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I Navigator: una professione a rischio burnout?
I Navigator: una professione a rischio burnout?
La figura professionale dei Navigator in Italia nasce con il decreto-legge n°4 del 28 gennaio 2019 e relativa legge di conversione (L.26/2019) che prevede l’istituzione del Reddito di Cittadinanza (RDC) e la conseguente introduzione di figure specifiche per l’assistenza all’intero percorso del percettore di RDC nella ricerca di lavoro, in supporto ai Centri Per l’Impiego (CPI). La popolazione dei 2980 Navigator, vincitori della selezione avvenuta nel giugno 2019, è risultata abbastanza bilanciata per genere (donne=54%), l’età media si attesta intorno ai 35 anni (<30 anni: 35%, 30-40 anni: 41%, >40 anni: 24%) e il voto medio di laurea è di 107/110; circa 1 navigator su 3 proviene da giurisprudenza, 1 su 4 da economia, 1 su 5 da psicologia (fonte: ANPAL, 2020).
Il Navigator opera nelle politiche attive del lavoro applicate a un’utenza in particolare stato di necessità, in cui oltre a problemi economici, molto spesso interconnessi a difficoltà sociali e personali a tutto tondo, si delineano caratteristiche che comportano una difficile rioccupazione e ciò ostacola l’obiettivo primario di questa figura professionale. Il profilo dell’utenza chiamata a sottoscrivere il Patto per il lavoro, quindi già filtrata rispetto chi è impossibilitato nei confronti della ricerca di lavoro per motivi sociali, di studio o di salute, è abbastanza omogeneo per genere (donne = 52.7%); il 55.7% dei beneficiari ha meno di 40 anni di età e il 38.5% ne ha meno di 29; il 15% sono cittadini stranieri e si tratta, in quasi i tre quarti dei casi, di persone provenienti da Paesi diversi da quelli dell’Unione Europea, con un’incidenza relativa dell’11%. Oltre il 72% dei percettori RDC presenta un titolo di studio non superiore alla licenza media. L’indice di profiling dei soggetti, che sintetizza le fragilità dell’utenza rispetto alle probabilità di essere collocato nel mercato del lavoro e che con quantificazione tra 0 e 1 indica la distanza da esso (in cui i valori più vicini a 1 coincidono con il massimo della distanza e l’impossibilità di ricollocazione), presenta una ridotta variabilità dei valori medi che si attestano su una media nazionale del .88. A questo profilo si aggiunge la carenza di esperienze lavorative pregresse soprattutto se regolari, scarsa o nulla alfabetizzazione digitale, mancanza di patente e/o mezzo proprio e la frequente difficile situazione psicologica (fonte: ANPAL, 2021; dati al 1/04/2021).
Una professione di aiuto
Alla luce di quanto detto, l’attività di Navigator può essere considerata come una professione d’aiuto, la cui caratteristica peculiare è quella di essere continuamente sottoposta a richieste di aiuto sentite come necessarie, urgenti, che impongono risposte immediate e puntuali ai bisogni dell’utenza, intendendo che valga la stessa necessarietà di costruzione di una relazione professionale tra lavoratore e utente, quindi coinvolgimento emotivo nella storia privata della persona che risulta essere in un rapporto asimmetrico e bisognosa d’aiuto (Baiocco et al., 2004). Si ipotizza, quindi, che avvenga anche l’attivazione degli stessi costrutti psicologici e gli stessi rischi psicosociali riconducibili alle specificità delle Helping Professions, ovvero vissuti di esaurimento e malessere (Maslach & Leiter, 2000), lavoro emotivo (Zapf et al., 2001) e potenziale sviluppo di un trauma vicario (Bride et al., 2004); in particolare ci si riferisce a criticità nel processamento emotivo, fino ad un rischio burnout, che possono comparire in qualunque attività lavorativa dove la relazione umana tra prestatore d’opera e utente costituisce il prodotto dell’attività stessa.
Fattori di rischio di burnout
La letteratura scientifica internazionale ha identificato due categorie di variabili predittrici dello sviluppo del rischio di burnout successivo a inadeguato processamento emotivo: personali e lavorative (Schaufeli & Buunk, 2003). Per quanto riguarda i fattori personali, le risorse e le strategie disponibili per confrontarsi con una situazione di stress sembrano molto influenti ed in particolare il coping (Carmona et al., 2006) e il senso di autoefficacia (Bandura, 1993; Borgogni et al, 2013). Per quanto riguarda invece le variabili lavorative, si intendono sia fattori ambientali che problematiche connesse all’organizzazione del lavoro (Cherniss, 1986); l’operatore è costretto a misurarsi ogni giorno, non solo con i problemi degli utenti, ma anche con una serie di difficoltà che possono nascere all’interno dello stesso ambiente di lavoro (Maslach et al, 2001). In questo ambito, il focus degli studi si è rivolto soprattutto a distribuzione dei compiti, sovraccarico lavorativo, clima relazionale dell’organizzazione, retribuzione economica e possibilità di fare carriera (Maslach et al., 2001), oltre che domanda di lavoro elevata, basso controllo, cattiva cultura organizzativa, mancanza di comunicazione, collaborazione e risorse (Lin et al., 2016). Inoltre, lo squilibrio nel carico del lavoro, con conseguente sovraccarico ed eccessivo dispendio di energia, sacrificio spesso ritenuto necessario per rientrare nei tempi previsti dalle organizzazioni, si è visto essere associato con un progressivo logoramento e con lo sviluppo del burnout (Maslach e Leiter, 2002). La difficoltà principale del lavoratore, in ogni caso, è che da un lato è fondamentale che partecipi emotivamente alla relazione di aiuto instaurata con l’utente, dall’altro deve riuscire a operare una differenziazione tra il proprio vissuto e quello altrui (Soderfeldt et al., 1995).
Questo insieme di variabili lavorative, che si possono configurare come potenziali fattori di rischio lavorativi e possono incidere sull’adeguatezza dell’emotional processing, mostrano delle criticità nella professione del Navigator che, ad esempio, è caratterizzato da sovraccarico lavorativo e domanda di lavoro elevata oltre che da precarietà contrattuale; hanno complicato sia a livello psicologico che pratico il lavoro di questi professionisti, probabilmente esponendoli ad un maggiore rischio di presentare delle problematiche connesse al processamento emotivo.
Emotional processing
Per processamento emotivo si intende il modo in cui un individuo elabora gli eventi stressanti della vita. Secondo Baker e colleghi (2020) quando le esperienze emotive vengono elaborate in modo incompleto, potrebbero apparire i segni disturbanti di un’attività emotiva e inoltre l’eccessivo evitamento o l’inibizione prolungata e rigida delle esperienze emotive negative potrebbero impedire la loro integrazione e risoluzione. Questo potrebbe non essere significativo per i piccoli problemi di tutti i giorni, che fanno parte della normale esperienza, ma potrebbe invece provocare disturbi di comportamento e del vissuto se l’evento avverso è grave.
Diverse ricerche che si sono susseguite nel tempo hanno mostrato che le carenze nell’elaborazione emotiva sono associate alla psicopatologia: aumento della ruminazione, dell’evitamento, del coping disadattivo nei problemi di salute mentale (Gross, 1998; Gross & Munoz, 1995) e una diminuzione della percezione, della comprensione e dell’espressione della propria esperienza affettiva sia nella depressione che nell’ansia (Luminet et al., 2001; Mennin et al., 2002; Rude & McCarthy, 2003). Inoltre, la ricerca di Baker sul disturbo da attacchi di panico, così come uno studio analogo di Berg e colleghi (1998), dimostra uno stretto collegamento con un emotional processing problematico e sia Brewin e colleghi (1996) che Foa e Riggs (1995), così come nelle teorie sia di Rachman che di Foa sull’applicazione dell’emotional processing al PTSD (Foa et al., 2006; Rachman, 2001), suggeriscono che l’elaborazione emotiva delle memorie traumatiche sia integrale allo sviluppo del disturbo e al processo di terapia. Rachman (1980; 2001) e Foa e colleghi (1986; 1995; 2006) nei loro vari studi hanno presentato il processamento emotivo da una prospettiva di psicologia clinica, invece Baker e colleghi (2020), ne utilizzano un’idea non solo inerente alla psicopatologia, ma piuttosto a come chiunque, sano o malato, elabori gli eventi.
Dunque, in linea teorica la figura professionale del Navigator risulta essere ad elevato rischio di mostrare difficoltà nel processamento emotivo sia per le caratteristiche della professione, accumunabile alle professioni d’aiuto, sia per la presenza di variabili lavorative critiche che espongono i lavoratori ad un maggior rischio di processamento emotivo inadeguato. Bisogna tenere sempre a mente che, viste le teorie sull’emotional processing nel paziente sano, è proprio un inadeguato processamento emotivo che può dare il segnale di rischio burnout.
Bibliografia
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