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numero 63 - dicembre 2018

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L'intervista

Intervista a Elena Formica

Intervista a Elena Formica

Lego® Serious Play® (LSP) nasce negli anni 90 come metodo aziendale per facilitare e agevolare i processi decisionali, in cui i celebri mattoncini LEGO vengono impiegati come supporto metaforico all’espressione, al confronto e alla condivisione di idee, assunzioni e problemi, incoraggiando la discussione e il dialogo in ottica di problem solving. Il metodo LSP rappresenta un approccio creativo all'innovazione e al miglioramento delle performance di singoli individui, team e intere organizzazioni, che facendo leva sul gioco riesce a liberare capacità e idee potenzialmente presenti in ognuno di noi. LSP si configura quindi come uno strumento efficace per aumentare la qualità delle riunioni, rendere più veloci i processi di innovazione, fare crescere i team e migliorare la comunicazione, facendo in modo che ogni singola risorsa possa dare un suo contributo unico e libero all'organizzazione. La curiosità e la dimensione rilassata del gioco permettono di uscire dalla propria zona di comfort ed essere più aperti nelle proposte e meno legati a schemi mentali abituali. A tal proposito, abbiamo intervistato Elena Formica, Psicologa del lavoro facilitatrice certificata del metodo, che, viste le potenzialità, sta tentando di portarlo in ambito terapeutico per poterlo applicare alla conduzione di gruppi esperienziali.

D. Elena, tu che sei una facilitatrice certificata del metodo Lego® Serious Play®, vuoi raccontarci di cosa si tratta?

R. Lego® Serious Play® è una metodologia rivolta agli adulti, finalizzata all’individuazione di strategie e soluzioni, che agevola e accelera i processi relazionali, decisionali, comunicativi e le tecniche di problem solving all’interno di organizzazioni e gruppi di lavoro. È una metodologia trasversale, che ha il suo focus nel “pensare con le mani”, e riesce a coinvolge le persone a diversi livelli: permette la libera espressione di ogni individuo e, allo stesso tempo ha come “effetto collaterale” un positivo impatto sul gruppo e sull’organizzazione.
È un metodo che fa appello alla naturale propensione degli esseri umani a pensare, comunicare, risolvere problemi e a esprimere pensieri e idee in modi che comportano anche l’uso delle mani.
Per andare sul piano più pratico, ogni workshop Lego® Serious Play® segue uno specifico insieme di regole (detto “core process”), sono 4 semplici step che guidano le attività durante tutto il tempo dedicato al workshop. Il facilitatore pone ad un gruppo di numerosità variabile tra 6 e 12 persone una domanda stimolo (step 1: porre il quesito). Questi quesiti devono essere sufficientemente aperti da ammettere più risposte e, allo stesso tempo, sufficientemente centrati sugli obiettivi del wokshop; successivamente tutti costruiscono nel tempo stabilito dal facilitatore (step 2: costruzione) e tutti condividono la storia legata al proprio modello (step 3: condivisione). Ciò significa che nessuno se ne può stare in disparte a guardare gli altri, e anche che tutti devono dare una risposta al quesito posto. Il significato è nel modello e l’autore del modello è il proprietario del significato. Questo è un punto molto importante: l’assunto di base è che il costruttore non sbaglia – non c’è spazio per accuse, pre-giudizi, ripresa di vecchie tesi o interpretazioni legate a conoscenze pregresse. Il modello che si è costruito è tutto ciò che si può condividere, è il modello che veicola il senso, non i preamboli o le giustificazioni che la persona può aggiungere o sente di dover fornire. La storia deve essere aderente al modello: nel quarto step, quello della riflessione, le domande che gli altri membri del gruppo andranno a porre, dovranno riguardare il modello e non la persona che l’ha costruito.
Un’altra regola che è importante dare all’inizio del workshop è quella di spegnere i telefoni: come qualsiasi gioco, il gioco serio non ammette distrazioni e i partecipanti possono dare la loro piena attenzione solo schermandosi da qualsiasi disturbo esterno. 

D. Cosa si intende per “gioco serio”?

R. Mi ha sempre affascinata molto come sia culturalmente necessario apporre la parola “serio” accanto al termine “gioco”, soprattutto quando si presenta il metodo in certi contesti, come quelli organizzativi. Ci vedo la volontà di far capire che “non è solo un gioco”, che attraverso la metodologia si possono affrontare questioni tremendamente serie, come un momento di stallo e di scarsa produttività di un team, oppure uno scenario di mercato in cui i competitor stanno avendo la meglio. Credo che da un lato lo si faccia per bypassare la convinzione diffusa che quando si gioca non si è seri; usare questi due termini insieme permette in qualche modo di sdoganare la possibilità di avvicinarsi al gioco anche quando siamo maturi, adulti. Giocare, in realtà, è un’attività serissima: già Eraclito faceva notare che “L’uomo è più vicino a sé stesso quando raggiunge la serietà di un bambino intento nel gioco”. Ad ogni modo, si parla di “gioco serio” quando si vuole definire un’attività ludica che ha una finalità esplicita, è un incontro spontaneo finalizzato a praticare immaginazione, ci si focalizza sull’esplorazione e sulla preparazione, si seguono volontariamente delle regole precise ed un linguaggio condiviso.

D. Quali obiettivi si possono raggiungere attraverso l’utilizzo di questa metodologia?

R. Gli obiettivi raggiungibili sono diversi e possono essere declinati in base alle esigenze dell’azienda, entro certi limiti. Non è sicuramente un’attività di team building come spesso sento dire: come dicevo prima, è un suo effetto collaterale",  ma la metodologia non nasce per questo fine. A livello generale, permette di superare le riunioni “20/80”, ovvero quegli incontri dove il 20% delle persone occupa l’80% dello spazio-tempo dedicato all’incontro. Sono riunioni dove le persone spesso non sono coinvolte, non sono attive, non esprimono appieno il loro potenziale e spesso si “dis-connettono” dal contesto che stanno vivendo per “connettersi” in luoghi virtuali, dove hanno l’impressione che il loro contributo conti qualcosa, che sia importante (penso ai social network, ad esempio). Attraverso l’utilizzo del metodo Lego® Serious Play® le persone si sentono coinvolte perché costruiscono attivamente dei modelli 3D con i mattoncini che rappresentano la loro personale risposta ad una domanda stimolo che gli viene posta; successivamente ognuno di loro ha uno spazio di parola per raccontare la propria storia che sta dietro al modello costruito e, insieme, il gruppo riflette sulla storia che ha ascoltato e sul modello che vede. Questi passaggi permettono di raggiungere altri due obiettivi: liberare la conoscenza “latente” delle persone, ovvero quelle informazioni, conoscenze, visioni, prospettive che le persone possiedono, ma che spesso non sanno di possedere; inoltre, porta a rompere la routine di pensiero: la narrazione della storia legata al modello e il confronto con i vari membri del gruppo permettono di allargare la propria visione del contesto in cui si opera giornalmente e iniziare a pensare ai “soliti problemi” con occhi nuovi, intravedendo delle possibilità diverse che prima non erano presenti nel campo della consapevolezza.

D. A chi si rivolge principalmente questa metodologia?

R. A tutte quelle realtà che vogliono ottimizzare le risorse su cui hanno investito e che hanno voglia di scoprire che il capitale umano che popola la propria azienda è davvero un “capitale”. Mi spiego meglio: immaginiamo le aziende come una miniera piena di diamanti, ovvero le persone che la fanno vivere. Alcuni di questi diamanti possono essere già splendidi e lucenti, consapevoli delle proprie capacità e del proprio potenziale creativo e ideativo, altri possono ancora essere “grezzi”. Il metodo Lego® Serious Play® aiuta le persone a riconoscersi come diamanti, a “lucidarsi”, a conoscersi meglio, a scoprire il proprio potenziale creativo, a prendere consapevolezza delle proprie risorse. Vengono coinvolti in prima persona, gli viene chiesto – con ogni domanda stimolo – di mettersi in gioco, letteralmente, e di condividere il loro pensiero, le loro doti, il loro spirito di osservazione e di riflessione. Spesso, durante le ore lavorative, procediamo come su un’autostrada, ad alta velocità, scordandoci di guardare il paesaggio: percorrendo i soliti binari, quelli prestabiliti dalla routine del “si è sempre fatto così”, non ci fa rendere conto che potremmo anche essere finiti su un binario morto. Fermarsi, prendersi il tempo per mettersi intorno a un tavolino, pensare attraverso canali diversi da quelli della razionalità più spinta, concedersi al gioco, raccontare la propria storia e ascoltare quella degli altri, ci fa rendere conto che intorno c’è un paesaggio da scoprire e da cui possiamo attingere nuove idee e consapevolezze.

D. Quali sono i vantaggi che derivano dall’applicazione di questo metodo? Perché un’organizzazione dovrebbe scegliere questo metodo rispetto ad altri tipi di interventi?

R. La metodologia, per come è costruita, permette di fare attenzione alle proprie risorse e a ciò che si riceve dagli altri. La gestione della risorsa tempo, ad esempio, è un processo davvero importante: hai pochi minuti per costruire la tua risposta alla domanda stimolo, pochi minuti per condividere la storia che c’è dietro al modello che hai costruito e un tempo prestabilito per condividere la tua riflessione con la persona che ha raccontato il proprio modello. L’obiettivo è quello di snellire, di asciugare, di rendere pulito e concreto ogni passaggio, ogni interazione. Via l’iper-verbalizzazione, spazio a ciò che davvero conta. I partecipanti si rendono facilmente conto di quanto tempo investono in attività poco produttive e di quanto potrebbero raggiungere prestando maggiore attenzione a come usano e gestiscono il proprio tempo nelle attività di tutti i giorni. Già questo, se riportato nel quotidiano lavorativo, permette l’ottimizzazione dei processi e un risparmio concreto in termini di risorse intangibili. Un altro vantaggio è quello di attivare una modalità comunicativa diversa: il facilitatore invita i partecipanti a prestare attenzione al modello, al problema portato, al racconto, non alla persona che ha costruito, in modo che la riflessione che viene fatta dai membri del gruppo sia slegata da eventuali pregiudizi. Non si sta sul “perché delle cose” (perché hai usato un mattoncino piuttosto che un altro, perché hai costruito un determinato elemento in un certo modo), ma sul “come”, sui dettagli, sui particolari di costruzione che possono essere più rivelatori di quanto si pensi.

D. Quali sono le aziende che in genere sono maggiormente interessate?

R. Non c’è un’azienda “tipo” o ideale per l’applicazione del metodo. Ho avuto esperienza con start-up, PMI e multinazionale appartenenti a diversi settori merceologici. La differenza la fanno, come sempre, le persone che vivono l’azienda e il loro grado di apertura al cambiamento. Inizialmente pensavo che fossero solo le aziende con AD illuminati a sostenere l’implementazione di questa metodologia, ma con la recente diffusione della gamification, un numero sempre più ampio di organizzazioni ricercano metodologie che utilizzino il mezzo ludico e che consentano di creare un alto impatto e un elevato grado di coinvolgimento dei partecipanti. Lego® Serious Play® è una metodologia che ben si integra anche con altre metodologie game-based (come ad esempio i tools per la valutazione delle competenze trasversali di Laborplay®, start-up e spin-off dell’Università di Firenze con cui collaboro da 5 anni). La combinazione delle due metodologie, ovviamente usati in fasi diverse e in modo sartorializzato rispetto alle esigenze delle aziende, permette di raggiungere risultati di qualità e cambiamenti concreti che durano nel tempo. 

D. Che tipo di accoglienza ha questo metodo quando lo porti in azienda?

R. Ho avuto a che fare con partecipanti di tutte le età, con diversi gradi di seniority (sia appartenenti alle categorie “silver” che “green”). Inizialmente si sentono fortunati a partecipare al workshop, come se avessero vinto una “gita fuori porta”, lontani dalle fatiche della quotidianità lavorativa. Alcuni fanno riferimento ai tempi in cui erano loro stessi a giocare con i Lego®, o magari si ricordano dei momenti passati con i figli o i nipoti. Spesso noto comparire un sorriso sulle loro facce, di chi la sa lunga, che sarà una giornata leggera e spensierata. Altri ancora si stupiscono che la loro azienda abbia scelto proprio loro per partecipare a questa avventura, una giornata leggera, di gioco e divertimento… e basta. Molto velocemente si rendono conto che non è cosi. Ti ricordi il termine “serio” di cui parlavamo prima? Ecco, si toccano con mano che la metodologia li porta in una dimensione di gioco serio: si sentono coinvolti, sono presenti a sé stessi e agli altri e questo è tutt’altro che poco faticoso, anzi. E sono “presenti” anche nel senso che si donano agli altri: in ogni momento fanno dei piccoli regali, condividono qualcosa del loro mondo interno, offrono la loro visione ed il loro contributo. Questa dimensione di apertura è qualcosa di molto prezioso e il farne esperienza attiva un cambiamento positivo nei rapporti tra le persone che si mantiene nel tempo, anche al di fuori dell’aula del workshop.

D. Sicuramente da facilitatrice Lego® Serious Play® avrai visto con i tuoi occhi molte situazioni divertenti. Ci racconti quella che ti ha colpito di più?

R. Le situazioni che mi colpiscono sono quelle in cui le persone hanno dei veri e propri insight, delle prese di consapevolezza estemporanee e inaspettate. Mi colpisce la sorpresa che appare tutta insieme sui loro volti, quel senso di meraviglia proprio dei bambini che scoprono qualcosa di nuovo. C’è stata una situazione in particolare davvero divertente: una signora in un’azienda aveva molte resistenze all’utilizzo del metodo, lo considerava come una vera e propria perdita di tempo mentre “là fuori, nell’ufficio” il mondo continuava a girare senza che lei ne avesse il pieno controllo. La domanda stimolo che avevo posto riguarda la propria identità professionale, chi erano all’interno dell’azienda. Lei rappresenta sé stessa nel suo ufficio, cercando di riprodurre tutto nei minimi dettagli. Il risultato? Quatto mura, un mattoncino per scrivania, un “minifigures” con i capelli biondi seduto e tante, tantissime piante, fiori e decorazioni all’interno. Racconta la sua storia sottolineando il senso di benessere che le persone hanno quando entrano nel suo ufficio, nel suo piccolo paradiso. Arriva il momento della riflessione e uno dei colleghi le fa notare che nel suo modello non c’erano né porte, né finestre: come potevano le persone entrare in contatto con lei? La meraviglia nei suoi occhi è stata qualcosa di indescrivibile. Non se n’era accorta, non c’aveva pensato – era sbalordita. Le sue mani avevano pensato per lei. Gli occhi e le parole del collega avevano fatto il resto. Da quel momento qualcosa si è sbloccato e ha iniziato a prestare attenzione e a dare il suo personale contribuito alla relazione con gli altri partecipanti: si è riattivata, è tornata presente.

D. Come si diventa facilitatori certificati del metodo?

R. Personalmente mi sono formata seguendo un corso del master trainer Per Kristiansen (Trivium – the meeting of minds) in lingua inglese, durante il quale abbiamo avuto la possibilità di andare oltre l’aspetto teorico, alternandoci nella posizione di partecipanti e di conduttori. Gli effetti del metodo li abbiamo sentiti sulla nostra pelle, ne abbiamo fatto esperienza. Essere intorno al tavolo con persone provenienti da tutto il mondo è stato il vero valore aggiunto, che mi ha permesso di sperimentarmi e misurarmi con un ambiente davvero arricchente. Da quel momento, ho cercato di portare il mio contributo nelle aziende e di trasmettere il mio “innamoramento” verso questo metodo davvero rivoluzionario. In poco tempo si riescono ad ottenere grandi risultati.

D. Rispetto al tuo background in ambito clinico, in che modo pensi di arricchire il metodo?

R. È vero, ho una “doppia anima”! Sono psicologa del lavoro, ma vengo da una formazione clinica e sono specializzanda in psicoterapia della Gestalt. Il mio background mi permette di avere una visione allargata sulle diverse dinamiche che si attivano in aula, anche se durante i workshop in azienda è importante per me mantenere gli ambiti distinti e ricordarsi di quali sono gli obiettivi della giornata. Viste le potenzialità della metodologia Lego® Serious Play® sto facendo ricerche e sperimentazioni per capire se può essere uno strumento che, con le dovute integrazioni, permette di attivare riflessioni di qualità e con un buon potenziale trasformativo anche in contesti terapeutici, nella conduzione di gruppi esperienziali. I punti di contatto tra la metodologia e l’approccio Gestaltico sono numerosi, anche a livello teorico. La direzione che ho deciso di intraprendere nella pratica clinica è quella di utilizzare la costruzione di modelli come supporto per gli scambi di gruppo e per attivare una riflessione di tipo fenomenologico-esistenziale, sia individuale che condivisa. Per adesso sono in programma una serie di workshop, intitolati “LEGOCENTRICO” presso il mio studio che partiranno da gennaio 2019 (maggiori info su www.elenaformica.com). L’idea è quella di prendersi uno spazio per con-centrarsi su di sé attraverso l’uso del mattoncino Lego® e mettersi in gioco, partendo dalla presa di consapevolezza sul proprio funzionamento psichico attuale per immaginarsi nuove strade da percorrere e nuove opportunità da cogliere grazie alla condivisione e al contributo del gruppo di partecipanti.