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numero 48 - giugno 2017

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Il farmaco in psicoterapia

Il farmaco in psicoterapia

La psichiatria è una branca della medicina davvero particolare, che come le altre specialità ha cercato di allinearsi negli ultimi decenni, con non poche difficoltà, al paradigma della medicina basata sull'evidenza (Evidence Based Medicine). Ricordiamo che la psichiatria è, almeno a mia conoscenza, l’unica specialità medica che abbia generato movimenti ideologici che la mettono completamente in discussione (non sto chiaramente parlando delle medicine cosiddette alternative o provenienti da altre culture), confutando l’esistenza stessa della malattia mentale, che per alcuni è solo un costrutto per così dire sociale. Non esiste l’anticardiologia o l’antidermatologia, mentre esiste l’antipsichiatria! In questo clima non sempre leggero, fare lo psichiatra oggi riserva spesso delle grandi soprese se si confronta la pratica clinica con quello che si legge sulla letteratura scientifica (metanalisi, studi controllati randomizzati, ecc.). Capita di frequente, ad esempio, che persone stiano meglio a causa di fattori extraterapeutici, cioè che non c’entrano con la terapia farmacologica impostata o con le tecniche psicoterapiche che vengono proposte. In questa cornice di incertezza sia gli studi che la pratica clinica evidenziano come la relazione terapeuta-paziente resti il principale e più importante e imprescindibile fattore terapeutico, al di là degli orientamenti teorici. E cosa dire degli psicofarmaci?

 

Psichiatria biologica, tramonto di un mito

Dopo il tramonto, alla fine degli anni Novanta, del mito della psichiatria biologica di provenienza prevalentemente americana, che potremmo provocatoriamente sintetizzare nel motto “un farmaco per correggere ogni stato emotivo”, il ruolo della psicofarmacologia è stato indubbiamente ridimensionato, anche se gli psicofarmaci restano ancora medicine molto prescritte e in tante situazioni assolutamente indispensabili. Esistono ormai diverse evidenze di come l’integrazione tra terapia psicofarmacologica e psicoterapia (in particolare la terapia cognitivo comportamentale – CBT –  che è più facilmente studiabile) ottenga i risultati migliori per la cura (e la prevenzione delle ricadute) di tanti disturbi psichiatrici come la depressione maggiore (Spijkjer et al., 2013), i disturbi d’ansia (Cujipers et al., 2014), il disturbo bipolare (Parikh, 2014), il disturbo di personalità borderline (Bellino et al., 2010). Al di là della letteratura, qualunque psicoterapeuta sa bene che quando la sintomatologia clinica del paziente raggiunge un certo livello di gravità o il funzionamento della persona è molto compromesso, l’invio dallo psichiatra per valutare una terapia farmacologica è praticamente indispensabile, pena l’impossibilità di lavorare dal punto di vista psicoterapico, con l’aumento del rischio di drop out dalla psicoterapia. È utile in questi casi condividere con il paziente il significato da attribuire alla medicina, come un aiuto esterno da integrare alla psicoterapia, magari solo per un periodo limitato, finché la persona non sia di nuovo in grado di “camminare con le proprie gambe” (molti terapeuti usano a questo proposito proprio la metafora del farmaco come “stampella”). Dall’altra parte, la copresenza dello psicoterapeuta può essere di grande utilità anche per lo psichiatra per migliorare la compliance alla terapia, che come sappiamo resta davvero molto scarsa in ambito psichiatrico, soprattutto per quanto riguarda gli antidepressivi (Serna et al., 2010). In certi casi lo psicoterapeuta può essere coinvolto anche nella cosiddetta psicoeducazione, come nel caso del disturbo bipolare, dove l’intervento farmacologico viene integrato con una serie di strategie atte al miglioramento dello stile di vita e al riconoscimento precoce dei sintomi d’allarme, che possono coinvolgere anche i familiari (Chatterton et al., 2017).

 

I controversi antidepressivi

Nonostante siano farmaci molto prescritti, spesso anche dai medici di medicina generale, esiste ancora un forte dibattito relativamente all’efficacia degli antidepressivi, dopo trent’anni dal lancio sul mercato della celeberrima fluoxetina (Prozac), avvenuto nel 1987. Diversi studi riportano come oltre il 30% delle persone affette da depressione e trattate con antidepressivi non risponda alle suddette terapie, evidenziando come esista una sorta di popolazione resistente che necessita di altri tipi di trattamento (Little, 2009). Alcuni studi hanno inoltre sottolineato come il ritorno dei sintomi depressivi, anche con una terapia di mantenimento, si manifesti nel 9-57% dei casi, evidenziando una sorta di tolleranza a questi farmaci, che a maggior ragione rendono indispensabile l’integrazione con la psicoterapia (Fava, 2014).

Al di là di alcune sterili polemiche un po’ qualunquiste e ai soliti pregiudizi sugli psicofarmaci (fanno dormire tutto il giorno, ti cambiano la personalità, ecc.), negli ultimi anni è comparsa una letteratura critica più puntuale, spesso opera di giornalisti scientifici come l’americano Whitaker (2013), che mettono in evidenza alcune questioni ancora aperte e cruciali circa l’utilizzo dei farmaci antidepressivi (ma anche degli antipsicotici). Tra queste, oltre alla questione dell’efficacia, viene sottolineato come esista ancora, soprattutto negli Stati Uniti, una tendenza all’iperprescrizione di piscofarmaci e di conseguenza un aumento delle disabilità psichiatriche (Whitaker, 2013; Herzberg, 2014). Anche l’ultima versione del DSM (2013), il principale sistema classificatorio psichiatrico, è stata piuttosto criticata a questo riguardo, in quanto tenderebbe ad allargare le maglie della psicopatologia tentando di includere condizioni fisiologiche come il lutto, che quindi diventerebbero potenziali nuovi bersagli per la terapia farmacologica.

Secondo studi recenti l’uso più razionale degli antidepressivi prevedrebbe il loro utilizzo nel caso sia davvero presente un quadro di depressione maggiore, magari con sintomi come inappetenza, perdita di peso, insonnia, disturbi psicomotori (meglio se valutati anche con qualche scala psicometrica). Nei cosiddetti quadri sotto-soglia il beneficio è molto minore e sarebbe più consigliabile valutare altre ipotesi terapeutiche (Fava, 2014). Nella pratica clinica molti psichiatri tendono a iperprescrivere, sentendosi quasi in obbligo di dare sempre qualcosa, mentre in molti casi più lievi sarebbe consigliabile un atteggiamento meno interventista e più attendista. È giusto ricordare che il ruolo dello psichiatra non è solo quello di dare psicofarmaci, ma anche quello di toglierli se non necessari o di escluderne il bisogno. Gli antidepressivi sono anche indicati nel trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche in questo caso, non va dimenticato che nei casi meno gravi si può sempre ricorrere per brevi periodi alle demonizzatissime (a favore naturalmente degli antidepressivi) benzodiazepine, chiaramente quando non si configuri il rischio di un potenziale abusatore (anamnesi negativa per tossicodipendenze e assenza di aspetti di personalità spiccatamente dipendenti) (Offidani et al., 2013).

 

Placebo e psicofarmacoterapia psicodinamica

Un’altra questione molto dibattuta e interessante è quella del rapporto tra antidepressivi ed effetto placebo, sollevata alcuni anni fa dal ricercatore Irving Kirsch (2010), che un po’ casualmente, studiando appunto l’effetto placebo negli studi controllati randomizzati sugli antidepressivi (dove una parte del campione riceve il placebo e l’altra l’antidepressivo), evidenziò clamorosamente delle differenze non clinicamente significative tra i due gruppi. Questi studi sottolineano l’importanza delle aspettative, delle credenze e dell’assetto cognitivo della persona che assume la terapia ai fini del successo della terapia stessa. Come esiste il placebo esiste anche il suo contrario, il cosiddetto nocebo, che si manifesta come effetti collaterali o avversi quando le aspettative sulla medicina sono negative o non c’è fiducia in chi le prescrive. Alcuni studi hanno dimostrato come l’effetto dell’antidepressivo possa essere infatti modulato da chi prescrive e alcuni prescrittori, evidentemente dotati di un certo carisma, ottengono addirittura risultati migliori con il placebo, che altri prescrittori con il farmaco attivo! Ma anche l’ambiente gioca un ruolo importante e una recente ricerca condotta presso l’Università di Modena e Reggio Emilia sulla fluoxetina ha mostrato come nei topi il farmaco funzioni meglio quando il contesto ambientale è tranquillo e povero di stress (Alboni et al., 2017).

A questo riguardo, per comprendere meglio gli aspetti psicologici legati all’assunzione dei farmaci è nata da un po’ di tempo una nuova corrente di studio che prende il nome di psicofarmacologia psicodinamica, che si concentra sul ruolo centrale del significato e dei fattori interpersonali (meaning effect) del trattamento psicofarmacologico, partendo da concetti psicodinamici come inconscio, transfer, conflitto, resistenza, difesa (Mintz e Belnap, 2006). Lo psicofarmacologo “psicodinamico” considera la reazione positiva o negativa al farmaco non solo come l’azione diretta della pillola o della goccia, ma come mediata dai significati che il paziente attribuisce al farmaco. “È più importante conoscere che tipo di paziente ha la malattia, rispetto a sapere a che malattia ha il paziente” asseriva saggiamente Sir William Osler, medico canadese considerato il padre della medicina moderna. In questo senso andrebbero sempre indagati i vissuti personali di significato del paziente rispetto al trattamento farmacologico (timore di dipendenza, timore di diventare uno zombie, ecc.), con un conseguente miglioramento dell’alleanza terapeutica. Anche affrontare l’ambivalenza del paziente rispetto alla scomparsa dei sintomi può essere utile, indagando le aspettative della vita senza sintomi (circa la metà dei pazienti secondo gli studi trovano vantaggi secondari nel ruolo di malato o nel trattamento). Secondo questo approccio nei numerosi casi resistenti ai farmaci il consiglio è quello di valutare più i fattori relazionali (come la frequenza degli appuntamenti) che biologici, aumentando cioè la dose del dottore, più che della medicina (Ankarberg et al., 2008).

 

In conclusione

È sempre più evidente come, soprattutto nei casi psichiatrici complessi, sia necessario un approccio terapeutico integrato che può comprendere la terapia farmacologica, la psicoterapia (che oggi ha a disposizione tecniche più specifiche come la mindfulness o l’EMDR) e il miglioramento dello stile di vita (ormai diversi studi hanno mostrato, ad esempio, come l’attività fisica regolare porti benefici vicini a quelli della terapia farmacologica in certi casi). Risulta fondamentale che ci sia una buona intesa tra i diversi attori del teatro terapeutico e una comunicazione costante sull’andamento della cura. L’introduzione di una cura farmacologica, che può portare talvolta risultati davvero importanti (“Dottore questo farmaco ha davvero migliorato molto la mia vita! Ora riesco a fare cose che prima mi facevano troppa paura come entrare nei supermercati o guidare in autostrada!”), va comunque ben concordata con il paziente (dopo averlo informato sui vantaggi e svantaggi del trattamento) e se possibile con i coterapeuti, come una scelta terapeutica sempre attivamente condivisa e consapevole. 

 

Bibliografia

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