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numero 7 - aprile 2013

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Coaching e coaching psicologico

Coaching e coaching psicologico

Il “coaching” ha avuto nel corso della sua storia numerosissime definizioni e ridefinizioni. In questa sede ci interessa il coaching psicologico e pertanto saranno tenute fuori dal campo di discussione le forme non psicologiche, cioè non esercitate da psicologi professionisti e non basate su teorie o modelli psicologici. In tal senso, non si farà cenno alla situazione riassumibile nell’espressione “il capo come coach”, ritenendo anzi che le funzioni di cosiddetto coaching che può effettuare il manager di linea con i propri collaboratori rientrino nelle consuete azioni basilari del management e che non vi sia alcuna necessità di individuare un’ennesima azione manageriale intesa specificatamente come “coaching” (Peterson, Hicks, 1996). Sarebbe già meraviglioso che “il capo” funzionasse adeguatamente nelle funzioni di base del management, senza perciò dovergli richiedere altro…

Coaching e “pseudo-coaching”

È doveroso sottolineare che il coaching è stato ben presto “preda” di ogni figura professionale operante nell’ambito HR, ma non solo. Figure professionali che hanno sostanzialmente seguito due strade parallele si sono autoproclamate “coach” – non esistendo nel nostro Paese alcuna delimitazione formale o legale della figura del coach (così come di molte altre figure professionali che operano nell’area delle discipline umanistiche, basti pensare alla sociologia, area nella quale la figura del “sociologo” non ha mai ricevuta una autenticazione legislativa) –, oppure hanno seguito un “corso di formazione” al termine del quale una scuola privata li ha “certificati” coach professionali. Mentre appare pacifico che la prima strada sia la solita strada italiana in base alla quale tutti possono fare tutto, a meno che non vi sia un potere coercitivo e di punizione che impedisca tale condotta (come, ad esempio, l’esercizio abusivo della professione medica e della professione psicologica), le certificazioni rilasciate dalle numerosissime scuole di coaching rappresentano una realtà emblematica.

Innanzi tutto, tali scuole, al fine di poter disporre di un bacino di utenza potenziale il più ampio possibile, non delimitano l’accesso ai soli psicologi, bensì accolgono come aspirante coach qualunque figura laureata, disconoscendo così la base scientifica e professionale di questa particolare forma di counseling.

In secondo luogo, le stesse scuole si sono sostanzialmente autoproclamate enti di addestramento e di certificazione in totale assenza di una normativa in tema.

Infine, capita che in alcune di dette scuole insegnino psicologi iscritti agli albi i quali, così facendo, corrono seriamente il rischio di contravvenire al dettato etico e statuario che sancisce che lo psicologo non deve insegnare tecniche e metodi psicologici a chiunque e in ogni situazione. Sarebbe come se il medico qualificato insegnasse tecniche di medicina professionale a laureati in economia, giurisprudenza o scienze politiche! Mentre tale situazione risalta immediatamente agli occhi come una vera e propria aberrazione, nel campo della psicologia così non è, e numerosi sono stati, e sono, i casi in cui psicologi hanno insegnato tecniche psicologiche a discenti di ogni origine e qualifica.

Chiarito ciò, oggi appare sempre più importante evitare di alimentare l’esplosione della coaching industry e le attività dei coaching vendors i quali, d’altro canto, hanno già da tempo inflazionato l’area dell’executive coaching, banalizzandola e conducendola verso il ridicolo, da qualcuno riassunto nell’espressione todos caballeros.

Sarebbe sufficiente notare la quantità di definizioni che si contendono il campo degli aspiranti coach – e dei possibili committenti dei servizi di coaching – per rendersi conto delle forzature cui è soggetto il coaching nelle sue forme non-psicologiche, cioè nelle forme in base alle quali, come sopra detto, ciascuno può autodefinirsi “coach”, oppure tentare di conseguire un “diploma di coach accreditato” seguendo il percorso formativo di una delle tante scuole che sono sorte perseguendo chiaramente l’ottica di business.

Cosa il coaching “non è”

È dunque utile chiarire che con “coaching” – in specie con l’espressione Executive Coaching, che appare la più corretta e la maggiormente utilizzata dai coach professionisti psicologi sia nella letteratura, sia nell’esercizio delle loro attività – non si dovrebbe intendere:

  • il capo come coach, quindi il cosiddetto coaching effettuato dai manager di linea, che altro non è se non affiancamento, consiglio e addestramento nei confronti dei propri diretti collaboratori;
  • il cosiddetto coaching esercitato da monsieur tout le monde, vale a dire da chiunque si autoproclami coach e da chiunque possa esibire una certificazione di una delle tante scuole di coaching;
  • il coaching che si potrebbe denominare “aspecifico”, condotto dalla popolazione dei consulenti di gestione e sviluppo delle risorse umane e dai formatori i quali, in gran parte, ritengono che il coaching sia una delle tante pratiche impiegabili nell’area HR, oppure che sia una delle tante tecniche della “formazione”;
  • il coaching esercitato da una terza e diversa popolazione, particolarmente pericolosa, vale a dire quella dei soggetti pensionati, allontanati o dimessisi dalle organizzazioni nelle quali esercitavano una qualche funzione nell’area HR (compresa la funzione di direzione del personale), che si “riciclano sul mercato” come coach.

In effetti, si può affermare che l’area del coaching – non essendo mai stata protetta né immediatamente delimitata e definita come area specifica di applicazione della psicologia, e nemmeno difesa dagli ordini professionali degli psicologi (evento che appare del tutto assurdo) –  ha richiamato una quantità di soggetti di ogni genere che vanno dal neolaureato (in qualunque disciplina) al pensionato ex gestore del personale, dai tanti disoccupati che navigano nel vasto campo socio-psicologico, pedagogico, della formazione e della comunicazione, fino ai “consulenti tuttologi” che colgono al volo le occasioni di lavoro nel campo delle HR.

Da dove viene il coaching?

Un contributo importante alla chiarificazione del tema è centrato sulle origini dell’utilizzo del termine coaching negli Stati Uniti degli Anni Settanta, allorché un allenatore di tennis, Tim Gallwey, ebbe l’intuizione che per insegnare efficacemente il tennis ai suoi allievi dovesse andare “oltre” la tecnica e puntare su una sorta di formazione globale della persona, di matrice vagamente psicologica. È, questa, la visione del coaching di stampo pragmatico in base alla quale, ancora oggi, capita di frequente di ascoltare o di leggere che il coaching “è nato” dal tennis per merito, appunto, di Gallwey, autore del bestseller The Inner Game of Tennis (1974) – v. anche il sito web www.theinnergame.com.

La visione di Gallwey, nato nel 1938 a San Francisco, si è poi applicata a numerosi altri contesti, come il golf, lo sci, ma  anche lo stress e il lavoro… Quella che si potrebbe definire la leggenda delle origini del coaching scaturisce dal fatto che Gallwey era “allenatore” – vale a dire “coach”, in lingua inglese – a capo dell’Harward University Tennis Team, e che decise di seguire l’insegnamento del guru Maharaj Ji: attraverso un percorso di riflessione e ricerca sicuramente intenso e apprezzabile a titolo personale, sviluppò la sua concezione in base alla quale nel tennis, il primo e vero “nemico” da affrontare è collocato dentro se stessi. Diviene pertanto importante sviluppare un atteggiamento di concentrazione, ma anche un orientamento che conduca all’osservazione non giudicante: ciò al fine di implementare la performance.

Ebbene, da qui, al sostenere che il coaching organizzativo derivi dal ruolo del coach nel tennis – come affermano pressoché tutti i non-psicologi ma, purtroppo, anche una cospicua parte degli psicologi che si sono affrettati ad arrampicarsi sulla carrozza del coaching - è quantomeno inesatto, parziale, fuorviante e del tutto svalutante il fondamentale e pervasivo contributo della psicologia a tale, presunta, “nuova” attività (Brunning, 2006; Castiello d’Antonio, 2012; Looss, 1991).

Da impostazioni superficiali e basate su fraintendimenti di tal genere deriva quel “selvaggio west” del coaching già messo in rilievo anni fa in un intervento a firma di Sherman e Freas (2004),

Il coaching psicologico

Si potrebbe dunque ben affermare che il coaching o è psicologico oppure non è.

Purtroppo tale affermazione non risponde, oggi, alla situazione reale del coaching, sia a livello internazionale, sia in Italia. Volendo fermarsi a constatare la situazione nel nostro Paese, appare evidente che la maggior parte del coaching che è praticata è di genere “non-psicologico”, fino ad aberrazioni del tipo “fast-coaching” e di enunciati del genere “il coach deve essere la lunga mano della direzione del personale!” (entrambi gli esempi sono reali).

In questo generale caos, è anche emerso da qualche tempo il quesito sulla dinamica che si sviluppa nel coaching e il dibattito è tuttora in corso: al proposito, si potrebbe affermare che il coaching (in senso lato) funziona, ma non si sa esattamente perché. Ovvero, le risposte a tale domanda sono molteplici e in parte divergenti.

Naturalmente vi sono anche molti lati positivi della questione, lati che sono collocati, tutti, all’interno del coaching psicologico, in senso stretto.

Il più importante, a mio avviso, è che dai tempi delle prime pubblicazioni “serie” (v., ad esempio, Grant, 2000) ad oggi, sono state elaborate presentazioni scientifico-professionali atte a differenziare le diverse scuole e metodologie di coaching psicologico. Così, oggi, chi volesse “aprire” il grande libro del coaching psicologico, potrebbe consultare autori e riflessioni che presentano il coaching in ottica comportamentista, cognitivista, psicodinamica, sistemica, evidence-based, e così via.

Naturalmente anche all’interno della comunità degli psicologi non tutte le voci sono favorevoli allo sviluppo del coaching. È recentissimo il dibattito pubblicato su un bollettino della British Psychological Society in merito alla reale utilità del coaching (Briner, 2012; Ellam-Dyson, 2012), nonostante che proprio la società britannica sia stata uno dei “contenitori” più sensibili ed affidabili riguardo al dare uno spazio competente per lo sviluppo del coaching (ovviamente) psicologico.

In altri casi – ed anche in Italia – si sono levate voci che hanno cercato di dirigere l’interesse per queste nuove pratiche verso la consulenza organizzativa, il counseling, la consulenza sul ruolo professionale, evitando esplicitamente l’uso del termine (ma forse non del concetto) di coaching (si veda Schein, 1999, 2009).

Dal mio punto di vista sarebbe necessario confrontarsi sulle competenze professionali del coach psicologo poiché ritengo che le sole competenze di psicologia organizzativa non siano per niente sufficienti; infatti, sempre più spesso nel mondo del lavoro s’incontrano soggetti disfunzionali, esponenti della “toxic leadership” per comprendere i quali è assolutamente necessaria anche una competenza di psicologia clinica (Castiello d’Antonio, 2011, 2013).

In questo panorama si colloca il 3° Congresso Internazionale della ISCP – International Society for Coaching Psychology, che si terrà a Roma il 16 e 17 maggio 2013 a cura della SCP-Italy, cioè della società italiana di coaching psicologico affiliata alla società internazionale. Due tematiche che saranno trattate in questa occasione – l’identità professionale del coach e l’evidence-based coaching – rappresentano argomenti emergenti e di interesse per la comunità internazionale in un momento storico in cui sembra che il coaching stia sviluppandosi verso una nuova dimensione, più precisa, accreditata ed anche, direi, più facilmente comprensibile e valorizzabile da parte del mondo esterno ai professionisti psicologi.

Bibliografia

  • Briner R. B. (2012), Does Coaching Work and does Anyone Really Care? OP Matters, 17, 4-12.
  • Brunning H. (2006), La manutenzione del capo. Executive Coaching. Ananke, Torino, 2009.
  • Castiello d’Antonio A. (2007), L’allenatore in ufficio. Il Coaching. Mente e Cervello, 5, 82-87.
  • Castiello d'Antonio A. (2011), Leadership malata. Psicologia Contemporanea 228, 12-15.
  • Castiello d’Antonio A. (2012), Luci e ombre del Coaching. Psicologia Contemporanea, 231, 76-80.
  • Castiello d’Antonio A. (2013), L’assessment delle qualità manageriali e della leadership. FrancoAngeli, Milano.
  • Ellam-Dyson V. (2012), Coaching Psychology Research: Building the Evidence, Developing Awareness. OP Matters, 17, 13-16.
  • Gallwey W. T. (1974), The Inner Game of Tennis. Random House, New York.
  • Grant A. M. (2000), Coaching psychology Comes of Age. PsychNews, 4, 4, 12-14.
  • Looss W. (1991), Coaching per manager. FrancoAngeli, Milano, 1993.
  • Peterson D. B., Hicks M. D. (1996), Leader as Coach. Personnel Decisions, Minneapolis.
  • Schein E.H. (1999), La consulenza di processo.  Raffaello Cortina, Milano, 2001.
  • Schein E. H. (2009), Le forme dell’aiuto. Raffaello Cortina, Milano, 2010.
  • Sherman S., Freas A. (2004), The Wild West of Executive Coaching. Harvard Business Review, 82, 82-90.