L'intervista
Intervista a Luciano Mecacci
Intervista a Luciano Mecacci
Luciano Mecacci, dal 1971 al 1986 è stato ricercatore dell’Istituto di Psicologia del CNR di Roma, dal 1977 al 1995 ha insegnato varie discipline psicologiche all’Università Sapienza di Roma, e dal 1995 al 2009 all’Università degli Studi di Firenze. Ha trascorso periodi di ricerca all’Istituto di Psicologia di Mosca, nel Laboratorio di Neurofisiologia del CNR di Pisa e nel Laboratorio di Psicologia Sperimentale di Parigi. In considerazione della sua pluridecennale esperienza nel campo della psicologia in contesti accademici, di ricerca e di formazione, abbiamo chiesto al Prof. Mecacci di raccontarci alcune delle sue esperienza e di offrirci il suo personali punto di vista su alcuni dei più attuali temi della psicologia.
D. Professor Mecacci, la Sua ultima pubblicazione è un dizionario, il Dizionario delle scienze psicologiche,un’opera destinata alla consultazione. Da cosa è nata quest’idea?R. Anzitutto dall’esperienza di docente, maturata soprattutto negli ultimi anni, da quando ho insegnato Psicologia generale (prima avevo insegnato altre mateire) e mi sono confrontato con le giovani matricole alle quali dovevo introdurre i concetti fondamentali della psicologia, evitando equivoci sui significati dei termini relativi. Si tenga presente che una buona parte del lessico psicologico è già presente nel lessico quotidiano delle persone e che quindi occorre fare un lavoro di ridefinizione che non è facile. Così, ad esempio, tutti usano nella vita quotidiana parole come intelligenza, memoria, istinto o emozione, magari senza aver mai letto un libro o un articolo di psicologia. Quante volte mi è stato obbiettato: “No, guardi, per me emozione vuol dire...”, e così via. Naturalmente questo problema del lessico psicologico implicito, apparentemente “Ingenuo”, rimanda al tema più generale dei rapporti tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, che non è affatto un capitolo chiuso. Ritornando al dizionario, mi sono impegnato in una compilazione che non avesse un carattere enciclopedico (vale a dire lunghe trattazioni per una serie ristretta di voci), ma si caratterizzasse per il numero più ampio possibile di termini. Ho voluto includere, sempre ai fini di una rapida consultazione, anche brevi schede biografiche dei maggiori psicologi. In totale si è arrivati così a 18.000 voci. Devo aggiungere che un altro impulso a preparare questo dizionario mi è venuto dalla mia passata attività di traduttore di varie opere straniere di psicologia, riscontrando di continuo una forte disomogeneità, e qualche volta persino errori grossolani, nella resa in italiano di termini basilari. Ecco perché il dizionario contiene anche i glossari inglese, francese, russo, spagnolo e tedesco, con la finalità di costituire un riferimento specialmente per gli studenti che affrontano testi di psicologia in altre lingue.
R. Questo per me è il punto dolente della formazione in psicologia da quando sono nati i corsi di laurea in psicologia nei primi anni ’70 del secolo scorso. È un tema che ho trattato, con toni critici se non polemici, in una relazione che tenni all’Università di Bologna in onore del prof. Canestrari e che è poi stata pubblicata con il titolo “Cinquant’anni di psicologia in Italia” sul Giornale Italiano di Psicologia (n. 4 del 2012). La distinzione tra la psicologia come ricerca e la psicologia come prassi ha appunto una lunga storia che risale al primo Novecento, alle posizioni di sperimentalismo puro che assunsero alcuni dei nostri psicologi rifiutando di declinare la propria ricerca in funzione delle problematiche sociali e applicative del momento, e quando lo fecero, lo fecero in modo schizofrenico (si pensi a Musatti: da una parte lo psicologo della percezione di impostazione fenomenologica, dall’altra il terapeuta di impostazione psicoanalitica, da un’altra ancora lo psicologo del lavoro tutto test e questionari).
R. Io sarei felice se le neuroscienze, come dice lei, dessero “grandi contributi” in campo terapeutico. Se questo si realizzasse potremmo alleviare la sofferenza psichica di migliaia di persone. Parlo di ricerche che contribuiscano direttamente e efficacemente alla terapia, non solo alla conoscenza delle basi cerebrali di una determinata patologia. Però finora questi contributi non li ho visti, magari mi sono sfuggiti. Lasciamo perdere la questione teorica della distinzione epistemologica tra il livello di indagine delle neuroscienze e quello della psicologia. Fermiamoci all’osservazione che le neuroscienze non fanno altro che riportare sul terreno neuronale (dai singoli neuroni a complessi di neuroni o aree cerebrali) ciò che la psicologia ha proposto da tempo per spiegare la struttura e il funzionamento della mente. Le neuroscienze sono potenti sul piano strumentale, ma povere sul piano concettuale. Sono, mi si permetta questo neologismo, psicodipendenti.
R. Si parla dei primi anni ’90. Allora quell’Istituto aveva sede a Roma, oggi è a Torino. Va premesso che si tratta di un Istituto fondato nel 1967, e appunto facente capo alle Nazioni Unite, per sviluppare progetti transnazionali di ricerca sulla criminalità organizzata, il commercio di stupefacenti, il terrorismo, ecc. Progressivamente l’UNICRI cominciò a sviluppare anche progetti centrati sulla prevenzione dei comportamenti criminali o devianti. Così entrai a far parte di un team di esperti in varie discipline (psicologia, criminologia, sociologia, teoria della comunicazione, ecc.) che realizzò progetti di formazione e prevenzione per le forze dell’ordine e degli insegnanti in particolare nel settore della prevenzione dell’uso di stupefacenti. L’aspetto caratterizzante di questi progetti era, che si dovevano confrontare realtà socio-culturali diverse e individuare le somiglianze e le differenze nelle strategie di fronteggiamento da attuare in ciascun contesto. Io partecipai a un progetto relativo oltre che all’Italia, all’Ungheria, alla Tunisia e a Malta, visitando questi paesi, interagendo con gli psicologi, gli insegnanti e le forze dell’ordine locali. Mi mossi secondo un’impostazione storico-culturale di derivazione neovygotskijana (Vygotski, com’è noto, si pose il problema dell’integrazione psicosociale e culturale delle culture e nazionalità diverse esistenti nella nascente Unione Sovietica).
R. Non ho una competenza sufficiente nel campo dei test di personalità per potermi permettere di rispondere a questa domanda impegnativa. Quando rifletto, da storico, ai test di personalità, dai primi fino ai Big Five, non riesco a distogliermi dall’idea che essi non siano altro che una raffinata, sul piano statistico-metodologico, versione delle modalità di classificazione della personalità altrui che è già presente nella psicologia del senso comune (e che si esprime con aggettivi di uso comune, riciclati nei test standardizzati). Attenzione: questo non vuol dire sminuire il valore dei test, ma soltanto riconoscere che vi è uno zoccolo duro nella valutazione della personalità, che (potremmo dire, nei termini della psicologia evoluzionistica) è “incorporato” in ciascun individuo della specie umana ai fini della sua sopravvivenza. In genere nelle mie lezioni introducevo questo tema, richiamando le pagine iniziali del libro di Fritz Heider, Psicologia delle relazioni interpersonali, un classico del 1958, dove si parla di “psicologia del senso comune” e di “analisi ingenua dell’azione”, per far capire che tanto ingenua non può essere la psicologia che ha aiutato da millenni gli esseri umani ad interagire tra di loro, senza che essi fossero provvisti di quella scienza che si sarebbe poi chiamata “psicologia”.
R. No, per almeno un paio di motivi. Il primo è che in genere non si fa storia di eventi e persone così vicini nel tempo. Pensi come ancora non si riesca a scrivere la storia del fascismo o del comunismo senza introdurvi una interpretazione ideologica o politica legata all’oggi, peggio ancora se chi scrive ha vissuto da protagonista le relative vicende. Il secondo motivo è nelle premesse con le quali scrissi il libro che lei cita. Cercai di mostrare che non vi era stata una linearità di sviluppo della psicologia dalla fine dell’Ottocento al secondo Novecento, ma il proliferare di scuole e sottoscuole più o meno indipendenti sul piano teorico e metodologico. Questa caratteristica unica della psicologia rispetto alle altre scienze, perlomeno se anch’essa si vuole considerare una scienza, non consente di vedere un progresso, ma tanti sviluppi che magari in alcuni punti o momenti si incontrano, ma poi si ridividono. Per cogliere qualche aspetto rilevante in questo complesso intreccio occorre una prospettiva di più ampio respiro, come se mi allontanassi per cogliere i contorni di una foresta e non mi perdessi tra gli arbusti. Quindi per il quadro che lei auspica occorre almeno un'altra quindicina d’anni, quando fra l’altro dovrebbe essere più chiaro il rapporto della psicologia con le neuroscienze: o la psicologia è inghiottita da queste - ma non credo - o trova una reale autonomia epistemologica, oppure - speriamo di no - rimane nel guado.
R. Qui lei tocca due problemi distinti e che, entrambi, mi hanno sempre interessato. Il primo più generale, anch’esso rilevante sul piano epistemologico e metodologico (senza entrare nella questione dell’impoverimento della vita soggettiva nel momento in cui la si voglia incardinare in parametri quantitativi), riguarda le differenze individuali, tra soggetto e soggetto, che in una ricerca quantitativa, anche per una prestazione semplice come un tempo di reazione, sono annullate o mascherate quando sono inglobate nei valori della media e della deviazione standard. Pensi che la prima volta che andai all’Istituto di Psicologia di Mosca, nel 1972, lavorai in un laboratorio che si chiamava “Laboratorio di psicofisiologia delle differenze individuali” e nel quale si studiavano più le differenze che il comportamento medio. Quel laboratorio aveva alle spalle la tradizione della scuola pavloviana la quale aveva messo in evidenza che il riflesso condizionato era certamente un comportamento che tutti i cani alla fine acquisivano, ma con grandi differenze da una cane all’altro. Ecco perché Pavlov indicava nei suoi lavori i cani con i relativi nomi: il problema non era tanto il fondamento neuronale dell’acquisizione di un riflesso condizionato, ma perché vi erano queste notevoli differenze tra un cane e l’altro. Il secondo aspetto riguarda invece un’altra caratteristica fondamentale della psicologia: il peso della propria personalità e delle proprie esperienze di vita sulla propria professione di psicologo o psicoterapeuta. Si può ipotizzare che avere avuto un padre violento o essere omosessuale non abbia alcuna influenza sulla professione, ad esempio, di cameriere, giardiniere o ingegnere, ma qualche interrogativo la psicologia stessa ce lo pone se la professione dovesse essere quella di psicologo o psicoterapeuta. Non ci sono ricerche di rilievo che provino a sgomberare il campo della nostra professione da interrogativi del genere. Si fa finta di ignorarli o, come successe a me non tanto per quello che descrissi nella Storia della psicologia del Novecento quanto per i casi illustrati nel libro Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, si avanzano proteste che - dietro l’apparenza della difesa d’ufficio della professione - nascondono una vulnerabilità interiore che proprio lo psicologo dovrebbe avere perduto grazie al suo percorso scientifico e terapeutico.
R. Col passare degli anni, mi sono fatto l’idea che la formazione della psicologia non passa attraverso la sola acquisizione di un bagaglio di conoscenze e di pratiche, come può valere per l’ingegneria o la medicina, e forse per quasi tutti gli altri settori accademico-professionali. Certo le conoscenze e le pratiche sono fondamentali, essenziali, anche in psicologia. Però occorre qualcosa in più. Direi genericamente un tipo di personalità associata a un’esperienza di vita che non tutti le giovani matricole hanno. Non mi riferisco all’esperienza che si acquista con una psicoterapia, con l’analisi, ciò che è presupposto per divenire a sua volta un terapeuta della psiche. Mi riferisco all’orizzonte che ha fatto da sfondo allo sviluppo della propria personalità nel quotidiano confronto interpersonale. Ebbene quest’orizzonte è tanto più solido quanto più si è affinato grazie alla mediazione della letteratura, del cinema e delle arti in genere. Perlomeno dal mio punto di vista, la ricaduta sul piano professionale di questa cultura in senso lato è notevole, fa la differenza tra uno psicologo e un altro. Proprio la storia della psicologia ci insegna che gli psicologi più originali sono stati coloro che erano dotati di questo più vasto patrimonio culturale e non si affidavano alla sola psicologia per conoscere l’essere umano. Un romanzo o un film centrati sulla dinamica psichica psichica personale e interpersonale arricchiscono senz’altro il mondo interiore anche di un ingegnere o di un medico, ma per lo psicologo costituiscono un momento irrinunciabile per la riflessione e la crescita professionale.