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numero 51 - ottobre 2017

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L'intervista

Intervista a Giuseppe Cossu

Intervista a Giuseppe Cossu

Negli ultimi anni, i disturbi dello sviluppo psicomotorio hanno acquisito una maggiore attenzione clinica rispetto al passato. Le acquisizioni della ricerca neuroscientifica, infatti, stanno rivelando come e quanto il sistema motorio sia al centro dello sviluppo cognitivo. Ne parliamo col prof. Giuseppe Cossu, che sta proprio terminando di mettere a punto un test per la valutazione delle aprassie in età evolutiva (TNA).

D. Lo sviluppo psicomotorio sembra aver gradualmente conquistato una sempre maggiore considerazione nel panorama delle preoccupazioni cliniche. Ci sono delle ragioni specifiche che spiegano questa evoluzione, secondo lei?

R. Il sistema motorio rappresenta lo strumento primario di interazione tra ogni essere vivente e il proprio ambiente e questo vale lungo tutta la scala filogenetica, sino alla specie umana. Ma il sistema motorio non è soltanto uno strumento per agire sulla realtà circostante, esso costituisce una componente primaria dello sviluppo cognitivo e, come dimostrano le acquisizioni più recenti, il sistema neurofunzionale che governa i processi relazionali e l’empatia. Per tali ragioni l’attenzione clinica verso i deficit del sistema motorio è venuta assumendo una così grande rilevanza nell’analisi (e negli interventi riabilitativi) su condizioni cliniche così diverse come le gravi disabilità cognitive o i disturbi dello spettro autistico. Per tacere dei disordini specifici del controllo della motricità e della programmazione delle azioni (delle prassie), che si manifestano in un contesto neurologico all’apparenza indenne. In realtà è bene ricordare che le aprassie nel bambino sono dei deficit neurologici, pur se di una componente neurologica del sistema motorio estremamente sofisticata. Tutte queste ragioni hanno collocato i disordini della motricità e delle prassie al centro della scena clinica e anche della ricerca scientifica internazionale.    

D. Parte di questa maggiore attenzione è riconducibile alla generale attenzione per la diagnosi precoce che avviene a una età in cui è molto complicato fare una diagnosi differenziale? Oppure, più semplicemente, il basso livello di attività motoria dei bambini di oggi aggrava quadri che invece anni fa si sarebbero compensati con una normale attività ludica?

R. Oggi, una diagnosi precoce di danno motorio può oggi essere posta con precisione, poiché attraverso l’esame dei general movements è possibile determinare con un alto livello di accuratezza quale sia il repertorio motorio del neonato e la qualità di utilizzo del repertorio presente.

Non esiste alcun nesso tra basso livello di attività motoria e disprassia e questa tesi non è sostenibile perché il controllo della cosiddetta “grossa motricità” è modulato, infatti, da sistemi neurofunzionali distinti rispetto a quelli che controllano i programmi dell’azione intenzionale. 

D. Quanto incide lo sviluppo motorio sullo sviluppo cognitivo?

R. Lo sviluppo cognitivo è strettamente connesso all’organizzazione del sistema motorio, perché è la motricità che governa l’organizzazione dei fondamenti del sistema cognitivo. Attraverso la manipolazione degli oggetti e l’esplorazione dello spazio il bambino costruisce la propria rappresentazione dell’universo circostante. Tuttavia, il nesso tra motricità e cognitività è assai più sofisticato e complesso. Infatti, per fare un esempio, l’assenza di movimento (come si osserva in molti quadri di paralisi cerebrale infantile) non implica in modo automatico un equivalente deficit cognitivo.

D. Lei è notoriamente contrario alle etichette diagnostiche, però è indubbio che la disprassia sia uno tra i disturbi che colleziona più varianti. Ci aiuta a fare un po’ di chiarezza?

R. L’avverbio che lei usa non mi pone certo in buona luce né induce alla benevolenza nei confronti delle mie idee scientifiche. Io non ho alcuna contrarietà nei confronti delle etichette diagnostiche perché esse hanno un valore pratico e anche amministrativo (per i costi del sistema sanitario) e sospetto che certa acrimonia nel dibattito nasca in realtà, spesso, da una certa pigrizia concettuale. Perché il ragionamento sulle etichette diagnostiche richiede una preliminare chiarificazione: Il danno biologico documentato nelle varie malattie (su base genetica, o acquisita) specifica un livello del danno, ma non può precisare il fenotipo clinico, cioè le reali caratteristiche del quadro clinico; non può farlo per ragioni connesse alla natura dell’oggetto d’indagine e perché la distanza tra danno organico e sintomatologia neurocognitiva è troppo ampia per essere contenuta entro un unico schema nosografico (le etichette diagnostiche, appunto). Individuare la presenza di deficit prassici anche nei bambini con ritardo cognitivo, o con disordini dello spettro autistico, ci autorizza a dire che questi bambini hanno una disprassia? La questione che io pongo è molto semplice. Chiunque abbia un minimo di esperienza clinica sa benissimo che l’etichetta nosografica, anche quando è correttamente posta, racchiude in realtà una congerie eterogenea di quadri clinici con profili funzionali profondamente diversi. E sa altrettanto bene che ogni serio programma di riabilitazione non può che fondarsi sulla ricognizione del profilo neurofunzionale di ciascun bambino. La mia attenzione di clinico è stata costantemente rivolta a decifrare la struttura del sintomo e la natura dei meccanismi che lo sottendono, perché è proprio dalla precisione di queste operazioni diagnostiche che dipende la possibilità di approntare un produttivo programma di riabilitazione. L’aprassia nel bambino è una sola, ma essa si esprime in quadri clinici assai eterogenei e per tale ragione il perno dell’analisi clinica non può a mio avviso essere l’elenco dei sintomi che contornano il deficit prassico, bensì la sua analisi strutturale. Questo approccio comporta un radicale cambio di paradigma nell’analisi clinica, perché esso pone al centro non la ricognizione dei sintomi che non ci devono essere (per porre la diagnosi di disprassia, non devono esserci disturbi della relazione, né deficit linguistici, né disturbi dell’attenzione, né deficit cognitivi, ecc.), ma la scomposizione funzionale delle diverse facoltà (linguistica, cognitiva, emotiva e relazionale), cioè l’analisi delle diverse componenti strutturali di ogni singola funzione.

Ecco, le mie perplessità sulle etichette nosografiche nascono da qui: dal fatto che un approccio meramente nosografico ha lo scopo di porre il bambino entro una certa casella; quella della scomposizione funzionale pone al centro ogni singola funzione neurocognitiva e quindi il progetto di riabilitazione del bambino.

D. Il termine disprassia indica una compromissione di tutte le componenti del sistema motorio? O possono essere compromesse solo alcune componenti?

R. Nella definizione classica delle aprassie Hugo Liepmann distingue nettamente, come una componente essenziale di questo disordine neurologico, il deficit motorio in senso stretto dal deficit di organizzazione dell’azione. Clinicamente egli pone la necessità di documentare che il disordine di programmazione e di esecuzione dell’azione non sia primariamente determinato dall’alterato controllo del movimento. L’analisi di un modello neurofunzionale dell’azione dimostra che questa si articola in una complessa struttura gerarchica nella quale sottocomponenti diverse sono funzionalmente interconnesse e la compromissione di una qualsiasi di tali componenti altera l’organizzazione delle prassie. Ma la qualità del deficit, anche di deficit apparentemente simili (cioè la struttura interna del sintomo), può essere profondamente diversa e richiedere interventi riabilitativi molto diversi.  

D. La disprassia è un ambito che anziché favorire la collaborazione multidisciplinare sembra fatta apposta per creare steccati tra terapisti, proprio per le molte aree di sovrapposizione. Quale potrebbe essere una soluzione?

R. Il problema non è certo la disprassia (o le sue molteplici etichette nosografiche) e neppure un ipotetico conflitto tra neuropsicomotricisti e logopedisti; il cuore del problema risiede nelle gravissime limitazioni del percorso formativo, nell’incapacità dei percorsi di laurea di fornire agli specialisti  una conoscenza adeguata alla complessità dell’oggetto di studio: cioè alla complessità dell’architettura e dei meccanismi di funzionamento del sistema motorio e delle interfacce tra questo e i sistemi cognitivo e affettivo-relazionale.

D. Una delle componenti cardine dell’intersoggettività è la decifrazione delle intenzioni dell’interlocutore (ovvero la comprensione visiva del gesto): che rilevanza ha il danno motorio in un quadro di disturbo pervasivo dello sviluppo?

R. Dipende da quale componente risulti compromessa all’interno del sistema motorio. Se il danno motorio compromette le componenti più “periferiche” del sistema, rendendo ad esempio impossibile la realizzazione del movimento, allora il danno motorio non interferisce nella regolazione dell’intersoggettività. Se invece il danno motorio dovesse compromettere le componenti più “alte” che governano i processi di risonanza motoria (del circuito parieto-premotorio), allora la difficoltà a decifrare la semantica del gesto si traduce nell’impossibilità di comprendere le intenzioni comunicative dell’interlocutore. Nei bambini con disturbo pervasivo dello sviluppo pertanto abbiamo un danno di questa componente del sistema motorio.

D. L’imitazione motoria è alla base dello sviluppo tipico del bambino, e la mancanza di imitazione è una delle caratteristiche discriminative dello spettro autistico. Dal punto di vista dello sviluppo neurofunzionale, queste attività dovrebbero essere differenziate da bambino a bambino? Se sì, nella sua esperienza, è una differenziazione che viene fatta?

R. L’imitazione motoria è una competenza fondamentale nello sviluppo motorio e cognitivo del bambino. Poiché esiste un meccanismo neurale unitario che governa sia la decifrazione del gesto che la sua riproduzione, non appare sorprendente che nei bambini con disturbo dello spettro autistico sia presente, accanto alla difficoltà a decifrare le intenzioni comunicative dell’interlocutore, anche una importante difficoltà a imitare i gesti osservati. Il processo di imitazione ha una propria organizzazione gerarchica, pertanto le attività proposte devono essere differenziate e mirate a individuare quale componente dell’imitazione sia compromessa. Nella mia personale esperienza clinica riscontro che tale differenziazione raramente (o quasi mai) viene presa in considerazione, pur essendo fondamentale individuare quali siano le componenti funzionali integre e quali quelle alterate.

D. Vista l’importanza dell’aspetto motorio nello sviluppo globale, uno strumento come le nuove Griffiths III, dà informazioni sufficienti o c’è bisogno comunque di strumenti più fini per porre diagnosi di disprassia?

R. Il test della Griffiths è uno degli strumenti storici dell’indagine motoria e tra i più collaudati nell’esperienza clinica. L’approccio di questo strumento semeiotico, tuttavia, è primariamente finalizzato a quantificare l’entità del danno motorio, a determinare l’entità della discrepanza tra le risposte del bambino e quelle fornite dal campione di controllo della medesima età. Per esaminare in modo più analitico le diverse componenti dell’azione è necessario disporre di strumenti che scompongano in modo selettivo le diverse componenti del sistema prassico.  

D. E per l’età scolare invece? Ritiene che la valutazione motoria sia sufficientemente tenuta in considerazione nell’oceano di diagnosi di disturbo dell’apprendimento? Ovvero esiste correlazione tra disgrafia e disturbo di apprendimento?

R. La funzione motoria viene spesso valutata nella diagnostica dei disturbi dell’apprendimento, ma stabilire le relazioni funzionali tra deficit della fine motricità e disgrafia è tutt’altro che semplice, specie considerando che spesso le difficoltà nel costruire e memorizzare un repertorio di atti motori automatizzati per il controllo della scrittura è amplificato dai deficit nei processi di cifratura ortografica. Per tale ragione sarebbe opportuno valutare separatamente i processi di scrittura, lettura e grafia.