Osservatorio Talent
Intervista a Alessandro Reati
Intervista a Alessandro Reati
Grazie alla sua lunga esperienza nell’ambito della consulenza nelle organizzazioni, Alessandro Reati ci offre alcuni stimoli alla comprensione di questa pratica professionale.
D. Qual è la tua storia professionale? Attualmente su quali progetti sei principalmente impegnato?
R. La mia esperienza professionale si è avviata nel settore sociale, con una forte focalizzazione sulla promozione del benessere delle comunità locali, per poi spostarsi verso gli interventi di supporto alle organizzazioni, inizialmente quelle non profit, poi le istituzioni e infine il mondo profit. In parallelo ci sono stati circa tre lustri di esperienza in ambito universitario. Attualmente la mia pratica professionale mi porta in contatto con una rete eterogenea di azienda e di professionisti. Capita di operare con grandi aziende e con PMI, avendo come referenti interni sia componenti della funzione HR/organizzazione, sia soggetti appartenenti al C-Level (CEO; COO, CFO). Da ultimo stanno aumentando le relazioni con senior managers e line managers, ruoli che, soprattutto nelle organizzazioni più asciutte sono sempre più investiti di responsabilità anche su temi tipici della riorganizzazione e della gestione delle persone. Attualmente la maggior parte dei progetti è legata a processi di riorganizzazione o di consolidamento dei cambiamenti nelle aziende clienti. Normalmente è una relazione di tipo inter-organizzativo, ossia non basata sulla semplice relazione interprofessionale tra un consulente ed un consultante bensì una relazione complessa in cui, secondo l’approccio tipico del Project Management, un gruppo di consulenti specialisti supporta le necessità di una rete di committenti.
D. Come descriveresti la pratica professionale della psicologia del lavoro?
R. Ciò che in Italia definiamo “psicologia del lavoro e delle organizzazioni” in altre lingue assume spesso declinazioni differenti. Pensiamo all’ambito linguistico di matrice anglosassone: Industrial psychology, occupational psychology, work psychology, organizational psychology, business psychology. Sono definizioni che richiamano impostazioni specifiche e, spesso, interpretazioni ideologiche. In senso lato è possibile sintetizzare affermando che la pratica scientifica è orientate alla scoperte delle leggi che regolano il comportamento umano nei luoghi di lavoro, mentre la conseguente declinazione professionale è l’applicazione delle teorie e dei metodi con il fine di influenzare le organizzazioni, ottenendo un aumento di performance e soddisfazione. In altri termini, gli psicologi che operano come consulenti cercano di sostenere individui, gruppi ed organizzazioni nel raggiungimento di condizione di benessere e performance lavorativa. Per correttezza va ricordato che la grande maggioranza dei professionisti del settore tende ad integrare nei modelli strettamente psicologici anche contributi derivanti anche da una altra area di studio scientifico, quella dell’organizational behaviour, area di tipo transdisciplinare, con forte caratterizzazione sociologica. Per intenderci sul significato di consulenza possiamo richiamarci standard ISO: qualche anno addietro è stata pubblicata la norma europea EN 16114, Management Consultancy Services. Fornisce linee guida per la fornitura efficace di servizi di consulenza di direzione (consulenza di management) a livello europeo. La norma europea, recepita nella UNI EN 16114: 2011, è applicabile a tutte le tipologie di consulenti di direzione (consulenti di management): organizzazioni pubbliche e private, enti governativi, incluso il settore no-profit e le unità di consulenza interne, a prescindere dalla natura della proprietà, struttura, dimensioni o dalle specializzazioni delle stesse. Normalmente la consulenza impatta sul sistema socio-organizzativo ed il suo funzionamento, ossia: la definizione di obiettivi e programmi di azione, l'articolazione in unità operative, la struttura dei processi (operativi e di supporto), l'implementazione di procedure, linee guida e policy, il controllo e il rendiconto delle attività, il monitoraggio delle prestazioni, l'attuazione delle azioni correttive. La consulenza tipica della psicologia delle organizzazioni viene ovviamente declinata soprattutto con una focalizzazione sulla parte definita “Risorse Umane” ossia sulla creazione ed il mantenimento del sistema sociale dell’organizzazione. Le pratiche professionali specifiche sono la ricerca, la selezione, il disegno dei modelli di competenza e dei processi di inserimento e carriera, le attività formative, monitoraggi partecipati di clima, cultura e allineamento manageriale.
D. Come possiamo declinare tutto il capitolo dell’intervento individuale nelle organizzazioni?
R. Talvolta la situazione appare più complessa di quanto realmente sia. Premesso che nelle organizzazioni è possibile agire solo in chiave sistemica, fosse anche solo per la necessità di un processo di negoziazione iniziale dell’intervento che coinvolge componenti gerarchiche, è comunque tratteggiabile una cornice di riferimento metodologico in cui valorizzare gli interventi individualizzati, senza mai negare l’importanza della dimensione gruppale. In Cegos abbiamo sviluppato un semplice modello, definito AdPersonam, che cerca di aiutare i clienti a comprendere come intrecciare le esigenze del singolo con la possibile risposta supportiva del consulente. La gestione di questa modalità viene svolta attraverso percorsi dedicati, variamente declinati per rispondere a esigenze in termini di sviluppo di conoscenza, abilità, sensibilità o progettazione di azioni concrete. Si tratta dunque di una metodologia integrata in cui teaching, coaching, counseling e consulting possono interagire e, talvolta, completarsi vicendevolmente. Si tratta di una modalità coerente con alcuni fenomeni che caratterizzano le attuali organizzazioni. Semplificazioni e alleggerimenti strutturali che generano posizioni solitarie, delocalizzazioni e virtualizzazioni dello spazio di lavoro hanno portato sempre più in emersione bisogni individuali che, se trascurati, non possono che produrre malessere.
D. A tuo parere quale approccio ritieni possa essere in futuro il perno dell’intervento?
R. La questione delle competenze. Nonostante non sia certo un tema nuovo è ancora possibile immaginarlo come un territorio da esplorare. Le aziende , anche quando hanno uno scopo primario di tipo industriale, sono comunque sempre più orientati alla cultura del servizio al cliente e al mercato. Sono ormai dei sistemi socio-tecnici expertise-based. Questa tendenza comporta un aumentato grado di attenzione alle competenze delle persone che compongono l’organizzazione. In ambito business sono stati creati dei modelli di gestione mirati alla visualizzazione e, conseguentemente, valorizzazione delle competenze ritenuto centrali per il successo aziendali.
La gestione basata sulle competenze è però una prassi non semplice, trattandosi di una soluzione articolata e dinamica ad una esigenza complessa. Tutti gli attori coinvolti dovrebbero mostrare consapevolezza tecnica, senso di responsabilità e disponibilità alla gestione dei conflitti organizzativi che qualsiasi modello rende espliciti. In altri termini, la gestione per competenze richiede executive e manager maturi e caratterizzati dalla leadership di servizio. In uno scenario di questo genere il contributo della psicologia del lavoro è fondamentale
D. Nell’ambito della promozione culturale e scientifica della professione sono presenti diverse società ed associazioni. Come interpreta la situazione?
R. Il percorso di valorizzazione della pratica scientifica e professionale, è stato lungo e anche oggi è spesso travagliato. Si tratta di un processo che viene supportato soprattutto da alcune forme di rappresentanza associativa. Possiamo dunque considerare tre diverse forme di aggregazione, in buona parte sovrapponibili seppur con alcune tensioni: le strutture specifiche a valenza internazionale, quelle a valenza locale e le associazioni che non rappresentano psicologi ma esperti di pratiche anche a matrice psicologica. Nella prima tipologia possiamo richiamare EAWOP (European Association of Work & Organizational Psychologist) e IAAP (International Association for Applied Psychology); Istituzionali nazionali ma con rilevanza internazionale sono SIOP (Society for Industrial and Organizational Psychology, divisione dell’APA-American Psychological Association) e la divisione specifica della BPS (British Psychological Society). Trovo interessante la recente nascita di alcune associazioni di nicchia: ABP (Association of Business Psychologists) e ISFCP (International Society For Coaching Psychology). A livello locale bisogna considerare la SIPLO (Società Italiana per la Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni) e l’Ordine degli Psicologi, che, purtroppo solo saltuariamente, cerca di richiamare la presenza di questa area applicativa. Per ovvia contiguità professionale dobbiamo considerare AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale), SHRM (Society for Human Resources Management, USA) e CIPD (Charted Institute for Personelle Development). Ognuna di questi enti è portatore di interessanti intuizioni circa le modalità di influenzamento ed evoluzione delle comunità organizzative. Lunghissima sarebbe poi la lista di organizzazioni orientate alle singole pratiche professionali. Solo riferendoci alla formazione professionale e manageriale non possiamo che richiamare una storica realtà italiana quale AIF (Associazione Italiana Formatori) e, con una visione internazionale, a ATD (Association for Talent Development, USA, in precedenza nota come ASTD, American Association for Training & Development). Cosa ha prodotto questa ricca rete di istituzioni ed associazioni professionali e scientifiche? Certamente una comunità internazionale in cui professionisti ed accademici interagiscono, spesso con grande sintonia ma con scarso impatto sul real world delle organizzazioni business oriented che, pur riconoscendo la competenza psicologica come fondamentale, raramente si domandano se il consulente di management che hanno ingaggiato “è” psicologo o, formato ed abilitato in altre discipline, “usa” comunque strumenti psicologici. Penso che sia nostra responsabilità ricordare costantemente al mercato che la competenza reale è quella che si basa su modelli consolidati, validati scientificamente ed eticamente monitorati e non, semplicemente, sulla mode manageriali del momento.
D. Quali possono essere le prossime evoluzioni nello sviluppo di questa pratica?
R. In Italia sono in atto due tendenze. La prima spinge verso un ritorno ad un lontano passato, verso l’interpretazione di ruolo in chiave fortemente operativa, sostenendo implicitamente l’idea di uno psicologo visto come uno psicotecnico, un tecnologo al servizio delle decisioni dei manager. La seconda promuove il profilo di un esperto di processo, orientato a integrare le diverse e conflittuali esigenze sociali che fisiologicamente attraversano ogni organizzazione ed istituzione. Per mia formazione ed esperienza, oltre che per scelta etica, non posso che sostenere la seconda. Come già in tempi lontani veniva sostenuto da Spaltro, uno dei padri italiani della disciplina, ancora oggi si tratta di passare da una visione legata a temi di imposizione, sacrificio, pesantezza, scarsità, ossessione del risultato ad una nuova interpretazione ottimistica in cui siano il desiderio e non il bisogno, la costruzione sociale e non il conformismo, a guidare le scelte nel mondo del lavoro.