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numero 36 - aprile 2016

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L'intervista

Intervista a Carlo Chiorri

Intervista a Carlo Chiorri

Carlo Chiorri è dottore di ricerca in Psicologia e Scienze Cognitive, è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, dove insegna Psicometria, Teoria e Tecnica dei Test, Metodi di Ricerca e Analisi dei Dati.
A lui abbiamo chiesto di parlarci del rapporto tra psicometria e psicologia applicata. Spesso, infatti, le tecniche di analisi dei dati e la pratica psicologica quotidiana sono viste come due mondi paralleli mentre invece la loro reciproca interazione fornisce un grande valore aggiunto al lavoro quotidiano dello psicologo.

D. Perché crede che gli studenti di Psicologia abbiano una certa antipatia verso la psicometria, e la statistica più in generale?

R. È una questione complessa, difficilmente riassumibile in poche parole. Per semplificare, credo che innanzitutto dobbiamo considerare che gli studenti che scelgono un corso di studi in psicologia sono per lo più interessati agli aspetti clinici, e non a quelli più strettamente scientifici della disciplina. Per cui, non c'è da stupirsi che anche loro, come del resto la maggior parte di coloro che non hanno intrapreso un percorso accademico nell'ambito STEM (Science, Technology, Engineering, and Mathematics), risentano dello stereotipo culturale per cui tutto ciò che riguarda i numeri sia considerato appannaggio di pochi eletti, per cui esistono coloro che sono "portati" e coloro che sono "negati", come se certe competenze fossero innate. In più, occorre considerare le conseguenze di un fallimento, ancorché momentaneo, nella soluzione di un problema o di un esercizio: il senso di frustrazione può non essere facile da gestire, e l'ulteriore stereotipo secondo il quale "se non mi riesce, vuol dire che sono stupido" non fa che peggiorare la situazione, perché a nessuno piace sentirsi stupidi. Se poi aggiungiamo l'ansia generata dal pensiero che se uno non supera l'esame non si laureerà mai, ci possiamo fare un'idea di quello che alcuni studenti passano. Secondo me, però, sta al docente cercare di gestire questa situazione, cercando di proporre attività che "neutralizzino" questi fattori. Ad esempio, tramite le piattaforme informatiche attualmente disponibili per il blended learning possono essere proposte esercitazioni da fare a casa fra una lezione e l'altra che non abbiano finalità valutative ma che permettano agli studenti di mettersi alla prova e di confrontarsi fra loro, oppure attività di tutorato in cui studenti più "anziani" che hanno già superato l'esame aiutano i loro colleghi nell'attività di studio. 

D. Come si può provare a ridurre questa distanza tra la psicometria e gli studenti di psicologia?

R. A mio modo di vedere ci sono due aspetti che i docenti di psicometria dovrebbero cercare di integrare nella loro pratica didattica. In primo luogo, agli studenti dovrebbero essere proposte più attività in cui abbiano la possibilità di mettere in pratica quello che studiano sui manuali. Ad esempio, lavorare a piccoli gruppi allo sviluppo di un test, partendo dalla definizione del costrutto e dalla documentazione nella letteratura scientifica, scrivendo gli item, raccogliendo i dati e provando ad analizzarli. Nel momento in cui le analisi statistiche smettono di essere qualcosa di apparentemente astratto da studiare, a volte senza neanche capire bene perché, ma un vero e proprio strumento per verificare se il lavoro di ricerca svolto ha dato i suoi frutti, l'atteggiamento degli studenti cambia, e lo vedo con quelli che seguo per la tesi o per attività di tirocinio. Inoltre, credo molto nel metodo Flipped Classroom, in cui non vi è una valutazione del docente, ma un confronto fra pari, che aiuta le ragazze e i ragazzi a riflettere sul loro prodotto in base ai commenti dei loro compagni, liberi dalla preoccupazione della valutazione ai fini dell'esame. Da docente riconosco che questa proposta non è facilmente integrabile nei corsi universitari "classici", per via di tutti i vincoli esistenti a livello organizzativo, ma almeno nel mio corso di laurea possiamo organizzare delle attività di laboratorio.

D. Secondo lei, in che modo le competenze psicometriche possono tradursi nella pratica quotidiana di chi utilizza i test psicologici?

R. Innanzitutto nel corretto uso degli strumenti di valutazione psicometrica, a partire dalla loro somministrazione, per finire con l'interpretazione dei punteggi. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita di interesse, per non dire ossessione, nei confronti degli strumenti di valutazione quantitativa, in particolar modo in ambito educativo e organizzativo. Il professionista psicologo deve essere in primo luogo cosciente, e farsi portavoce di questo nei confronti dell'opinione pubblica, che i test non misurano le persone, ma caratteristiche delle persone, e quindi il punteggio non dice niente su quello che una persona è, ma solo su un suo attributo. In secondo luogo, è fondamentale rendersi conto di come il test, da solo, non può fare diagnosi, in quanto l'assessment psicologico non si risolve con il solo uso dei test, ma deve comprendere anche altre metodologie di indagine, come i colloqui o le interviste a terze persone. Detto questo, lo psicologo deve poi saper scegliere il test adatto alla persona e/o al contesto di somministrazione, e a questo punto non può prescindere dal saper distinguere un test valido, in senso lato, da uno scadente, dato che un errore in questa fase potrebbe avere conseguenze anche molto gravi sulle persone coinvolte, se le decisioni che vengono prese sono basate anche sui punteggi al test.

D. Secondo lei, l’attuale formazione psicometrica presente nelle università italiane risponde alle reali esigenze degli psicologi?

R. Posso parlare solo per il mio caso, perché non conosco abbastanza bene la situazione nelle altre università. La mia impressione è che nella formazione dello psicologo dovrebbe essere data più importanza non solo alla formazione psicometrica, per i motivi che ho elencato precedentemente, ma anche a quella di ricerca in generale, quantitativa e qualitativa. Ad esempio, anche lo psicologo che non fa ricerca in ogni caso non può non essere in grado di leggere criticamente un articolo scientifico, o interpretare correttamente le relazioni causali fra le variabili, dato che ne potrebbe andare della salute dei pazienti stessi. Se lei scoprisse che il suo medico di famiglia non è in grado di documentarsi nella letteratura scientifica oppure spesso confonde le cause con gli effetti delle malattie, lei continuerebbe ad andarci? E allora perché per lo psicologo dovrebbe essere diverso? Oltre naturalmente a costituire un vantaggio per le persone prese in carico, una competenza più solida in questi ambiti può aiutare lo psicologo a ottenere una considerazione diversa da parte degli altri professionisti con cui si può trovare a interagire, in modo da scrollarsi finalmente di dosso l'etichetta di "scopritore dell'acqua calda" che molto spesso gli viene affibbiata.

D. Quali sono gli aspetti psicometrici fondamentali che uno psicologo deve conoscere per poter utilizzare un test?

R. Chi utilizza un test a scopo professionale, per esempio nell'assessment clinico o in quello organizzativo, deve innanzitutto essere in grado, nel momento in cui legge gli item di un test, di capire se il contenuto degli item corrisponde alla definizione del costrutto che intende misurare. In questo senso, uno psicologo deve avere ben chiaro cosa si intende per validità di contenuto, altrimenti, nel momento in cui gli venisse chiesto di fare una valutazione della personalità, due strumenti come l'MMPI o il NEO-PI-3 potrebbero anche essere considerati equivalenti. In secondo luogo, occorre saper valutare se il modo in cui gli item sono formulati è adeguato per le persone alle quali si intende somministrarli, ossia la validità di facciata del test. Ad esempio, alcuni test potrebbero richiedere un livello di consapevolezza che la persona potrebbe non avere, oppure la formulazione potrebbe essere troppo complessa per il livello di istruzione dell'esaminando. Questi due aspetti a mio modo di vedere sono fondamentali, per quanto mi sia capitato di osservare che molto spesso vengono ignorati. Incidentalmente, vorrei far notare che la statistica che invece viene utilizzata per valutare le altre forme di validità (di costrutto e di criterio) e l'attendibilità in questi due casi non è strettamente necessaria. Se uno è in grado di valutare anche questi aspetti naturalmente è meglio, ma se il test viene acquistato si presuppone che siano già stati controllati da chi lo ha validato, per cui uno può anche fidarsi. Se invece il test, come spesso accade, viene trovato online o ricevuto più o meno informalmente da colleghi, allora è il caso di recuperare anche le evidenze empiriche a supporto di queste proprietà psicometriche.

D. La maggior parte dei test è tuttora costruita applicando la Teoria Classica dei Test (TCT). Nonostante ciò, alcuni strumenti vengono messi a punto con l’Item Response Theory (IRT). Dove crede che si diriga la ricerca scientifica in questo settore? E cosa ciò comporterà, o dovrebbe comportare, nella pratica testistica?

R. Per quello che posso osservare, stanno uscendo molte pubblicazioni scientifiche in cui vengono utilizzati i modelli IRT non solo per lo sviluppo di nuovi test, ma anche per la revisione di quelli esistenti. In più, sta prendendo sempre più piede l'approccio bayesiano, che può essere applicato sia in ambito TCT, sia IRT. Personalmente trovo che l'approccio IRT sia particolarmente utile con item di tipo dicotomico o ordinale con poche categorie di risposta ordinate (diciamo meno di cinque), mentre con item con molte categorie di risposta ordinate diventa più complesso per via dell'aumento del numero di parametri del modello e della conseguente necessità di campioni molto ampi per ottenere, in particolare, stime adeguate dei parametri e dei loro errori standard. L'applicazione che più mi entusiasma dei modelli IRT è il Computerized Adaptive Testing, che ha il vantaggio di produrre non solo valutazioni valide e attendibili, ma anche rapide, pregio da sempre apprezzatissimo nella psicologia applicata. Il problema è che sviluppare uno strumento di questo tipo comporta un lavoro ancor più oneroso, se possibile, di quello di un test carta-e-matita classico, e non è applicabile in contesti, come i concorsi pubblici, in cui c'è assoluta necessità che gli esaminandi vengano messi nelle stesse identiche condizioni - e quindi vengano somministrati a tutti gli stessi item. Se poi vogliamo ampliare il campo, possiamo anche guardare alle applicazioni che sono state sviluppate negli ultimi anni in ambito informatico, come ad esempio gli algoritmi di riconoscimento delle espressioni facciali, che si sta provando a utilizzare per la valutazione delle emozioni e della personalità.

D. Nell’ambito della ricerca è presente uno scambio tra persone con competenze prettamente psicometriche e persone con competenze maggiormente cliniche per giungere a delle soluzioni psicometricamente buone e al contempo clinicamente utili? Oppure si procede per compartimenti stagni?

R. Per quanto mi riguarda, questo scambio fa parte della mia attività quotidiana, in quanto ho molti progetti di collaborazione con colleghi esperti principalmente in ambito clinico o organizzativo, con i quali condivido progetti di ricerca per lo sviluppo di nuovi strumenti o l'adattamento italiano di altri già esistenti in altre lingue. Un esempio è l'Associazione Psyche-Dendron, fondata insieme a Alessandro Ubbiali e Deborah Donati, con i quali abbiamo pubblicato con Hogrefe Editore la validazione italiana del DAPP-BQ. Devo dire che mi piace molto questo tipo di collaborazione, perché di solito permette di raggiungere ottimi risultati in un tempo relativamente ragionevole, in quanto si condividono tutte le fasi della validazione del test e le decisioni importanti vengono prese dopo una discussione di tutti gli aspetti. Tuttavia, altre volte mi è capitato di essere interpellato solo come consulente per le analisi statistiche, e magari ho trovato errori di formulazione, quando non di contenuto, degli item, che a quel punto non potevano più essere corretti - e comunicarlo agli interessati non è mai facile, né piacevole. Purtroppo la credenza "che ci vuole a costruire un test", un po' come quella che "siamo tutti un po' psicologi", è ancora troppo diffusa.

D. La psicometria viene spesso associata ad analisi quantitative. In realtà, esistono tecniche di analisi qualitativa molto sofisticate e di difficile applicazione. Crede che chi si occupa di ricerca clinica sia consapevole di poter utilizzare anche queste tecniche?

R. Se è stato adeguatamente formato in ambito psicometrico sì, perché a quel punto si pone il problema. Nessun psicometrista di buon senso può ritenere che esistano solo metodi di valutazione quantitativi, ed è una cosa che gli studenti di psicologia dovrebbero imparare nel loro percorso di studi, che dovrebbe comprendere anche la metodologia qualitativa. A mio modo di vedere, chi svaluta gli strumenti quantitativi sbaglia tanto quanto chi ritiene che qualunque caratteristica possa essere misurata quantitativamente. Sono prospettive troppo semplicistiche.

D. Secondo lei, nell’acquisto di un test quanto incidono gli aspetti psicometrici?

R. Dipende dalla competenza di chi acquista. Se ha ben chiare quali siano le caratteristiche che deve possedere un test al momento dell'acquisto, direi che sono fondamentali. Altrimenti, il mio timore è che spesso vengano ignorate. In questo senso, il lavoro che fate voi come casa editrice di test è molto importante, in quanto vi fate garanti del fatto che gli strumenti che proponete siano stati sviluppati in modo adeguato e che possiedano adeguate proprietà psicometriche.