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numero 25 - marzo 2015

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L'intervista

Intervista a Laura Parolin

Intervista a Laura Parolin

L’utilizzo dei test proiettivi è una questione sempre molto dibattuta tra i professionisti che si occupano di diagnosi psicologica. Spesso si osservano posizioni molto contrapposte in proposito: da un lato quelli che credono fermamente nella capacità informativa di questi strumenti e dall’altro chi, con altrettante enfasi, ne svaluta l’utilizzo in favore di metodologie quantitative considerate più solide e “verificabili”. La questione è sicuramente molto più complessa di così, per questo abbiamo chiesto alla Prof.ssa Laura Parolin, esperta ed utilizzatrice di strumenti proiettivi, di aiutarci a chiarire alcune questioni, in modo che il dibattito possa ripartire, ma che abbia alle base alcuni punti fermi.

D. L’uso dei test proiettivi di tipo narrativo con soggetti in età evolutiva, non potrebbe essere influenzato dal fatto che i bambini sono per natura molto spesso esposti a narrazioni da parte degli adulti? Il loro racconto non potrebbe evidenziare degli aspetti che effettivamente non sono caratteristici del loro funzionamento?

R. Prima di rispondere alla domanda mi piacerebbe proporre una precisazione sull’etichetta test proiettivo. Da molti anni la comunità scientifica nazionale e internazionale è giunta a riformulare questo gruppo di strumenti in termini di performance based personality test. Questo cambiamento non è solo linguistico, ma sottende un cambiamento di concettualizzazione del significato del processo psicologico alla base delle risposte. Più nello specifico, attualmente non si ritiene il meccanismo proiettivo come l’unico processo e neanche necessariamente come quello principale. I soggetti posti di fronte agli stimoli, infatti, attivano principalmente un processo cognitivo che si accompagna a quello associativo. Nel momento in cui si associa un contenuto percettivamente definito ad altri memorizzati, si può attivare la proiezione, intesa come una lettura personalizzata e soggettiva in cui la dimensione interna prevale e/o incide significativamente sulla realtà esterna percepita.
I bambini, come gli adulti del resto, sono continuamente esposti a diversi input provenienti dalla vita quotidiana: narrazioni di storie, film, letture di libri… capita spesso che i pazienti che affrontano test, soprattutto di tipo narrativo, associno agli stimoli proposti, contenuti con cui sono entrati in contatto attraverso questi canali. Tuttavia, nel setting di valutazione testale è possibile che l’associazione con contenuti di provenienza non esclusivamente endogena, veicoli dei significati che il paziente comunica poiché elicitato dallo specifico stimolo proposto. Inoltre, appare per noi importante non solo il contenuto esposto dal paziente, ma la valutazione di come viene ri-narrato e quinti interiorizzato ed espresso. Nel corso di una somministrazione testale, anche un contenuto popolare, come potrebbe essere la storia di Cappuccetto Rosso o del Signore degli Anelli, potrebbe essere narrato focalizzandosi solo su alcuni passaggi della storia, o non concludendone la trama, o ancora in modo assolutamente distante dalla fiaba originale. Il rimaneggiamento interiore di questi contenuti, in qualsiasi forma si presentino, ci dà delle informazioni circa il funzionamento e le rappresentazioni interne del paziente, di importanza clinica pari ad altri tipi di risposte.

D. Come si approcciano gli adulti a un test proiettivo? C’è resistenza o in qualche modo lo stereotipo dello psicologo fa sì che test di questo tipo rientrino nelle normali aspettative di un paziente?

R. L’approccio dei pazienti a un test è certamente connesso alla disposizione soggettiva di ognuno di essi: ci sono persone che accolgono con curiosità questo tipo di lavoro, altri con particolare ansia e preoccupazione, altri ancora con opposizione e resistenza difensiva al compito proposto. Anche l’ambito in cui si colloca il processo di assessment è rilevante in questo senso. In ambito clinico, in cui il paziente chiede di comprendere e lavorare sulle proprie difficoltà, potrebbe essere più motivato e disponibile al compito proposto; in ambito giuridico-forense, in cui la valutazione concorre a definire la presa di decisioni di un tribunale, è più spesso vissuto con timore e diffidenza. Lo psicologo è chiamato ad accogliere il paziente e a accompagnarlo al test che propone, cercando di costruire un’alleanza diagnostica anche nel contesto relazionale più faticoso.
Da un punto di vista clinico è centrale potere osservare la reazione che i soggetti hanno di fronte alla presentazione degli stimoli. Anzi, in questo senso le modalità di somministrazione standard favoriscono un’osservazione in cui si lascia il setting invariato e il clinico in un assetto il più neutrale possibile, in modo da valutare le reazioni soggettive dei pazienti.  La difficoltà sta proprio nella capacità di osservare queste differenze in modo da riuscire a dare un significato clinico che renda conto dell’ unicità  di ogni paziente. È fondamentale che nei training o nelle supervisioni sui casi i clinici vengano aiutati a sviluppare anche queste competenze in parallelo alle capacità tecniche.

D. È possibile manipolare le risposte ad un test proiettivo in modo coerente, tanto da ottenere un profilo alterato, che non desti sospetti da parte di un esaminatore esperto?

R. La ricerca che si occupa degli strumenti psicodiagnostici ha, nel tempo, strutturato strumenti sempre più sofisticati e sensibili, anche nel rilevare gli aspetti difensivi dei pazienti. Diversi test ‒ non solo il Test di Rorschach con il Sistema Comprensivo di Exner ‒ utilizzati nella pratica clinica e forense hanno la possibilità di individuare alterazioni nello stile delle risposte che possono essere connesse a diverse modalità strumentali di gestione del compito: ora a migliorare l’immagine di sé, ora a peggiorarla, ora a rispondere casualmente. L’analisi delle risposte prodotte al test prevede un iter complesso e dettagliato, che spesso si compone di una fase di codifica, di costruzione di indici e profili di scoring, che precede quella di interpretazione. Quanto descritto rende assai complicato alterare le risultanze di una valutazione, senza che lo psicologo abbia la possibilità di rilevarlo.

D. È possibile utilizzare correttamente un test proiettivo basandosi sulle informazioni fornite dal manuale e dalla letteratura, senza condurre una formazione specifica?

R. I test, soprattutto di stampo proiettivo, sono strumenti di grande complessità. Maneggiarne la somministrazione e le fasi successivi di analisi e interpretazione, senza un adeguato training e addestramento allo strumento può rendere invalide le prove e condurre lo psicologo a giungere a conclusioni fuorvianti. Il lavoro psicodiagnostico è una fase di grande importanza clinica che deve essere accompagnata ad una competenza tecnica specifica. È necessario, quindi, che lo psicologo sia preparato da una formazione professionale, che coniughi gli aspetti tecnici e quelli clinici, in questo campo. Spiace che in Italia queste considerazioni non trovino riscontro in una normativa professionale che possa aiutare a disciplinare la formazione e l’utilizzo degli strumenti psicodiagnostici.

D. A proposito dei sistemi di siglatura nel reattivo di Rorschach. In Italia va “di moda” integrare sistemi diversi. Secondo lei ha senso bilanciare le mancanze di un sistema di siglatura con indicazioni prese da altri sistemi o è meglio imparare bene un metodo e utilizzare quello?

R. Hermann Rorschach, l’ideatore del test, ha interrotto le ricerche a completamento della strutturazione del metodo di utilizzo dello stesso, a causa della sua prematura morte nel 1922. Tale vuoto ha lasciato spazio a filoni di studiosi che si sono impegnati nel costituire diverse sistematizzazioni dello strumento, che si sono, a loro volta, sviluppate in altrettante scuole metodologiche. Ogni sistema di utilizzo del Test di Rorschach comprende, in realtà, precise indicazioni per la somministrazione, codifica e interpretazione del test, che devono essere rigorosamente osservate per garantirne un utilizzo corretto. John Exner nel 1968, ha sviluppato una metodologia che si è costituita attraverso l’integrazione delle cinque principali scuole Rorschach (Klopfer, Piotrowski, Rapaport, Beck e Hertz, Schafer), frutto di un lavoro di ricerca durato circa vent’anni. Lo studio dei cinque metodi ha sviluppato, nel 1986, un unico metodo, il Sistema Comprensivo di Exner, sistematizzazione riconosciuta dalla comunità scientifica. La solidità psicometrica e clinica del lavoro di Exner, oltre che la forza insita nello sforzo di integrazione e validazione dei metodi precedenti, oggi lo rende metodo più riconosciuto e attendibile che abbiamo a disposizione.  Questo approccio all’integrazione mi sembra fondato e professionalmente utile. Nel caso in cui, invece, si intenda una “casereccia”  integrazione tra metodi e approcci diversi, mi sentirei caldamente di sconsigliare questo modo di procedere. Il rischio potrebbe essere quello di violare le procedure standard e di giungere ad affermazioni interpretative poco fondate o molto discutibili.

D. Il Thematic Apperception Test (TAT) e il test di Rorschach, due grandi test proiettivi. Quando, secondo lei, è meglio scegliere uno e quando l’altro?

R. La letteratura e la pratica clinica indicano come sia necessario, per una valutazione clinica esaustiva e per la costruzione di una formulazione del caso il più completa e articolata possibile, l’utilizzo di un approccio all’assessment multi-method. In questo senso, è necessario prevedere l’utilizzo di più strumenti psicodiagnostici, che permette di cogliere aspetti diversi, ma complementari del funzionamento del paziente. L’impiego di un solo strumento per la valutazione non permette acquisire sufficienti dati per fornire indicazioni diagnostiche fondate. La scelta degli strumenti da utilizzare è quindi delicata e da vagliare in base alla validità del singolo test, ma anche al tipo di risposte che può fornire ogni strumento scelto, in un’ottica di interazione dei dati.