L'intervista
Intervista a Alessandro Zennaro
Intervista a Alessandro Zennaro
Alessandro Zennaro, ordinario di Psicopatologia dello sviluppo e Metodi psicodiagnostici, ha guidato il lavoro che ha condotto alla validazione italiana di uno dei nostri test, il Personality Assessment Inventory (PAI), di prossima pubblicazione. Si è trattato di un lavoro imponente e svolto “a regola d’arte” per un questionario di personalità importante. Ci è sembrato quindi interessante, per chiunque si occupa di psicodiagnostica, chiedergli di spiegarci cosa significa adattare un test.
D. Professore, lei ha recentemente coordinato lo studio di validazione e standardizzazione italiana di un questionario di personalità clinica, il PAI: quanti gruppi di ricerca sono stati coinvolti e con quale criterio?
R. Il lavoro è stato molto impegnativo per svariate ragioni: da un lato l’ampiezza dei campioni necessaria per ottenere dati affidabili e rappresentativi e dall’altro la necessità di rispettare le principali distribuzioni demografiche italiane (età, titolo di studio, residenza ecc.), così come indicate dall’ISTAT. Per perseguire entrambi questi scopi abbiamo coinvolto cinque gruppi di ricerca italiani, coordinati da altrettanti colleghi competenti in materia di testistica e/o clinica e/o metodologica. I gruppi di ricerca coinvolti sono stati: l’Università di Padova, con la collega prof.ssa Adriana Lis, l’Università di Perugia, con la collega prof.ssa Claudia Mazzeschi, l’Università di Chieti con il collega prof. Mario Fulcheri, l’Università di Catania con il prof. Santo di Nuovo, oltre ovviamente al gruppo di Torino da me coordinato. In questo modo abbiamo rappresentato adeguatamente sia Nord che Centro che Sud e isole, ai fini del reclutamento del campione normativo.
D. Quali sono le principali implicazioni da prendere in considerazione nella validazione di un questionario clinico concepito in un’altra cultura? (il PAI è un test americano).
R. Il PAI è uno strumento ben congegnato e ben studiato, sotto il profilo psicometrico, dall’autore che lo ha creato: Leslie C. Morey. In virtù di questa caratteristica qualitativa originale, abbiamo sostanzialmente replicato gli studi prodotti dall’autore e pubblicati sul manuale americano. Ovviamente gli studi di validazione e la pubblicazione del manuale costituiscono il punto di ingresso di uno strumento diagnostico in una cultura in cui non era presente in precedenza. Abbiamo già in calendario approfondimenti di natura metodologica e psicometrica così come studi su specifici gruppi clinici, per i quali, però, serve più tempo.
Occorre poi tenere conto che il PAI è uno strumento piuttosto complesso ed articolato, sia in termini di numerosità degli item che di scale e sottoscale alle quali i medesimi item contribuiscono. In questi casi la traduzione degli item è fondamentale, per questo motivo abbiamo prestato molta attenzione alla corretta formulazione, nella nostra lingua, degli item originali americani.
Inoltre è stato estremamente importante costituire dei campioni normativi rappresentativi della realtà della popolazione italiana, così come il campione normativo nordamericano è stato costruito in maniera rappresentativa dei diversi gruppi etnico-culturali rappresentati in quella popolazione.
D. Al riguardo, le linee guida ITC (International Test Commission) sulla validazione di test stranieri sono state utili? Sono realmente attuabili?
R Le linee guida ITC costituiscono uno strumento molto utile per orientare i ricercatori e gli editori rispetto alla messa in atto di un lavoro di adattamento e traduzione, metodologicamente corretto, eticamente sostenibile e complessivamente di qualità. Personalmente ritengo le medesime (e le successive integrazioni, modifiche e commenti, come ad esempio il lavoro di Hambleton del 2001) talvolta ridondanti e un po’ eccessive, soprattutto nel caso di adattamento di test di personalità, per i quali non sussistono specifiche ragioni per ipotizzare sostanziali differenze nei costrutti alla base delle scale psicopatologiche.
D. Quali informazioni e quali dati occorre avere per un adattamento come quello del PAI? Il manuale originale è sufficiente?
R. Ai fini dell’adattamento italiano il manuale è piuttosto esaustivo (questo perché si tratta di un manuale fatto bene, differentemente da altri strumenti, anche analoghi). Noi abbiamo fatto ricorso a numerosi contributi provenienti dalla letteratura scientifica per approfondirne la conoscenza, nel corso dell’adattamento, ma non sarebbe stato strettamente necessario. Il riferimento a strumenti diversi dal manuale, viceversa, ci è parso particolarmente utile ai fini dell’interpretazione dei protocolli clinici.
D. Come è avvenuto il reclutamento dei soggetti per i vari campioni?
R. Abbiamo fatto ricorso a tre gruppi normativi: studenti, popolazione generale e gruppo clinico. Evidentemente il reclutamento è stato diverso per i tre gruppi. Abbiamo sempre cercato di rispettare i criteri originali americani di composizione dei campioni normativi. Per quanto riguarda gli studenti, naturalmente, gli iscritti ai corsi di laurea in psicologia hanno fatto la parte del leone, per ovvie ragioni di disponibilità pratica. Relativamente al gruppo clinico sono state richieste collaborazioni a diversi colleghi, operanti in vari contesti sia ambulatoriali specifici che ospedalieri, agganciati con i cinque poli di ricerca principali. Il campione normativo generale è stato reclutato sia presso centri aggregativi che attraverso il ricorso a “snowball sampling” (ciascun soggetto coinvolgeva altri soggetti a propria conoscenza), campionamenti per quote, cioè stratificati (ad es. per età, sesso, titolo di studio ecc.) o, ancora, a campionamenti di convenienza per la conclusione del reclutamento verso specifiche fasce sottorappresentate nelle forme di campionamento precedenti.
D. E la raccolta dati e il suo afflusso per la successiva elaborazione come sono stati gestiti? Visti il numero dei centri coinvolti e la loro distribuzione sul territorio, l’organizzazione di questo aspetto non sarà stata una sinecura.
R. Non è la prima occasione in carriera in cui mi trovo a gestire progetti multicentrici. Certamente, questa volta, l’innovazione tecnologica ha contribuito moltissimo a snellire alcune procedure precedentemente complesse e lunghissime. Il ricorso a Clouds accessibili da parte di tutti i centri, congiuntamente al lavoro mastodontico condotto da una referente stabile per questo lavoro (l’insostituibile dr.ssa Claudia Pignolo, sempre attenta, precisa, coinvolta) hanno permesso il perseguimento dell’obiettivo con meno difficoltà rispetto a studi analoghi condotti in passato.
D. Sul totale di protocolli raccolti, qual è, per questo tipo di studio, la media attesa di protocolli scartati? E le difficoltà maggiori incontrate nella raccolta?
R. Non credo che i protocolli scartati siano stati contati, semplicemente perché i criteri di validità dello strumento, rispetto al numero di item lasciati in bianco, sono molto chiari. Quindi ciascun collaboratore non caricava i dati che non soddisfacevano il principale requisito quantitativo relativo agli item completi. Qualche problema in più ci è stato dato dalla stratificazione del campione secondo le statistiche demografiche italiane; in questo caso il reclutamento delle fasce più anziane è stato più difficoltoso. Per poter rispettare la distribuzione anagrafica abbiamo dovuto scartare alcuni protocolli compilati da soggetti più giovani, ciò soprattutto in alcune regioni rispetto ad altre; in questo caso la selezione dei protocolli da mantenere è stata fatta con estrazione causale dall’intero dataset, tramite software.
D. Per un ricercatore come lei, quali sono le ricadute del lavoro di adattamento di un test in termini opportunità di ricerca?
R. Francamente? In tutta sincerità, dal punto di vista della ricerca scientifica, il gioco non vale la candela; adattare un test così lungo e complesso, con tre campioni normativi fra i quali un gruppo clinico (chiunque abbia mai fatto questo lavoro sa quanto sia difficile reperire i gruppi clinici rispettando un minimo di rappresentatività epidemiologica) è una fatica che, in termini di prodotti di ricerca scientifica, non ripaga dello sforzo. Certamente pubblicheremo dei lavori di approfondimento ma, al momento, lo sforzo condotto non ha corrispondenza in termini di pubblicazioni. Ovviamente, ci sono altri aspetti che costituiscono importanti ricadute, indipendentemente dalla ricerca scientifica: in primis la soddisfazione di aver portato in Italia uno fra i tre strumenti più utilizzati al mondo che, fino a questo momento, è stato indisponibile ai clinici italiani (e anche ai pazienti…). Si tratta di una soddisfazione di natura etica: avere a disposizione i medesimi strumenti diagnostici che altri paesi hanno da tempo per le mani. Ovviamente, non nascondo la soddisfazione personale e professionale per aver guidato (con l’infaticabile supporto dei colleghi delle cinque sedi e della dr.ssa Pignolo, di cui ho già parlato) il lavoro di adattamento; è la seconda volta che adatto un strumento di queste dimensioni e di pari notorietà (in precedenza avevo fatto il medesimo lavoro per il MCMI-III). Credo che nessun altro, in Italia, fino ad ora possa vantare un simile risultato.
D. In due battute: quali sono le specificità del PAI rispetto ad altri strumenti simili, disponibili in Italia, come MMPI-2, MCMI-III e SWAP-2000?
R. Fra gli strumenti citati, sicuramente il PAI assomiglia di più al MMPI-2, trattandosi di un inventario privo di modelli teorici di riferimento, costruito con un approccio epistemologico bottom-up, piuttosto che top-down (come nel caso del MCMI-III). Conseguentemente gli aspetti di validità dello strumento fanno decisamente più riferimento ad aspetti di natura psicometrica che non di costrutto, sui quali si può sempre discutere. Il punto di forza del PAI sta nella sua assenza di riferimenti teorici e nel richiamarsi puntualmente a dati empirici. Certamente si tratta di un self-report e, in quanto tale, risente della procedura autodescrittiva da parte del cliente/paziente (per esempio in termini di autoconsapevolezza oppure di sincerità o, ancora, di malingering). In questo senso la SWAP 200 appare più robusta, trattandosi di un clinician report e non di una procedura autodescrittiva. Va da sé che il riferimento a strumenti di assessment di tipo self-report costituisce un’utile euristica nei contesti clinici in cui risulti utile procedere ad uno screening diagnostico iniziale, magari anche rapido, oppure nel caso di grandi gruppi da valutare (come nei contesti di selezione militare, ad esempio). Relativamente alle differenze rispetto al MMPI-2, certamente il PAI è più maneggevole, essendo molto più corto ed inoltre, poiché meno noto nel contesto italiano (perlomeno fino ad ora…), appare anche meno “bruciato” da siti web e colleghi perniciosi che, in barba ad ogni principio deontologico, “insegnano”, dietro compenso, come rispondere al MMPI-2 e come costruire il proprio profilo psicologico desiderato. Infine, dai primi dati in nostro possesso, ma stiamo ancora lavorando a questo aspetto, ci pare di poter anticipare buone notizie in termini di sensibilità e specificità (e di tutte le statistiche di validità column based), per esempio rispetto al MCMI-III.