che può diventare bloccante se scatenata quando non serve. Di cosa hanno paura le persone?
R. Ho notato che molte persone hanno paura della solitudine, intesa come essere soli al mondo. Mi spiego meglio: alcuni preferiscono una presenza fisica, anche con poche emozioni, piuttosto che andare dentro di sé e cominciare a conoscersi. Purtroppo, la maggior parte delle persone viene indirizzata a guardare fuori di sé e non dentro oppure, per pressione sociale, a cercare il più presto possibile una moglie, un marito, una compagna, un compagno, un figlio, al solo scopo di rinviare l’incontro con se stessi e doversi schierare in una posizione inizialmente scomoda, ma che poi diventa comodissima: essere quello che si è. Sembra che la società ci dica: se sei solo c’è qualcosa che non va.
D. Parliamo di emozioni in generale. Siamo “programmati” per emozionarci ma, talvolta, se le emozioni che sentiamo sono troppo intense, queste possono offuscare la capacità di leggere chiaramente le situazioni. Per questo le emozioni vengono viste come minacciose?
R. Le emozioni vengono viste come minacciose quando non si conoscono oppure quando non sono state “metabolizzate”; sto parlando ad esempio di un’esperienza traumatica o di un abbandono magari avvenuto in tenera età. Noi uomini siamo cresciuti con il mito del cavaliere senza macchia e senza paura e dunque le emozioni sono viste come debolezza, anche se è un errato luogo comune. Per quasi tutti vale il “sono perché faccio”, quindi una mancata realizzazione di un desiderio o di un obiettivo ci fa percepire come non sufficientemente validi, oppure piangere viene visto come non essere sufficientemente forti. In alcuni casi, i più estremi, l’emozione viene percepita solo come pericolosa, anche in caso di emozioni positive, e viene negata tassativamente.
D. Parliamo del suo ultimo libro che ha scritto con sua moglie Susanne: “Gli amici si vedono nel momento del bisogno. I parenti ai funerali e ai matrimoni”; una lettura in chiave comica di un tema che in realtà è piuttosto serio ossia quello degli attriti familiari. Come è nata questa idea?
R. Mia moglie è nata a Innsbruck e io sono cresciuto in una città calabrese: a prima vista, potrebbe sembrare che i nostri mondi siano completamente diversi; invece, conoscendoci abbiamo visto che le dinamiche familiari sono le stesse, come pure le strategie per uscirne integri. Dal momento che c’erano molti punti in comune abbiamo deciso di trasformare queste analogie in un libro comico, ma che allo stesso tempo faccesse riflettere. In prossimità delle feste religiose la maggior parte delle persone si affretta a eseguire rituali senza neanche conoscerne il vero motivo. Ad esempio, rivedere persone appartenenti alla famiglia solo in particolari occasioni o telefonare a qualcuno, non per il piacere di risentirlo, ma soltanto perché si deve, visto che si è parenti, sembra essere molto comune. Abbiamo voluto andare in fondo al concetto di famiglia chiedendoci cosa sia veramente: una fotografia da tirare fuori solo in determinate occasioni come matrimoni e feste, oppure delle persone che si incoraggiano a vicenda e che sono unite in caso di difficoltà o successo?
D. Un consiglio per affrontare il Natale in famiglia.
R. Dipende dalla famiglia. In caso di famiglia disfunzionale ritengo opportuno non parlare di progetti o successi ottenuti. La gastrite potrebbe comparire nei familiari più invidiosi che, di solito, sono travestiti da benefattori che colgono l’occasione per smontare le tue idee, facendo venire la gastrite a te. In questo caso è proprio vero che bisogna “affrontare” il Natale in famiglia, anche se non siamo certo obbligati. Se sentiamo emozioni positive e c’è una reale volontà di rivedere familiari e amici, che di solito vediamo o sentiamo anche durante il resto dell'anno, ben venga il Natale in famiglia, altrimenti consiglio un viaggio in Florida, anche con la zattera.