L'intervista
Intervista a Matteo Marini
Intervista a Matteo Marini
Matteo Marini, psicologo e formatore è autore di due volumi che in modo molto ironico affrontano questioni importanti legate alla psicologia del lavoro: Manuale di psicologia sgarbata. L'arte di tutelare se stessi dagli altri e da se stessi e Fucking monday. Corso di sopravvivenza in ufficio.
In modo fresco e diretto ci racconta la sua personale esperienza nell’ambito della psicologia del lavoro, chiarendo le motivazioni che lo hanno portato a scrivere due libri e offrendo un quadro dei lavoratori e delle aziende italiane in cui non sarà difficile individuare situazioni comuni e familiari.
D. Dott. Marini lei ha scritto due libri che parlano di psicologia (Manuale di psicologia Sgarbata e Fucking Monday) ma che lo fanno in modo diverso dai classici saggi; affronta infatti argomenti importanti e talvolta persino drammatici (come il mobbing o il burnout) con delicata ironia e persino con frasi divertenti. Quale è stata la spinta alla creazione di questi due lavori?
R. Ho letto montagne di libri scritti in “psicologhese” ed ho pensato che se erano faticosi per gli addetti ai lavori… per un profano potevano essere seriamente lesivi al sistema nervoso centrale! Purtroppo solo pochi “eletti” hanno di fatto accesso ad informazioni di matrice psicologica, soprattutto nel mio settore, che è quello della psicologia del lavoro. Mi sono semplicemente impegnato a scrivere libri divertenti e chiari riprendendo una modalità di scrittura anglosassone: periodi brevi, poche parentesi, virgolette, incisi ecc. Ho evitato come la peste doppie, triple e quadruple negazioni. Infine ho cercato di mettere tutto in una luce ironica, non per sminuire gli argomenti (che in realtà sono serissimi) ma per rendere l’opera il più possibile divertente e scorrevole. Alla fine del libro quindi, dopo essersi fatti due risate, si pensa : “toh, ho imparato anche qualcosa di psicologia”.
D. A volte gli psicologi (soprattutto quelli del lavoro ma non solo) parlano un po’ troppo in “psicologhese” e si allontanano dalle persone, è d’accordo? Come mai secondo lei?
R. Eccome se sono d’accordo! Mai capitato di leggere un libro di 300 pagine che orbita attorno a concetti che possono essere espressi in 30? Altri testi invece trasudano autoincensamenti estremi in cui l’autore ripete implicitamente ad ogni rigo quanto è (a differenza del lettore) colto ed erudito. Uno dei problemi della psicologia secondo me è che, in certi casi, è vittima di un certo snobismo. La realtà è che non sempre gli autori vogliono veramente trasmettere (fra un parolone e l’altro) conoscenza reale e contenuti pratici.
D. “Hai un lavoro fisso, con i tempi che corrono dovresti solo essere felice”. Un messaggio che molto spesso viene passato a chi lamenta dei malesseri lavorativi. Che tipo di riflessione le suscita questo messaggio?
R. Se il lavoro piace ovviamente questa frase ha un senso, ma purtroppo la situazione non è sempre così. Diciamolo pure, in Italia siamo un po’ vittime della “cultura del dolore”. Se cioè il lavoro ci fa venire insonnia e depressione siamo degli eroi che resistono agli eventi con imperterrita determinazione. In molte culture invece, un eroe che si immola per il lavoro è considerato un fesso. Non dico che il lavoro non nobiliti l’uomo… ma se ci fa schifo, per un motivo o l’altro, può anche essere CAMBIATO. “Oddio! Siamo in una fase di crisi! Non te ne sei accorto?” Questa è la frase che mi sento ripetere più spesso quando faccio il discorso dell’eroe e del fesso. Ebbene, quando chiedo alla vittima del lavoro frustrante quanti curriculum abbia mandato in giro la risposta è quasi sempre: “nessuno… c’è crisi!”. Non dico di buttare via un lavoro senza un’alternativa (soprattutto se si ha famiglia e figli!). Ma anche non guardarsi intorno è un’azione autolesionistica! Quante persone conoscete ostaggio del proprio odioso lavoro? Io moltissime! E nessuna si sforza di trovare altro!
D. Diciamo la verità, per essere un buon capo ci vorrebbe il patentino. Quali sono, secondo lei, gli errori che più spesso vengono commessi dai responsabili nel gestire il personale?
R. Uno degli errori, a mio avviso, più comuni in Italia, è quello di preservare una leadership di matrice narcisistica. In questa tipologia di leadership l’esercizio di un potere non è finalizzato al buon andamento dell’azienda ma principalmente alla gratificazione personale del dirigente. Questa tipologia di leadership è ovviamente lesiva per un’organizzazione. Il leader in questi casi non è un elemento proattivo di sviluppo ma bensì causa di involuzione aziendale. Risulta infatti essere manipolativo e talvolta (in una dimensione psicologica) violento. Ricerca negli altri una fonte di gratificazione ed è caratterizzato da una dipendenza del potere che esercita. Ho visto aziende andare in forte crisi a causa di questa modalità di leadership. Tempo fa un imprenditore dispotico, sommerso da cause per mobbing, scioperi e malattie professionali mi gridò in faccia: “Pur di non cambiare, io la affondo questa azienda!”. Infatti mi risulta che abbia chiuso… ottimo affare direi! Aggiungo che in altri paesi europei questa modalità spesso non ha campo. Appena qualcuno dei dirigenti comincia ad avere atteggiamenti coercitivi viene rimosso in quanto considerato una minaccia per il clima aziendale, e quindi per la produttività dell’organizzazione.
D. Come mai, secondo lei, si parla tanto di prevenzione dello stress ma sono più le aziende in cui c’è un elevato livello di stress rispetto a quelle in cui le persone sono serene?
R. Per lo stesso motivo per il quale la legge sulla valutazione dello stress lavoro-correlato è stata ostacolata e rimandata con esasperata ostinazione. Proveniamo da un imprinting culturale nel quale il caporalato è ancora ben radicato in intere aree produttive della nostra economia. Per esempio è ancora ben presente nell’edilizia, ma ovviamente non è l’unico settore. In Italia si preferisce non turbare troppo gli equilibri, il cambiamento viene visto come una minaccia. Molte organizzazioni sono incancrenite in meccanismi perversi ma non si fa niente per bonificare l’ambiente… e quindi nel frattempo sul posto di lavoro si respira acido da batteria. Ovviamente ci sono anche molte aziende virtuose in tal senso, aziende che hanno fatto di un buon clima una bandiera. Proprio quest’ultime, da illustri studi in materia, risultano essere quelle a minor rischio fallimento… sarà una coincidenza?
D. A volte sembra che gli psicologi del lavoro soffrano di una sorta di “complesso di inferiorità” verso i consulenti del lavoro, gli economisti, i commercialisti ecc… Le risulta? Come mai secondo lei?
R. Verissimo! A mio avviso non c’è ancora molta consapevolezza della figura professionale dello psicologo del lavoro. La causa penso sia principalmente da ricercarsi in una pesante eredità culturale: se si sente parlare di psicologo viene subito in mente il dottore che cura i matti! Lo psicologo del lavoro è da considerare un agente di cambiamento del contesto organizzativo e non chi ti mette la camicia di forza! Per questa motivazione la figura dello psicologo fatica ad inserirsi in contesti lavorativi. Ho avuto tuttavia opportunità di vedere che in aziende nelle quali uno professionista esegue un buon lavoro (e quindi crea un valore aggiunto) ci sono spazi per una collaborazione.
D. Quando viene fatta una selezione da parte di un’azienda, di solito, si presta attenzione ai tratti di personalità che il candidato dovrebbe avere in funzione della posizione da ricoprire ma c’è molta poca tendenza a pensare alle caratteristiche del candidato in funzione della cultura organizzativa. Ad esempio selezionare una persona orientata agli obiettivi (e magari ambiziosa) in un contesto organizzativo poco meritocratico e molto paternalistico potrebbe essere un enorme boomerang. Secondo lei, come mai avviene questo?
R. Ho visto aziende eseguire selezioni accuratissime ma inutili! Una buona selezione dovrebbe indagare le naturali inclinazioni del candidato, le sue capacità, la sua cultura ed il suo background.
Troppe volte invece si ricercano i tratti specifici di personalità. In alcuni tipi di lavoro una ricerca dei tratti è utile, per non dire fondamentale. Un pilota di aereo per esempio sarebbe opportuno non avesse tendenze suicide! Ma ad eccezione di alcuni ruoli lavorativi specifici molte organizzazioni indagano nei dettagli la personalità mettendo al secondo posto invece le caratteristiche che realmente servirebbe scovare! In ultima istanza risulta fondamentale che l’organizzazione analizzi se stessa. Il contesto nel quale vogliamo inserire la risorsa ha una rilevanza fondamentale! Ma anche questo purtroppo non viene quasi mai fatto.
D. Lei è uno psicologo del lavoro che si occupa anche di orientamento scolastico e professionale. I vecchi metodi di orientamento che vedevano il futuro professionale nel lavoro a tempo indeterminato in quella che sarebbe stata l’azienda della vita ora forse sembrano obsoleti. In questa fase storica cosa è meglio fare per aiutare le persone ad orientarsi?
R. Ricordo che un orientatore dopo il mio diploma mi somministrò un test e risultò che sarei stato un fantastico pastore! Lo giuro! Ci ripenso spesso a questa diagnosi forse un po’ sballata. Anche se in un futuro più o meno prossimo (c’è crisi!) non escludo di praticare tale professione ritengo che in questo contesto storico l’orientamento abbia delle forti analogie con l’assessment. Il soggetto in questione che esce da un istituto superiore ha una consapevolezza di sé molto scarsa. Lo psicologo con delicatezza e con gli strumenti a disposizione (test, colloqui e prove di gruppo) dovrebbe accompagnare il soggetto verso un livello maggior di consapevolezza e concretezza. In altre parole ritengo che l’orientamento debba indicare una via consapevole e compatibile con le naturali inclinazioni, aspettative e capacità del soggetto… e non la professione della tua vita.