L'intervista
Intervista a Maurizio Cantale
Intervista a Maurizio Cantale
Maurizio Cantale, medico, psicologo, psicoterapeuta e psicodiagnosta, è specialista in Psicologia clinica e in Psichiatria forense, è stato Giudice Esperto presso il Tribunale di Sorveglianza di Firenze. È autore di numerose pubblicazioni nell'ambito dei test psicologici tra cui, per Edizioni Com-Esp, Le manifestazioni particolari nella psicodiagnostica Rorschach, già alla seconda edizione (2009).
D. Lei si occupa di perizie da tanti anni. Quali sono, secondo lei, gli ambiti peritali in cui lo psicologo si trova più coinvolto?
R. Il miglior sbocco dal punto di vista professionale per uno psicologo sono gli ambiti legati al comparto civilistico più che gli ambiti legati al penale. L’ambito penale è in genere appannaggio degli psichiatri perché la maggior parte dei quesiti che il giudice pone al perito (in ambito penale si chiama perito) sono di natura psichiatrica poiché riguardano la capacità di intendere e di volere, la pericolosità sociale, il rischio che il soggetto possa ricommettere reati; per cui generalmente questo tipo di quesiti vengono affidati allo psichiatra. In ambito civile è più facile che lo psicologo possa dare il meglio di sé, lavorando con le competenze che più gli sono vicine come ad esempio le separazioni, gli affidamenti di minori, tutte quelle valutazioni del sistema famiglia e dei minori inseriti nel sistema famiglia, oppure la valutazione della testimonianza, dell’attendibilità e della personalità; Il Tribunale di Sorveglianza poi, si avvale moltissimo del lavoro degli psicologi.
D. Parliamo di testimonianza. Secondo lei quali sono i test che funzionano meglio per aiutare a comprendere se possiamo credere a un testimone?
R. Innanzitutto non c’è ancora in Italia un test specifico sull’attendibilità del testimone. Naturalmente, se dovessimo valutare l’attendibilità di un testimone dovremmo innanzitutto domandarci: è una persona normalmente intelligente? È una persona con un disturbo preesistente o il disagio che io oggi osservo è il risultato dell’evento? Dal mio punto di vista è fondamentale non utilizzare un singolo test ma una batteria di test per ottenere una validità incrementale rispetto al quesito che poi il giudice pone: ad esempio un autodescrittivo ci parla di quello che il soggetto pensa di sé, il proiettivo di quello che sfugge alle sue parti consce e che noi possiamo osservare.
D. Quali sono secondo lei le maggiori difficoltà che si trova a fronteggiare uno psicologo quando deve fare una perizia?
R. Innanzitutto difficoltà di tipo metodologico, perché la perizia è come un rito e, come tutti i riti, richiede conoscenza specifica del rito stesso. Quindi lo psicologo deve avere una solida preparazione di tutto ciò che ruota intorno alla procedura e al processo stesso: dal momento in cui accetta di recarsi in tribunale per ricevere l’incarico, quindi il giuramento, alla la scelta dei tempi e alle modalità con cui svolgerà il suo incarico. Io credo che l’ostacolo più grande per uno psicologo non sia soltanto la conoscenza della clinica, della psicopatologia, degli strumenti psicodiagnostici, perché questi dobbiamo darli per scontati. Deve fare qualcosa in più, perché la sua diagnosi si tradurrà in un parere motivato per il giudice e il giudice a sua volta farà scaturire da questo una sua decisione, che si chiama sentenza. Ma tutto ciò che è a monte di questa sentenza sarà responsabilità dello psicologo che quindi deve conoscere molto bene la metodologia e la procedura forense e questo lo può fare soltanto se si prepara adeguatamente.
D. Secondo lei è più difficile ricoprire il ruolo di CTU o di CTP?
R. È naturale che io il risponda dicendo che è più difficile ricoprire il ruolo di CTU: lo psicologo che ha il ruolo di consulente per il tribunale, o di perito, ha il segreto professionale, il segreto d’ufficio, deve essere equidistante e deve conoscere molto bene la prassi forense. Questo non significa che il CTP non debba conoscere le stesse cose, ma il CTP è inevitabilmente portato a parteggiare per la parte che sta seguendo: per questo mi sento di dire che è un pochino più facile il suo ruolo e non è un caso che esista un albo dei periti per il tribunale mentre non esiste un albo dei consulenti di parte. Il Consulente di Parte però non può, pur essendo pagato dal proprio cliente, arrivare ad esempio a dichiarare il falso: c’è sempre un’etica applicata alla consulenza di parte e questo rende difficile anche il lavoro del Consulente di Parte. In altre parole se è difficile per il Consulente del Tribunale riuscire a essere neutrale, equidistante, potremmo affermare che per il Consulente di Parte è altrettanto difficile non arrivare a dichiarare o a volere cose impossibili.
D. Per riassumere dunque, quali sono gli errori che uno psicologo potrebbe commettere quando si trova a dover gestire una perizia?
R. Se per perizia intendiamo una perizia d’Ufficio, direi che i principali errori possono derivare dalla mancata equidistanza, dalla mancata conoscenza della prassi e delle procedure, ad esempio, il non informare le parti di tutti gli atti e di tutti i passaggi che il consulente intende fare; quindi, le difficoltà che vedo per un consulente d’ufficio sono soprattutto di ordine metodologico e procedurale. Come vede, non c’è alcun accenno da parte mia, volutamente, ad un possibile errore diagnostico: do per scontato che questa è una parte delicata e difficile, ma inevitabile e imprescindibile. Io dico sempre ai miei allievi: nell’ambito forense, il vostro lavoro non sarà mai osservato con occhi benevoli; sarà sempre osservato con finalità critiche perché chi ci osserva segue gli interessi della propria parte, ed è giusto che sia così, proprio perché la parte che è seguita dal proprio consulente ha diritto ad avere il miglior processo possibile, e il migliore CTU possibile che lavori nelle migliori condizioni possibili: ecco perché do per scontato che la diagnosi, pur essendo difficile, debba essere ben fatta.
D. Quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un test per essere utilizzato in ambito peritale, secondo lei?
R. Dobbiamo partire da un assunto: in ambito peritale, nel processo, tutti gli attori in gioco hanno un interesse. Anche il CTU ha il proprio interesse, che è l’interesse di lavorare ai fini di giustizia e di mettere il giudice nelle condizioni di ben decidere; questo è il suo primario interesse. Le parti hanno degli interessi contrapposti, quindi potrebbero essere naturalmente portate a falsificare, distorcere la realtà, osservare, il bicchiere o mezzo vuoto o mezzo pieno a seconda di ciò che è di interesse per la parte stessa. Sperare poi che il nostro periziando sia neutrale nei nostri confronti è solo utopia perché ha anche lui il suo interesse: che sia uno sconto di pena, ottenere un beneficio, ottenere del danaro in risarcimento, avere affidato un minore, in ogni caso ci sarà sempre un interesse dietro, non avremo mai un setting pulito e una situazione neutrale. Ho fatto questa lunga premessa per dire che quindi il test ideale dovrebbe essere uno strumento che riesca ad andare oltre gli interessi soggiacenti le parole del periziando e quindi un test che riesca ad essere realmente oggettivo. A mio avviso non esiste un test realmente oggettivo: ogni strumento ha un suo tallone d’Achille, ogni test presta il fianco proprio all’oggettività. È la chimera di noi psicodiagnosti quella di riuscire ad individuare un test oggettivo. Ed è proprio per questo che utilizziamo delle batterie di test. Per esempio, il MMPI-2, il cui sottotitolo nella prima versione era “una valutazione oggettiva della personalità” risente della soggettività dell’esaminato il quale distorcerà più o meno la descrizione di se stesso. Noi ci accorgiamo di quanto il soggetto ha distorto la verità ai suoi fini, perché noi diamo in mano al soggetto un’arma formidabile ovvero la penna o il pennarello e gli diciamo “descriviti, fatti un quadro” e sarà lui a decidere se farselo bello o somigliante. È utopico, credo, sperare, nell’assoluta sincerità in tribunale.
D. Quali sono le figure professionali con cui più frequentemente si interfaccia lo psicologo nel processo? Com’è la comunicazione tra lo psicologo e queste figure?
R. Gli scambi comunicativi più accesi li ho visti in ambito penale perché la risposta che il perito deve fornire al giudice sarà sempre orale; la risposta scritta, la cosiddetta perizia, è un accessorio, ma la base nel processo penale è che il perito verrà ascoltato e quindi interrogato dal giudice, dal Pubblico Ministero e dalle parti, dagli avvocati. E naturalmente quando si viene interrogati, quando si viene ascoltati, quando si va dibattere su un caso, i toni possono diventare anche molto accesi.
Nel processo civile, al contrario, la norma è che il consulente rediga una sua consulenza e la depositi e, solo se viene chiamato a chiarimenti, ci sarà un dibattito intorno al proprio operato, ma nella maggior parte dei casi il dibattito è avvenuto prima tra specialisti. Lo psicologo, e naturalmente anche lo psichiatra, deve usare una terminologia che sia chiara a persone che sono persone “di legge” e non persone “di scienza” e quindi dovrà spiegare i concetti tecnici che utilizza o meglio, dovrebbe usare un linguaggio che, come diceva il mio maestro Ponti a Milano, dovrebbe essere quanto più vicino a quello dell’uomo della strada, perché solamente allora sarà stato veramente chiaro nell’esporre il suo pensiero.
D. Parlando di test e di terminologie, un test dove di terminologie difficili ce ne sono tante è il test di Rorschach, con cui lei lavora da moltissimo tempo. Tra gli psicologi c’è la tendenza a considerare poco attendibili, poco validi i test proiettivi perché ritenuti troppo vincolati agli schemi interpretativi del somministratore. Cosa risponderebbe?
R. Quando ero giovane mi battevo con tutte le mie forze per difendere la dignità del Rorschach come test in quanto tale. Con la maturità ho smesso io stesso di utilizzare il termine “test” applicato al Rorschach e parlo di “tecnica di indagine della personalità” o di “Prova” e questo mi aiuta a sgombrare il campo dalle polemiche, dai litigi che si osservano in tribunale come nella clinica. Tutta, la difficoltà nella valutazione e nell’interpretazione del Rorschach sta nell’esaminatore. Per poter usare bene questo sofisticatissimo e straordinario strumento serve una solidissima preparazione; ma non basta che lo psicologo abbia solo studiato, cioè che sia molto preparato dal punto di vista delle conoscenze: per poter essere esperto deve aver anche somministrato molti test, almeno cento Rorschach o aver frequentato un lungo training in cui l’insegnante corregge progressivamente gli errori che man mano l’allievo commette. Intorno al test di Rorschach c’è un grande alone di simpatia, di antipatia, di mistero, di critiche, ma io ritengo che nella maggior parte dei casi queste critiche siano giuste. Forse potrà suonare eretico da parte di un rorschachista dire che delle critiche sono giuste, ma è vero: la maggior parte delle persone che utilizzano il Rorschach sono degli autodidatti che, pur con tanta buona volontà, lavorano male con questo strumento. Essi fanno soprattutto un danno ai pazienti, o ai periziandi, in cui si imbattono. Il tallone d’Achille è proprio lì, è proprio l’esaminatore.
D. Quindi lei ritiene necessario un percorso formativo lungo e impegnativo e conoscenze delle procedure forensi; il mestiere dello psicodiagnosta Rorschach in ambito forense è un mestiere di grande responsabilità.
R. Assolutamente sì, di grande responsabilità. Se immaginate già le competenze che sono richieste a un rorschachista per fare bene il suo mestiere cioè per dare una risposta clinica a chi gli ha inviato questo paziente, provate a immaginare le difficoltà che questo stesso rorschachista incontrerà nel momento in cui decidesse di utilizzare questo strumento in ambito forense.
D. Oltre all’esempio specifico dell’utilizzo del Rorschach in ambito forense, mi sembra che tutte le richieste in termini di responsabilità siano già ben specificate all’interno del codice deontologico.
R. Se applicassimo tutti il codice deontologico e se applicassimo le norme e le linee guida stabilite dai manuali e dagli autori probabilmente non commetteremmo quei gravissimi errori che poi facciamo pagare ai nostri pazienti. Faccio un esempio: nelle linee guida del MMPI-2 è chiaramente scritto da tutte le parti che la prova va sorvegliata, non si può lasciare il paziente nella stanza da solo, non si può consegnare il test e aspettare che il paziente ce lo riconsegni. La prova va sorvegliata, bonariamente, con dolcezza ma va sorvegliata. Sarebbe un errore gravissimo affidare il test al paziente e lasciarlo solo o, peggio, lasciare che lo compili a casa, eppure osservo ancora in molti contesti forensi colleghi che lasciano soli i pazienti nella stanza durante la somministrazione del MMPI-2. Che certezza hanno che in quel lasso di tempo (in genere almeno 90’) il paziente non abbia tirato le risposte a caso perché non aveva nessuno a cui chiedere un chiarimento, o telefonato al suo avvocato, o al suo consulente, o non abbia tirato fuori un foglio già preparato con le risposte più opportune da dare, o addirittura il manuale stesso? Che protocollo referterà quello psicologo? E, soprattutto, di chi? Possiamo ancora parlare di un test “obiettivo” in questi casi?
D. Parlando di procedure e linee guida, qual è l’utilità del DSM IV-TR in ambito forense? Nel DSM IV-TR si dice che non è pensato per l’ ambito forense.
R. Dovrei ribaltare la domanda: esiste un altro sistema nosografico, un’altra sorta di esperanto che permetta a tutti di parlare la stessa lingua? Certamente l’ideale sarebbe trovare un “esperanto forense”, ma non l’abbiamo. Ecco che la maggior parte degli specialisti, me compreso, si sforzano di utilizzare un linguaggio comune, in cui tutti ci ritroviamo: se io faccio una diagnosi da DSM i colleghi delle parti che leggeranno il mio lavoro con occhi, ripeto, mai benevoli, sapranno qual è il mio sistema di riferimento. Questo non significa che se io voglio utilizzare un altro sistema nosografico io non sia libero di utilizzarlo anche perché il giudice mi chiede un parere sulle condizioni del soggetto; che tipo di linguaggio io utilizzo, al giudice non interessa, ma naturalmente devo spiegare quali sono gli occhiali che io indosso per leggere la realtà del paziente.
D. Che consiglio darebbe agli psicologi che intendono investire la loro professione nel mondo forense?
R. Come tutte le situazioni in cui io ho un’aspettativa, se io guardo all’oggi guarderò al costo di una certa formazione, se penso al domani penserò che questo è un vero e proprio investimento, dunque è corretto parlare di investimento. D’altronde, dover investire sul proprio futuro in un momento dove tutto è insicuro e critico, è molto delicato. Senz’altro, se io avessi di fronte un giovane psicologo che vuole affrontare la pratica forense, la prima cosa che gli direi è che la base è una solida preparazione: prepararsi, prepararsi attentamente. Un giovane psicologo se riesce ad ottenere una solida preparazione professionale potrà sopperire ad una minore esperienza sul campo, e sicuramente potrà confrontarsi anche con gli anziani psicologi e psichiatri.