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numero 3 - dicembre 2012

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L'intervista

Intervista a Giulia Balboni

Intervista a Giulia Balboni

Negli anni 2009-2011 lo Standing Committee on Tests and Testing (ora Board of Assessment) dell’EFPA (European Federation of Psychological Association)  in collaborazione con l’ITC (International Test Commission) ha promosso un’indagine per rilevare l’atteggiamento degli psicologi nei confronti dei test psicologici.
Hanno partecipato 29 paesi europei (Austria, Belgio-Fiandre, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Norvegia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia, Ungheria) e, in misura minore, di altri continenti (Brasile, Cina, Indonesia, Israele, Libano, Nigeria e Nuova Zelanda).
Il questionario, messo a punto dai responsabili dell’indagine Arne Evers (Università di Amsterdam, Olanda), José Muñiz (Università di Oviedo, Spagna), Dave Bartram (SHL Group, Regno Unito) e Dragos Iliescu (Università di Babes-Bolyai, Romania), è stato tradotto in italiano da Giulia Balboni (Università di Pisa) e Alessandra Coscarelli (Università della Valle d’Aosta). La traduzione è stata fatta in accordo con la guida dell’ITC
e con la collaborazione di Arne Evers. Chiarezza e inequivocabilità degli item e delle istruzioni della versione italiana sono state indagate con un field test a sei psicologi di diversa età, genere e area di specializzazione. Tramite analisi fattoriale, è emerso che il questionario è formato da cinque scale, che indagano il grado di apprezzamento dei test psicologici e di soddisfazione rispetto alla formazione ricevuta al loro utilizzo, le opinioni verso le regole vigenti nell’acquisto e uso dei test e verso l’internet testing, nonché la frequenza con cui determinati problemi nell’impiego dei test si verificano nell’ambito del proprio settore di specializzazione (ad es., fotocopiare materiale protetto da copyright, non confrontare le proprie interpretazioni di punteggi con colleghi, non limitare la somministrazione di test a personale qualificato, non aggiornarsi e non considerare l’effetto dell’errore di misura nella valutazione dei punteggi ponderati).
Il Consiglio dell’Ordine Nazionale degli Psicologi (CNOP) 
ha facilitato il reclutamento dei partecipanti, invitando a rispondere alla versione online del questionario i 25.000 membri registrati al proprio sito (ca. il 30% degli iscritti all’Ordine). Sopra ogni aspettativa, 5314 psicologi italiani hanno partecipato all’indagine. Come le maggior parte degli psicologi iscritti all’Albo, i partecipanti erano in maggioranza donne (80%), dai 30 ai 50 anni di età (67%), professionisti nell’ambito della psicologia clinica e della salute (72%).
Dei risultati ne parliamo con Giulia Balboni, che ha coordinato l’indagine e ne ha curato l’analisi dei dati.

D. Analizzando i risultati dell’indagine, qual è l’idea che si fatta dell’atteggiamento degli psicologi italiani, nel loro complesso, verso i test? li utilizzano? Troppo, troppo poco?

Con molto piacere ho constatato che gli psicologi italiani usano i test: il 78% degli intervistati (pari a 3886 psicologi) ha dichiarato di utilizzarne almeno uno nello svolgimento della propria professione. Inoltre, dall’analisi dei punteggi medi ottenuti nelle scale del questionario, emerge che hanno un atteggiamento maturo, contraddistinto dalla consapevolezza dell’utilità di questi strumenti, ma anche dal riconoscimento della necessità di un’adeguata formazione e di regole severe per il loro acquisto e utilizzo. Sembra che gli psicologi italiani abbiano compreso appieno che i test possono aiutarli nello svolgimento della loro professione, qualora siano scelti e usati in modo critico, rispettando le regole del testing. Credo che questo sia il risultato complessivo più rilevante ed è indubbiamente un risultato positivo.

D. Secondo lei la classificazione APA in tre categorie di qualificazione all’utilizzo dei test è ancora attuale? Quanto soddisfa le particolarità del contesto italiano, se ve ne sono, e come questa classificazione è percepita dagli psicologi del nostro paese?

La classificazione APA prevede un accesso all’acquisto e all’utilizzo dei test basato esclusivamente su tipo di professione e iscrizione a specifici ordini professionali e non sul livello di conoscenza e di formazione dimostrato dal professionista. Dall’indagine, emerge che gli psicologi italiani non ne sono particolarmente soddisfatti; la maggior parte di loro ritiene che sia necessario adottare modalità più severe di regolamentazione all’uso dei test. Inoltre, reclamano strategie per contrastare cattive prassi che, secondo la loro esperienza, si manifestano frequentemente, quali, ad es., fotocopiare materiale protetto da copyright, consentire a personale non qualificato di somministrare test, e carenza di aggiornamento rispetto ai reattivi del proprio settore di specializzazione.
Anche io concordo con quanto emerso. La classificazione proposta dall’APA e adattata alla situazione italiana prevede che psicologi iscritti alla sezione A dell’albo professionale, docenti universitari dei settori scientifici M-PSI/01–08, nonché medici con specializzazione in neuropsichiatria infantile, psichiatria o psicoterapia, possono utilizzare tutti i test psicologici, indipendentemente dalle loro conoscenze. Se si pensa alle differenze nei curricula dei diversi corsi di laurea in psicologia o delle diverse scuole di specializzazione, più che mai mi convinco che l’accesso basato su modalità di certificazione delle conoscenze e competenze sia necessario per permettere di comprendere appieno le funzioni dei test e per utilizzarli in modo corretto.
L’EFPA ha predisposto, e sta già sperimentando in alcune nazioni, un sistema di classificazione a tre livelli di competenza, la cui certificazione deve essere realizzata in accordo a specifiche procedure e comporterà l’iscrizione ad un registro connesso all’EuroPsy.
Credo però, che, indipendentemente dal tipo di classificazione adottata, sarà fondamentale contrastare la prassi di alcune case editrici di vendere test psicologici senza alcuna regolamentazione e l’abitudine degli psicologi a fotocopiare test. Il fenomeno della diffusione impropria del materiale testistico (come, ad es., la pubblicazione in internet degli item e l’acquisto da parte di personale non qualificato) aumenta la possibilità che professionisti senza un’adeguata formazione somministrino test e ne “interpretino” il punteggio, compromettendo la possibilità di disporre di valide misurazioni. Inoltre, può accadere che persone vengano a conoscenza del contenuto di un test prima che gli venga somministrato (potrebbero ad esempio prepararsi ad una valutazione per una selezione imparando le risposte corrette di un test di intelligenza oppure le risposte più attese in un questionario test di personalità).

D. Uno delle aree indagate dall’indagine è stata il livello di formazione sui test percepito dagli psicologi: se ne ricava, non solo in Italia ma anche negli altri paesi, una generale sensazione di insufficienza. Insomma, gli psicologi chiedono più formazione: come ritiene si possa rispondere a questa esigenza?

La risposta deve essere a vari livelli. I curricola dei corsi di laurea, piuttosto che presentare il contenuto di specifici reattivi, devono prevedere un’adeguata formazione alle teorie e tecniche del test, finalizzata all’apprendimento delle regole per un corretto utilizzo (ad es., criteri per la valutazione delle proprietà psicometriche e del gruppo di standardizzazione di un test; per la somministrazione e scoring; e per l’attribuzione di significato al punteggio grezzo). I corsi di formazione post-lauream dovrebbero insegnare ad utilizzare e interpretare i test più diffusi nei vari ambiti di specializzazione (ad es., Scale Wechsler, MMPI e Millon). Infine, giornate scientifiche ad hoc dovrebbero consentire agli psicologi di aggiornarsi rispetto agli strumenti più promettenti e innovativi. Ricordo al proposito l’appuntamento annuale specifico agli strumenti nell’ambito della psicologia clinica dello sviluppo, organizzato dalla rivista Psicologia Clinica dello Sviluppo, dall’Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento in Psicopatologia dell’Apprendimento (AIRIPA) e dalla casa editrice Il Mulino. Al proposito, credo che le case editrici debbano più che mai investire in formazione e proporre occasioni di apprendimento a cifre “a misura” degli psicologi italiani. L’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna, ad esempio, sta offrendo ai propri iscritti seminari di formazione gratuita ad alto livello su test classici, quali MMPI e scale Wechsler, e più recenti, quali la NEPSY. Il costo della formazione è indubbiamente un problema. A mio avviso, una maggiore sinergia fra università, associazioni professionali, istituti di assistenza e case editrici potrebbe essere funzionale al recupero di fondi italiani o europei per promuovere un’alta formazione a prezzo contenuto.

 D. L’atteggiamento è influenzato dall’area di specializzazione dello psicologo?
 
Dall’indagine, emerge che gli psicologi del lavoro hanno un atteggiamento diverso da quello dei colleghi; in particolare sono mediamente più favorevoli all’utilizzo di computer e internet nel testing. Tale differenza è stata rilevata sia nel campione italiano che in quello internazionale ed era, in entrambi i casi, statisticamente significativa e di magnitudo moderata.
A mio avviso, è spiegabile con le diversità che vi sono, fra psicologi del lavoro e clinici, nella formazione e nell’utilizzo dei test nell’ambito della propria professione. Gli psicologi del lavoro, infatti, hanno una maggiore esperienza ad usare metodi di tipo diverso per la valutazione e l’intervento sui processi mentali (quali, ad es., interviste, questionari e tecniche di simulazione). Di conseguenza, possono essere più propensi a sperimentare modalità nuove di uso dei test, come quelle offerte dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Inoltre, essi lavorano generalmente con ampi gruppi di individui e non con singole persone o con piccoli gruppi, come invece accade agli psicologi clinici. Di conseguenza, avvertono di più la necessità di identificare tecniche per velocizzare somministrazione e scoring dei reattivi, quali, appunto, quelle offerte da internet.
 
D. Sempre in termini di atteggiamento verso i test, vi sono differenze fra giovani e meno giovani? Se sì, quali?
 
Dal confronto dei punteggi ottenuti nelle scale del questionario, è emerso che gli psicologi con meno di trent’anni di età ritengono, più dei colleghi, che in Italia siano diffuse cattive prassi nell’utilizzo di questi strumenti e hanno un atteggiamento più favorevole all’internet testing (le differenze sono statisticamente significative, ma di magnitudo bassa).
Sembra che le nuove generazioni, più abituate ad usare il computer, ne intravedono maggiormente le opportunità. È evidente che nei prossimi anni l’utilizzo delle nuove tecnologie modificherà le prassi nel testing. Sarà però fondamentale comprenderne anche i limiti. I computer, ad esempio, possono essere di estrema utilità nella somministrazione e correzione di reattivi in situazioni di screening o di selezione del personale. In contesti di diagnosi, però, nulla può sostituire la somministrazione faccia a faccia dei reattivi, sia per la complessità dei test da utilizzare che per la ricchezza di informazioni che si ottengono dall’osservazione dell’individuo. Inoltre, i report interpretativi elaborati dai computer non potranno mai sostituire la ricchezza di una interpretazione predisposta ad hoc per la persona. Questi ed altri limiti devono essere adeguatamente presi in considerazione dalle nuove generazioni di psicologi. Non a caso, l’ITC ha già predisposto una guida specifica all’internet testing.
 
D. Uno dei risultati più interessanti dell’indagine è la “top ten” dei test più usati in Italia: se la confrontiamo con quella analoga di uno studio europeo, troviamo sei strumenti in comune fra le due classifiche: MMPI-2, Rorschach, WISC, WAIS, Raven e TAT. Non c’è un test come il BDI-II, che rappresenta uno standard internazionale per la valutazione della depressione ma anche il lavoro di un autore molto affermato, come mai secondo lei?

Innanzitutto presentiamo in tabella 1 la top ten dei test maggiormente utilizzati dagli psicologi italiani iscritti all’Ordine e dal campione complessivo internazionale. È molto interessante poter disporre di questi dati. I quattro test più utilizzati sia in Italia che nel campione complessivo sono MMPI, Rorschach, WISC e WAIS: due test di comportamenti psicopatologici e due reattivi di intelligenza. Questi test sono fra quelli storicamente più importanti e maggiormente proposti negli insegnamenti di psicologia e nei corsi di aggiornamento. Non mi stupisce affatto questa graduatoria: i test che insegniamo di più sono quelli maggiormente utilizzati. Quante occasioni hanno gli psicologi italiani di conoscere test di nuova generazione? Che mezzi hanno per aggiornarsi? Ne consegue, che per favorire l’uso di test in accordo ai più recenti modelli teorici e metodi di costruzione, sia fondamentale proporre occasioni di formazione. Ritengo però che sia altrettanto importante favorire la diffusione di riviste scientifiche maggiormente in linea con le esigenze degli psicologi italiani. Mi riferisco in particolare a riviste che presentino argomenti di estrema utilità per lo svolgimento della professione di psicologo, quali rassegne sulle caratteristiche e possibili usi di nuovi test, aggiornamenti di standardizzazioni, e ricerche sull’utilizzo di reattivi nella diagnosi o prevenzione di specifici disturbi.

Tabella 1 - Top ten dei test più utilizzati dal campione italiano (Balboni e Coscarelli, 2012) e da quello internazionale (Evers, Muñiz, Bartram, Iliescu et al., 2012)
Tabella Balboni 440.png
Nota. Il valore percentuale è stato calcolato rispetto a coloro che hanno dichiarato di utilizzare almeno un test nello svolgimento della propria professione.
 
D. Infine, al settimo posto c’è l’unico test italiano, il CBA. Prendiamo spunto da questo per una riflessione sulla vitalità della produzione testistica nazionale: al riguardo, come vede lei il presente? e il futuro?

All’ultimo congresso ITC (Amsterdam, luglio 2012) una delle più importanti e interessanti lezioni magistrali riguardava la validità dei test (“What have we learned from 100 years of validity theory and test validation?”, Stephen G. Sireci, University of Massachusetts Amherst, USA). È stato un intervento molto bello ed emozionante per la qualità scientifica e gli spunti di riflessione forniti. Spero che prima o poi anche in Italia si possano creare le occasioni per ascoltare lezioni magistrali su argomenti come questo; ma a tale scopo, a mio avviso, è fondamentale che l’atteggiamento verso lo studio, la costruzione e l’utilizzo di test psicologici diventi più favorevole.
Nella comunità scientifica degli psicologi italiani è ancora diffusa l’idea che il testing sia un’area di ricerca poco innovativa e inferiore ad altre per qualità dei prodotti scientifici. Inoltre, vi sono professionisti che ritengono i test strumenti utilizzabili con facilità senza un’adeguata formazione. Non a caso ancora oggi succede che reattivi vengano somministrati e “interpretati” senza un adeguato studio del manuale d’uso. Entrambe queste concezioni devono cambiare per favorire lo sviluppo del settore e renderlo paragonabile agli standard internazionali. E poi è necessario disporre di maggiori risorse.

D. E il futuro del testing in generale? Come pensa o desidera che saranno i test dei prossimi anni?

Vi sono nazioni che stanno investendo molto nello studio e costruzione di test così come nella formazione al loro utilizzo. All’ultimo congresso ITC si è avuto l’occasione di assistere a presentazioni eccellenti. Stati Uniti, Spagna e Olanda da anni sono fra le nazioni che si distinguono per la qualità dei prodotti realizzati in questo settore. E poi vi sono le nazioni emergenti, quali il Brasile, che più di altre investono in questo come in altri settori scientifici. Ed è quindi da questi paesi che mi aspetto le produzioni più originali.
Le nuove tecnologie modificheranno la diffusione e l’utilizzo dei test psicologici. Mi riferisco non solo alla possibilità di utilizzare software per la somministrazione e lo scoring, ma anche e soprattutto all’opportunità di utilizzare versioni online di test, accedendovi attraverso computer, tablet o altri strumenti tecnologici.
La facilità di accesso al computer aumenterà anche la diffusione di test psicologici basati sull’Item Response Theory, quali ad esempio i test adattativi (CAT – Computer Adaptive Testing), che prevedono la possibilità di adattare la prova alle caratteristiche dell’individuo (in altre parole, presuppongono che, mano a mano che l’individuo risponde, vengano selezionati gli item che più sono in accordo con il livello di abilità dimostrato fino a quel momento).
Credo che il testing internazionale continuerà a stupirci per qualità e creatività dei prodotti, nonché aree di utilizzo e applicazione. Spero e mi auguro che l’Italia partecipi attivamente a tale processo, ma a tale scopo è fondamentale una maggiore sinergia, rispetto a quanto si è verificato sino ad oggi, fra ricercatori, professionisti e case editrici. Più che mai è necessario unire energie e risorse, come accade in altre nazioni, per poter essere produttori creativi e utilizzatori consapevoli di test psicologici.