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numero 5 - febbraio 2013

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Il workaholism: quando si lavora troppo

Il workaholism: quando si lavora troppo

Tra le numerose e sempre più aggressive “nuove dipendenze”, il workaholism (Oates, 1971, 1981) occupa un posto a sé, collocandosi in un’area di non facile individuazione e manifestandosi, non a caso, come una dipendenza rispettabile e pulita, a confronto con le classiche tossicodipendenze. Si tratta, in realtà, di un vero e proprio fenomeno di addiction (Robinson, 1989), esattamente parallelo alla compulsione che conduce molte donne (soprattutto, ma non solo) ad acquistare ciò di cui non hanno e non avranno mai necessità (la cosiddetta sindrome di acquisto compulsivo, o compulsive-buying disorder).

Ma nell’era digitale e di internet non potevano mancare i fenomeni legati al non sapere più staccare la spina del computer, in particolare nella forma di internet-dipendenza e di dipendenza da sesso virtuale. Ciò che è interessante in questo nuovo quadro delle dipendenze della modernità liquida è che esse non fanno più riferimento all’utilizzo di sostanze (come le tradizionali dipendenze da tabacco e alcol) ma ad oggetti, comportamenti e, in generale, “situazioni” (v. Caretti, La Barbera, 2005). Il lavorare compulsivamente si affianca così alla dipendenza da gioco d’azzardo – oggi più che mai visualizzabile nel gioco alle slot machine – e da videogiochi, mentre la classica, vecchia dipendenza da TV resiste ma appare ormai – se confrontata con queste nuove addiction – quasi innocua.

Sono state notate le situazioni cosiddette di co-morbilità nelle quali l’una o l’altra delle nuove dipendenze sopra dette si associano tra loro o si coniugano con altre dipendenze, comprese quelle che riguardano il cibo. L’insieme degli addictive disorders compariranno probabilmente nel quadro di riferimento del nuovo DSM – il manuale internazionale, diagnostico e statistico, dei disturbi mentali che, giunto da tempo alla quarta edizione rivista ed aggiornata, è ormai prossimo a vedere la luce come quinta edizione (sarà presentato dalla American Psychiatric Association nel maggio 2013).

Lavorare molto o lavorare “troppo”?

Com’è intuibile, nel momento in cui si parla di “dipendenza” diviene cruciale evidenziare la qualità del comportamento del soggetto, il suo sentimento ed anche la quantità di tempo dedicato all’attività in questione. Ciò è tanto più vero per ciò che attiene l’alcolismo da lavoro: dunque, seguendo un approccio concreto è necessario prima di tutto differenziare il workaholism dalla situazione tipica delle (tante) persone che amano il proprio lavoro e che, di conseguenza, sono in grado di realizzare prestazioni professionali molto sopra la media, senza un apprezzabile sforzo inteso come “fatica” o distress occupazionale. Si tratta dei cosiddetti hard workers, o lavoratori ad “elevate prestazioni”. Persone di questo genere vedono loro stesse e si riconoscono nel lavoro che svolgono, interpretandolo nella vita quotidiana come un elemento portante della propria vita e come un fattore di soddisfazione intrinseca di elevata potenza: sono proprio le motivazioni cosiddette “intrinseche” che superano in grado e in qualità quelle estrinseche, che supportano la persona nel “duro lavoro” e la portano a baricentrarsi in un modo che è, al contempo, sano e realizzativo, pur se sovra-impegnato (Gellerman, 1963). Ma è importante notare che al lavoro così duramente inteso il soggetto riesce ad alternare momenti e spazi di vita del tutto liberi dal pensiero del lavoro e a godere di tali spazi anche al fine di rigenerarsi e ricaricarsi in vista di future sfide.

Dunque, l'attività lavorativa è collocata nel campo psichico della passione, della motivazione, dell'interesse, della dedizione realizzativa, non è vissuta come un’ossessione, né come un qualcosa cui non è possibile o lecito sfuggire. Uno dei criteri più rilevanti nel differenziare l’hard worker dal workaholic è costituito dal fatto che è la persona stessa che guida e domina il proprio sforzo realizzativo e non ne risulta schiava, né dominata. Non sono presenti la “fame di lavoro” e la compulsione a lavorare, riuscendo a vivere momenti di svago del tutto liberi dal pensiero professionale e vivendo il lavoro non come un fine in se stesso ma come un mezzo per realizzarsi, ed anche per conseguire fini concreti della vita esterna. Se è vero che al lavoro si dedica una grande parte della vita, è anche vero che al lavoro sono dedicate concentrazione e immersione mentale specifiche e adeguatamente confinate nello spazio-tempo professionale: la vita privata e personale rimane distinta dal lavoro e possono darsi dei momenti nei quali il lavoro è duramente criticato sulla base di riflessioni razionali per le quali il soggetto non risulta “essere legato” all'oggetto-lavoro, né esserne passivamente affascinato.

Colui che lavora spinto dalla motivazione ad eccellere è dunque il tipico “hard worker” diffuso nella cultura nordamericana, che sperimenta l'attività di lavoro come un fondamentale mezzo per l'affermazione della propria personalità. I professionisti ed i manager che eccellono sanno sicuramente che nella loro vita potrebbero fare difficilmente a meno del valore aggiunto che è loro offerto dal lavoro e dalla soddisfazione collegata alle modalità con le quali vivono e realizzano il lavoro: sono però presenti la consapevolezza di ciò che è fatto e il senso di autocritica, la capacità di riflettere sulle modalità realizzative e sulle modalità operative.

Il criterio della consapevolezza è assolutamente fondamentale per comprendere la differenza tra il lavorare duro e l'alcolismo da lavoro (Castiello d’Antonio, 2009, 2010b; Lavanco, Milio, 2006): coscienza di sé significa, appunto, capacità di autocriticarsi e di limitarsi, di rivedere i confini della propria vita e di ridistribuire gli spazi ed i tempi del proprio impegno professionale. Ed è esattamente la consapevolezza del limite che manca al workaholic. Oggi, che per numerosi uomini e per molte donne l'aspetto professionale è divenuto un aspetto importantissimo della vita, è sempre in agguato il rischio che l'identità professionale si alimenti ed alla fine inglobi l'identità personale, che lo stress positivo – l'attivazione e l'energizzazione – si tramuti in distress negativo, che gli impegni di lavoro si amplifichino fino a coinvolgere aspetti rilevanti della sfera personale e che tutto ciò dia anche adito a squilibri psicofisici. Il confine tra la persona appassionata al lavoro e il workaholic può essere sicuramente molto tenue ed è spesso difficile mettere in guardia coloro che stanno per valicare questo debole confine: tutto ciò testimonia la necessità di sviluppare strumenti adeguati per valutare il workaholism. Tra i più noti si possono ricordare il Work Addiction Risk Test – WART (Robinson, 1989), il Workaholism Battery – WORK-BAT, di Spence & Robbins (1992), e la Schedule for Nonadaptative Personality Workaholism Scale – SNAP-WORK, di Clark (1993).

Fenomenologia del workaholism

Il workaholic – secondo un folgorante detto americano – è la persona che alla domanda Come stai? risponde Sono molto occupato… e via di seguito, elencando una serie di attività che sta svolgendo, che ha completato e che, soprattutto, dovrà affrontare.

In senso generale, il workaholism ha in comune con le dipendenze psicologiche tre caratteristiche fondamentali. La prima è l’ossessività, cioè la tendenza a pensare al lavoro, a tornare con la mente al lavoro svolto o ad anticipare ciò che si dovrà svolgere nel futuro. Questi pensieri possono accompagnarsi ad apprensione o ansietà, oppure essere tenuti in certo modo a bada dall’intellettualizzazione e dalla ruminazione ossessiva. Il secondo elemento è l’impulsività, che comporta – nelle situazioni in cui la persona si astiene dal lavoro – l’emergere di stati di nervosismo, irritabilità, agitazione psicomotoria o comportamenti aggressivi. Inoltre la condotta impulsiva limita la capacità del soggetto nel regolare se stesso in tutte le situazioni di vita, conducendolo inevitabilmente a ricercare la situazione di appagamento all’irresistibile bisogno che sente emergere. Per terzo, si deve notare la presenza della compulsività, il che significa che la persona soprattutto agisce, e agisce senza riflettere, non considerando le conseguenze che le sue azioni possono produrre (su se stesso e/o sugli altri).

Nell’insieme, queste tre caratteristiche applicate al lavoro comportano uno stile di vita lavoro-centrico, dal quale ogni altra occupazione è bandita, con notevole danno per la vita familiare e sociale della persona. In realtà, i danni che comporta il lavorare continuamente, nei weekend, accumulando ferie non godute, rimanendo connessi con gli strumenti elettronici al contesto di lavoro anche di sera, di notte e quando si trascorre del tempo nella propria abitazione, è un danno notevole. Dal punto di vista del benessere individuale, il workaholism si associa spesso a numerosi elementi altamente pericolosi per la salute complessiva della persona come la vita sedentaria (oppure, all’opposto, vita frenetica), abitudini alimentari non corrette (tipica è l’abitudine nel saltare il pasto di metà giornata e giungere alla sera esprimendo quella “fame compensatoria” che provoca ulteriori problemi), propensione a sviluppare dipendenze dal tabacco, dall'alcol, dalla caffeina, o da altre sostanze utilizzate e vissute come “fonti di recupero” del tono generale dell'organismo, tendenza a far uso di psicofarmaci – ad esempio sonniferi per combattere l'insonnia, e/o ansiolitici ed antidepressivi per essere il più possibile “efficienti” nel tempo di lavoro, incuria generale del corpo, dell'apparato scheletrico e del tono muscolare. Tendenza a rendere fragile il corpo nel suo insieme e a trascurare i primi segnali di malessere e disagio fisico, non trovando mai il tempo per effettuare controlli e attività di prevenzione sanitaria.

Al di là dei riflessi sulla salute della persona, sono soprattutto i due contesti sociali di diretto riferimento a fare le spese della dipendenza da lavoro: la famiglia e il team in cui il workaholic esplica la propria attività. È stato notato che fin troppo spesso la famiglia diviene una sorta di alleata inconsapevole del soggetto lavoro-dipendente, mentre in altre situazioni si sviluppa un silenzioso e progressivo disfacimento del nucleo familiare dal quale il workaholic è pian piano escluso. Nell’ambiente di lavoro la presenza di un workaholic può essere estremamente gravosa nel caso in cui egli sia collocato in un ruolo di responsabilità professionale o, soprattutto, manageriale. È, infatti, tipico di questo soggetto aspettarsi dagli altri le proprie stesse elevate prestazioni e se tale attesa è veicolata da un capo intermedio verso il gruppo dei propri collaboratori, allora il clima di lavoro ne risente pesantemente. Possono emergere con facilità stili di management distruttivi, centrati sull’autoritarismo e sul controllo, sull’esercizio della pressione costante supportata dal considerare gli esseri umani come macchine che devono funzionare per il raggiungimento dell’obiettivo (Castiello d’Antonio, 2001, 2008).

Alcuni studiosi hanno provato a definire il workaholism in termini oggettivi, ad esempio in numero di ore lavorate al giorno o alla settimana, ma tale ricerca di parametri obiettivi può risultare fuorviante e poco significativa rispetto a tutto ciò che si è illustrato fino a qui. In realtà, l'ubriaco di lavoro è una persona che fa sempre e costantemente molto di più di ciò che dovrebbe fare, prescindendo assolutamente dalle richieste esterne e da motivazioni razionali. La sua condotta è univoca, irrazionale, compulsiva, eccessivamente sostenuta da un investimento emotivo monodirezionato nei confronti del lavoro. In sostanza, egli è spinto da un bisogno interno che non lascia scampo.

Ma, come ho cercato di evidenziare in un mio recente libro (Castiello d’Antonio, 2010), credo che questa nuova malattia della modernità sia da collegare strettamente al sistema di valori nel quale oggi è immersa la società occidentale, e alle numerose e variegate “patologie organizzative” (Castiello d’Antonio, 2011, 2013) che rendono così spesso il luogo di lavoro un ambiente assolutamente inumano (v. La Barbera, Guarneri, Ferraro, 2009).

Bibliografia

  • Caretti V., La Barbera D. (2005), Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Castiello d’Antonio A. (2001), Psicopatologia del management. La valutazione psicologica della personalità nei ruoli di responsabilità organizzativa. Franco Angeli, Milano.
  • Castiello d’Antonio A. (2008), Il “Management by Stress”, venti anni dopo. Direzione del Personale, 4, 42-43.
  • Castiello d'Antonio A. (2009), Lavori forzati. Mente & Cervello, VII, 51, 36-43.
  • Castiello d’Antonio A. (2010a), Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il Workaholism. Cooper Editore.
  • Castiello d’Antonio A. (2010b). Ubriachi di Lavoro. Il Workaholism. Psicologia Contemporanea, 221, 21-25.
  • Castiello D’Antonio A. (2011), Leadership Malata. Le patologie del Management. Psicologia Contemporanea, 228, 12-15.
  • Castiello d’Antonio A. (2013), L’Assessment delle qualità manageriali e della leadership. La valutazione psicologica delle competenze nei ruoli di responsabilità organizzativa. Franco Angeli, Milano.
  • Clark (1993), Manual for the Schedule for Nonadaptative and Adaptative Personality (SNAP). University of Minnesota Press, Minneapolis.
  • Gellerman S. W. (1963), Motivazione e produttività del lavoro. Etas Kompass, Milano 1967.
  • La Barbera D., Guarneri M. Ferraro L. (2009), Il disagio psichico nella post-modernità. Magi, Roma.
  • Lavanco G. Milio A. (2006), Psicologia della dipendenza da lavoro. Astrolabio, Roma.
  • Oates W. E. (1971), Confessions of a Workaholics: The Facts about Work Addiction. World Publishing, New York.
  • Oates W. (1981), Excessive Work. In Mule S. J. (Editor), Behavior in Excess: An Examination of The Volitional Disorders. Free Press, New York.
  • Robinson B. E. (1989), Work Addiction. Hidden Legacies of Adult Children. Health Communications. Dearfield Beach.
  • Spence J. T., Robinson A. S. (1992), Workaholism: Definition, Measurement, and Preliminary Results. Journal of Personality Assessment, 58, 1, 160-178.