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numero 9 - giugno 2013

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L'intervista

Intervista a Luciana d’Ambrosio Marri

Intervista a Luciana d’Ambrosio Marri

copertina EFFETTO D ok.jpg Effetto D: Se la leadership è al femminile: storie speciali di donne normali. Liberiamoci dallo stereotipo della donna-leader di successo con tailleur attillato grigio antracite e tacchi a spillo. Essere donna e insieme leader significa essere una professionista “normale”. Significa essere, cioè, una figura molto più “semplice” o più in ombra di quanto si immagini, ma di valore, cioè capace di introdurre quell’Effetto D che produce anche Valore d’impresa. Un libro utile alle persone curiose per capire meglio cosa spinge alcune donne ad accettare fatiche supplementari per raggiungere obiettivi difficili, lottando contro pregiudizi e luoghi comuni; alle giovani che ricercano modelli non convenzionali in grado di rafforzare il loro impegno quotidiano; alle donne di qualsiasi età che hanno già operato scelte di vita personale e professionale; ai direttori del personale e manager HR che si occupano anche delle politiche orientate alla valorizzazione delle differenze di genere e di diversity management.

D. Nel titolo del suo libro si parla di Effetto D. Cosa significa?

R. D come Donna e come Differenza! Il valore aggiunto di questa duplice componente “di genere” è straordinario e il mondo è ricco di prove in tal senso. Noi siamo la famosa altra metà del cielo, ma ciò non è reso visibile, non è riconosciuto, non è valorizzato. Sembrano parole d’altri tempi, ma purtroppo soprattutto in Italia sono più che attuali se guardiamo sia al mondo del lavoro, sia ai luoghi significativi di rappresentanza istituzionale, sia alla deprimente rappresentazione della donna nei media. Effetto D, riprendendo la suggestione di François Truffaut che con Effetto Notte ha reso un omaggio al cinema, vuole essere un omaggio alle donne positive e una testimonianza di ciò che è reale, non può essere ignorato o banalizzato, bensì reso con forza sempre più evidente.

Inoltre, Effetto D vuole evocare l’effetto farfalla coniato da Edward Norton Lorenz, per il quale il batter d’ali d’una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas! Infatti, è vero che anche variazioni in un determinato contesto possono provocare incredibilmente cambiamenti significativi in altri ambiti, proprio per le relazioni esponenziali dei rapporti tra causa ed effetto, appunto, in un mondo sempre più intercomunicante e globalizzato. È anche questa lettura dell’effetto che può contribuire ad alimentare la fiducia che il cambiamento con e attraverso Effetto D sia sempre più possibile e diffuso. Come, d’altronde, dimostrano le storie speciali di 8 donne normali narrate nella seconda parte, la più emozionante, del libro.

D. A volte, alla leadership femminile vengono associati modelli di femminilità incattivita che sembrano la riproduzione di modelli maschili caratterizzati da una forte componente aggressiva. Tuttavia lei fa presente che le caratteristiche per essere una leader possono anche essere altre, ce ne può parlare?

R. L’esempio di queste donne dimostra che si può diventare leader rimanendo autentiche, e rimanendo donne. Infatti il problema, tra gli altri, è anche questo che lei pone. I modelli culturali, sociali, educativi proposti nei secoli, e purtroppo anche ai giorni nostri, sono incardinati in valori culturali che vedono la donna al potere spesso imitativa di quello che secondo me è la parte peggiore del lato maschile. Mi riferisco all’adozione di quella aggressività distruttiva che vuole spesso non vincere ma schiacciare l’avversario, la controparte, che vede il potere quale esclusivo dominio in senso negativo o comunque manipolatorio, come unica forma di uso del potere, e che quindi spesso fa scivolare in atteggiamenti di arroganza, di chiusura al dialogo e all’uso del monologo urlato e autoreferenziale, insomma secondo quel codice potremmo dire primitivo che nel 2013 pare essere ancora, secondo certi modelli, sinonimo di virilità e quindi di sicurezza (ovviamente mal interpretata). Quando la donna arriva a ruoli di responsabilità in ambienti maschili, quelle rare volte, spesso è riuscita in ciò attraverso mille battaglie e rinunce: quindi tra la frustrazione, anche inconscia, rispetto a queste e l’adozione di comportamenti “adattati” negativamente a quell’ambiente - dove magari per farsi riconoscere autorevoli bisogna essere “tosti”- ecco che piano piano la donna perde alcune delle sue caratteristiche personali e si trova costretta ad assumere approcci e linguaggi “mascolini”. Quelli che in quel contesto sono sinonimo di “attributi” degni di riconoscimento pubblico di valore, e che la portano – certamente insieme a competenze tecniche di profondo e doppio spessore rispetto a quello maschile– a ricoprire ruoli di potere. Ecco quindi apparire una Crudelia De Mon, in versione attualizzata, come mostra anche la cinematografia con spunti di realtà con “Il diavolo veste Prada”, mentre - in versione politica- Margaret Thatcher prima piuttosto che Angela Merkel oggi rappresentano questo punto di vista nell’immaginario collettivo. Con il nostro libro io e Marcella Mallen, amica, e collega co-autrice, siamo andate alla ricerca di esempi positivi di leadership al femminile, quindi di figure che da una parte “ce l’hanno fatta“, o stanno riuscendo, addirittura a ricoprire ruoli di alta responsabilità finora affidati in Italia a figure maschili. E sono in questo riuscite rimanendo donne, esprimendo e adottando approcci e letture di se stesse e degli altri, nelle situazioni di vita e di lavoro, che restano legate alla propria autenticità e che anzi fanno di essa una forza motrice della propria autorevolezza: secondo un uso del potere proprio come potere di incidere, come potere della propria possibilità, come potere per costruire e dare un senso anche civico e di servizio a ciò che si fa. Questo perché riescono a canalizzare le proprie risorse, compresa l’umana aggressività, in forme sane di realizzazione e di indirizzo di sé e di coloro che gestiscono e/o guidano. Oltretutto facendo così nascere progetti e realizzando idee, superando emergenze e difficoltà con straordinario Effetto e risultati di eccellenza. Stavolta, però finalmente riconosciuta, anche se con molta fatica.

D. Quando si parla di leadership, si fa molto spesso riferimento a degli stili; la leadership femminile di cui lei parla nel libro viene inquadrata all’interno della letteratura sugli stili di leadership oppure vengono proposte anche chiavi di lettura diverse?

R. La novità del libro è anche qui. Nel senso che siamo volute uscire dai modelli che io stessa uso in aule di formazione manageriale per richiamare chiavi di lettura per l’inquadramento di forme di leadership che hanno ovviamente il loro riscontro nella realtà e che sono state formulazioni di studiosi psicosociali e di psicologia organizzativa: i modelli, oltre che validi, sono molto utili anche per questo. Tali richiami proprio per tali ragioni tendono però a “stringere”, a ridurre cioè i tratti attraverso cui la manifestazione della leadership positiva è riconoscibile. Quindi con Effetto D andiamo oltre i modelli, andiamo a vedere come la leadership di donne normali si manifesta nella realtà del quotidiano alle prese con la ricerca ambiziosa di crescere in ambienti organizzativi ostili o non facilitanti il raggiungimento di traguardi, realizzazione di passioni, acquisizione di riconoscimento e autorevolezza forte. E in ambienti dove a ciò non si abituati verso le donne. Ecco quindi il valore di nuovi tratti di leadership, anche nei nuovi vocaboli da noi autrici coniati per indicarli, identificati attraverso la conoscenza, l’ascolto della storia di queste otto donne e attraverso la nostra esperienza umana e professionale di più di vent’anni, indicano che altre strade sono possibili, che si può imparare dagli esempi, che gli otto tratti di leadership da noi identificati sono innovativi, e non riecheggiano mode culturali ma sono impregnati di vita nella realtà e, proprio per questo ancora più credibili e fonte di apprendimento per tutti, donne e uomini. Perché saper imparare come adulti dalla realtà e dalle esperienze altrui non è una questione di genere! Comprendere le caratteristiche, le funzionalità della leadership civica, piuttosto che della leadership migrante, di quella volitiva piuttosto che immaginifica, sperimentale piuttosto che interpretativa, della leadership consapevole o quella dell’impossibile e i terreni organizzativi dove si esprimono e si mostrano più adeguate, aiuta a dare spazio e fiato a molte parti di sé e nella gestione della relazione con gli altri. Come mostrano le otto donne da cui abbiamo imparato queste nuove forme di leadership.

D. Secondo lei da parte della classe dirigente (ma non solo) maschile, le donne sono percepite come una minaccia?

R. Le donne fanno ancora paura, purtroppo! Una volta erano le streghe, ma oggi a fare paura sono le donne anche se non sono aggressive, perché più frequentemente di prima e in numero maggiore escono dagli schemi, escono dal prevedibile, escono da ciò che le imbriglia. Escono, lavorano, studiano anche le discipline scientifiche con ottimi risultati, navigano in rete, parlano delle emozioni alla luce del sole, fanno le rivoluzioni di primavera, lasciano il partner se non ce la fanno più dopo processi di scelta difficili e spesso dolorosi, e in molti questo fanno fatica ad accettarlo. Basta vedere il fenomeno del femminicidio, parola orribile ma mai quanto l’atto che descrive: in Italia, l’uomo fa ancora fatica a riconoscere che la donna è persona, è altra da sé, ha diritto di scelta, non solo di obblighi, e quindi la donna rischia di pagare anche con la vita - e non nel medioevo - il coraggio di voler cambiare, e chiudere una relazione, come ci indica l’altro fenomeno dello stalking. Con ciò non voglio dire che le donne siano esenti da atti omicidi o persecutori nei confronti degli uomini o in alcuni casi dei figli, ma i numeri parlano da soli. Basti pensare che a febbraio 2013 sono più di cento le donne uccise dall’inizio dell’anno e che ancora non esiste in Italia un osservatorio nazionale sul femminicidio, che pare colpisca una donna ogni 3 giorni. È pazzesco, uccise dai loro partner o ex partner! Le donne fanno paura anche se non lasciano qualcuno: infatti, se pensiamo al mondo del lavoro, ai ruoli apicali, e se in Italia la meritocrazia non fosse solo una bella parola ma realtà, allora non ci sarebbe bisogno delle quote rosa, meglio chiamate quote di genere (che comunque per ora riguarda solo le società quotate in borsa, vedi la legge Golfo-Mosca del 2012), perché le donne negli studi e in alcune capacità gestionali ottengono migliori risultati nella vita e nel lavoro, ma nei ruoli di comando e ovunque si guardi in Italia continuano e esserci quasi solo uomini. Quindi le quote sono un frustrante e triste ma necessario ripiego, e rappresentano di fatto il male minore.

D. Le statistiche internazionali indicano che le donne hanno un rendimento accademico migliore (non solo nelle discipline umanistiche), più capacità di ascolto e ottengono punteggi significativamente più elevati nei test di intelligenza emotiva; queste sono tutte caratteristiche importanti per le organizzazioni. Si potrebbe quindi dire che investire sulle donne possa essere conveniente per le aziende?

R. Valorizzare le donne fa bene e conviene, è proprio un paragrafo di Effetto D. Nei parlamenti dove le donne sono fortemente presenti, la corruzione di quegli stati è minore, le aziende guidate dalle donne entrano meno facilmente in crisi, se vanno in difficoltà sono più reattive, e comunque producono migliori risultati economici. Il fatto è che le donne hanno in generale il pregio e il difetto di essere perfezioniste (quindi quando studiano sanno e vogliono essere più che preparate, sanno che soprattutto la competenza acquisita sarà il proprio cavallo di battaglia per fare strada anche solo per farsi assumere), sono poi portatrici di prospettive, di chiavi di lettura e soluzione dei problemi che ampliano il valore aggiunto del processo decisionale di un team, a maggior ragione in quelli di media e alta direzione nelle imprese. Quindi, investire sulle donne e sul loro sviluppo professionale orizzontale e verticale nelle organizzazioni è un vantaggio per il profitto e per l’etica.

E in tempi in cui la crisi è più che viva, il bisogno di etica è notevole sia nella gestione della finanza, sia nella gestione della cosa pubblica, ma non solo in questa: le donne possono dare un forte contributo al rinnovamento della società e del mondo aziendale. Inoltre, secondo proiezioni di Banca d’Italia, se il tasso di occupazione femminile passasse dall’attuale 46% al 60% (obiettivo previsto per il 2010 dal trattato di Lisbona e evidentemente fallito in Italia! - la media Europea è 62%) il PIL aumenterebbe del 9%. Ancora una volta i numeri ci danno ragione. E per favorire questo dobbiamo ricoprire ruoli apicali, quelli dove si decide. Il passare del tempo, da solo, non risolve il problema.

D. Quando una donna investe sul proprio lavoro deve spesso fare i conti con le aspettative sociali che la vedono (in modo non dichiarato ma radicato) impegnata in prima persona nella gestione della vita privata mentre gli uomini fanno carriera. Andare contro queste aspettative sociali può generare senso di colpa, anche perché talvolta la sicurezza di sé e l’autostima vengono confuse con la presunzione. È d’accordo? Se è d’accordo cosa potrebbe essere fatto per interrompere questa dinamica?

R. Crisi a parte, fare carriera per gli uomini è normale, invece per le donne è una scelta e spesso è una scelta complicata e faticosa. E vorrei rispondere su due piani. Quello sociale e quello del sentire femminile. Partendo dal primo, le ricerche indicano – ma basterebbe guardare la vita di tantissime donne per averne la prova – che la donna che lavora mantiene sulle sue spalle la responsabilità di sovraccarico familiare per tutto ciò che riguarda la gestione e la cura diretta e indiretta di figli, genitori, eventuali suoceri ecc. Infatti sono scarse e deboli le politiche di conciliazione e la diffusione sul terreno nazionale dell’area dei servizi dello Stato su questo fronte; a ciò si accompagna il fatto che l’organizzazione del lavoro nella maggior parte delle imprese (anche se all’estero da tempo ciò è più raro e in Italia alcune aziende si muovono in modo differente) è di fatto basata su una logica maschile: basta vedere – rispetto all’uso del tempo – la pessima abitudine di indire le riunioni in azienda nel tardo pomeriggio, proprio quando ciò coincide con orari di vita dei figli che necessitano di presenza familiare. E qui il telelavoro e la canonica flessibilità non bastano, il part time penalizza di fatto la carriera, e finché la gestione dei figli e del resto viene vista dallo Stato come un problema delle donne – purtroppo anche da molte donne – e non come una questione di genitorialità, difficilmente se ne esce. Inoltre è necessario ri-negoziare i ruoli nella coppia, anche se le nuove generazioni hanno meno difficoltà da questo punto di vista. E veniamo al secondo piano rispetto alla sua domanda. Stante il quadro sopra descritto, le aspettative sociali verso il ruolo giocato dalle donne sono pesanti e praticamente quasi a senso unico: il dettato/mandato resta quello di pensare alla famiglia e se si lavora non si può tradire comunque tale aspettativa. Infatti, dopo il secondo figlio la maggior parte delle donne lascia definitivamente il posto di lavoro. Il peso di tali aspettative, che hanno origini antiche, ha un ruolo rilevante nel sentire femminile perché ci si viene a trovare, inconsciamente o meno, di fronte al dilemma di dover scegliere tra la maternità e la legittima aspirazione non solo a lavorare, ma a fare il lavoro per il quale si è studiato, a crescere professionalmente, a rispondere al desiderio di realizzarsi non solo come madre – nell’eventualità ciò si desideri – ma anche come donna che ha una passione, un progetto, un’ambizione professionale e di responsabilità sul lavoro.

Questo per la donna è al fondo lacerante, perché la scelta che poi fa comunque la porta ad essere o una brava mamma, moglie/compagna, ma frustrata per la rinuncia alla realizzazione professionale, o una donna che “tradisce” aspettative antiche sul proprio ruolo materno e si da alla carriera, rinunciando alla maternità e alla cura (ecco il rischio di autopercezione di essere cattiva in tandem al senso di colpa). Quindi, sentirsi in colpa è la conseguenza della dinamica di tali aspettative sociali e interiori, perché qualsiasi sia la scelta, posta così in termini assoluti, si perde una parte di sé, ciò pesa anche in termini di riconoscimento sociale, e l’autostima crolla. Se poi si sceglie la terza via, tentando di conciliare maternità e carriera, il rischio di venire percepita presuntuosa e mascolina perché troppo determinata, è sempre alle porte. Ed ecco il vortice di essere allora sempre all’altezza, lavorando e studiando il triplo, e sentirsi sempre comunque inadeguata, non all’altezza, perché – tra l’altro – non perfetta… E talvolta ci si autoesclude, proprio per l’impossibilità di questa rincorsa senza vedere altre vie di uscita dal dilemma.

D. Quando si parla di come avere successo, molto spesso ci si focalizza sui comportamenti più desiderabili da mettere in atto per aumentare le probabilità di riuscita, perdendo però di vista il ruolo del contatto con se stessi e dell’autenticità. Si può avere successo senza incorrere in questo rischio?

Per evitare i rischi e i boomerang – comunque sempre in agguato – che incalzano i tentativi della donna di “avere successo” è fondamentale non perdere l’autenticità. Questa è una parola chiave anche delle donne narrate in Effetto D, è il filo che collega le loro storie, insieme ad altri elementi che aiutano le possibilità di riuscita rimanendo se stesse. Certo, anche questo ha i suoi costi, ma il punto di svolta per affrontarli in modo costruttivo è chiedersi non tanto “ce la farò?” quanto “ne vale la pena?” e ascoltare se stesse. Infatti energia, passione, tenacia, senza dimenticare la cura della competenza, sono fattori determinanti che alimentano il senso della propria direzione scelta grazie al fatto che, soprattutto, dobbiamo credere al nostro valore, imparare a farlo a prescindere dall’immediato riconoscimento che ci può venire all’altro, e che proprio per questo dobbiamo darci la possibilità, non solo chiederla. Penso che questa sia una strada che, al di là dell’età, aiuta a sviluppare forza e credibilità, rimanendo esseri umani, tre fattori questi che nutrono l’Effetto D che noi donne siamo capaci di sviluppare e produrre (anche se naturalmente, ci sono sempre eccezioni…!) e che potrebbe migliorare se dialogo e apprendimento tra i generi fossero più praticati. Oltre steccati e stereotipi reciproci.