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Il piacere di uccidere. Brevi riflessioni sull’omicidio seriale
Il piacere di uccidere. Brevi riflessioni sull’omicidio seriale
È di questi giorni la notizia dell’ennesimo caso di cronaca che vede imputata una donna accusata di aver volontariamente provocato la morte a degli anziani. Con un vocabolo a metà strada tra la tradizione medievalistica e quella teologica, si chiamo angeli della morte coloro, in prevalenza donne (definizione velatamente sessista che si pone in antitesi al femmineo ruolo di donne come “angeli del focolare”) che uccidono pazienti in ospedale, o degenti in case di riposo, o comunque vittime che in virtù della loro posizione inerme o subordinata non possono validamente opporre alcuna resistenza.
Un quadro teorico psicosociologico di spiegazione del comportamento omicidiale seriale è offerto dal modello di controllo del trauma (trauma-control model) di Hickey (Ciappi, 1997). Secondo questo approccio plurifattoriale, l’autore di delitti seriali è esposto ad uno o più fattori predisponenti, ritenuti capaci di influenzare il comportamento: fattori biologici, storie di abuso durante l’infanzia, isolamento sociale, esposizione a materiale pornografico, carattere psicopatico ecc., nessuno dei quali è di per sé sufficiente a spiegare il comportamento delittuoso seriale. Questi fattori hanno una portata “destabilizzante” ed alcuni eventi verificatisi nel corso della vita a carattere negativo (come la separazione dei genitori, una storia di maltrattamenti e di abusi durante l’infanzia, l’esposizione in tenera età a scene di violenza) possono essere vissuti come forme di traumatizzazione cronica.
Il ruolo della traumatizzazione infantile, come dimostrano ricerche recenti sul trauma, è forte (mi si permetta di rimandare al mio Ciappi, 2015). Così come gioca un ruolo centrale quello che i teorici dell’attaccamento definiscono come attaccamento disorganizzato. Fattori questi che vanno ben a comporre la sfera mentale dell’autore di delitti seriali.
Ma vi è di più: a contraddistinguere la personalità criminale, sono anche alcune componenti che possono essere definite un vero e proprio cocktail esplosivo, ovvero l’unione di quello che Kernberg definisce “narcisismo maligno” con la perversione (che almeno in un’ottica psicanalitica costituisce la mancanza di una visione unitaria dell’oggetto).Il narcisista maligno ha un potere assoluto sull’oggetto, evita il confronto con questo e al pari di ogni narcisista ma con maggiore intensità, annulla la realtà esterna, l’oggetto, visto come elemento da cannibalizzare.
Il narcisista maligno fa collezioni di oggetti da sottomettere, da uccidere per dimostrare la propria onnipotenza. È come se rimanesse fissato in quella che Melanie Klein chiama posizione schizo-paranoide. Gli oggetti del mondo esterno rappresentano identificazioni proiettive maligne che mettono in discussione il proprio io: meglio eliminarle quindi. Il killer serial in gonnella o in corsia uccide vittime inerti, gode del piacere di infliggere la morte e ciò costituisce una sorta di autodifesa dal sentimento di dissoluzione, di vuoto e rabbia. I serial killer traggono un’ eccitante esperienza sessuale dal terrore che provocano alle vittime, dal potere assoluto che esercitano su di loro. Uno dei più efferati serial killer, Edmund Emil Kemper ebbe a dire sul punto: “ho avuto fantasie di stragi: interi gruppi di donne scelte che potevo riunire in un luogo e far morire, per poi fare l’amore follemente e appassionatamente con i loro cadaveri. Togliere la vita a loro, a un essere umano vivo, e poi avere in mio possesso tutto quello che era loro: sarebbe stato tutto mio. Tutto.” La testimonianza ci illumina sul perché l’assassino seriale sceglie vittime sconosciute, oggetti anonimi, sulle quali poter riversare le proprie fantasie, per raggiungere ciò che più hanno a cuore: l’orgasmo derivato dal potere assoluto sulla vittima, oggetto del desiderio a lungo fantasticato che va oltre il mero appagamento sessuale (Ciappi e Pezzuolo, 2014).
Due degli strumenti psicodiagnostici più utili per effettuare un assesment forense sono rappresentati, oltre che dall’Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2), dal Rorschach Test e dal Millon Clinical Multiaxial Inventory – III (MCMI-III), tanto per fare alcuni esempi, dall’HCR-20 e dalla Hare Psychopathy Checklist – Revised (PCL-R), strumenti utilissimi per sondare l’eventuale presenza di sintomatologie psicopatiche e aggressive nella persona indagata per reati seriali.
In questo genere di delitti, consumati e reiterati, spesso l’unica banale spiegazione sta nell’attivazione di una modalità dell’agire tutta piegata sul versante predatorio. Si tratta di reati che dietro l’apparente lucidità dei suoi perpetratori nascondono tutta l’animalesca voglia ferina di sbranamento, di possesso, l’attivazione di un sistema di difesa che ha annullato emotività e la capacità di mentalizzazione: animali feroci nella radura in cerca di vittime inerti da sbranare.
Bibliografia
- Ciappi S. (1997). Serial Killer. Milano: Franco Angeli.
- Ciappi S., Pezzuolo S. (2014). Psicologia Giuridica. Firenze: Hogrefe Editore.
- Ciappi S. (2015). Ritratto di una mente assassina. Trauma, attaccamento e dissociazione in un killer seriale. Milano: Franco Angeli.