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numero 41 - ottobre 2016

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A che gioco giochiamo? Pokemon Go, quando il mezzo giustifica i fini

A che gioco giochiamo? Pokemon Go, quando il mezzo giustifica i fini

Pokemon Go è stato il gioco e, in qualche caso, il tormentone dell’estate. Sviluppato e lanciato in tutto il mondo da Niantic e Nintendo, la sua presenza ha affollato l’etere con notizie e commenti di ogni tipo: dai video che mostrano gruppi di persone vagare alla ricerca spasmodica della preda, agli annunci allarmati di incidenti  e disavventure a carico dei giocatori, alla laconica citazione del presidente Mattarella, che ha definito la discussione sulla data del referendum “surreale come la caccia ai pokemon”.

Per chi non lo sapesse, si gioca scaricando un’apposita app per smartphone che consente di visualizzare sullo schermo del cellulare una mappa del territorio dove ci si trova, in cui viene via via segnalata la presenza dei Pokemon. I Pokemon sono “creaturine virtuali” di diverse fattezze e quando sono nelle vicinanze si deve, guardando nella telecamera dello schermo, provare a prenderli con delle palline virtuali. Dopo averli catturati, è possibile allenarli, farli evolvere, entrare a far parte di una squadra e difendere le palestre conquistate in giro per il mondo.

Quali sono le caratteristiche del gioco che giustificano una così ampia diffusione?  Innanzitutto, il fatto che è un gioco. Che coglie il desiderio di svago, che è popolare e che, nello specifico, è molto facile da usare. Pokemon Go, almeno al livello attuale di sviluppo dell’applicazione, non è un gioco che prevede competenze raffinate. Si tratta, in buona sostanza, di catturare oggetti. Il primo e sostanziale impulso della proposta di gioco ha quindi a che fare con l’accumulo, e infatti il ritornello della sigla e delle pubblicità ufficiali ripete: "Gotta Catch'em All" (“Prendeteli tutti”). Assomiglia, in definitiva, più al collezionismo di francobolli che a una sfida di abilità e, dal punto di vista psicologico, può soddisfare il desiderio proprio delle raccolte tassonomiche: avere una collezione sempre più completa e sofisticata di un determinato oggetto-feticcio.

Per comprendere il successo planetario di questa applicazione a un livello più profondo, dobbiamo però soffermarci su un elemento imprescindibile: il mezzo utilizzato per giocare, il medium, è il cellulare. Non il telefonino usato come piattaforma dove il gioco accade, ma il telefonino usato come oggetto intermedio, come strumento per la realizzazione della proposta del gioco, che è appunto una proposta di caccia a oggetti virtuali (i Pokemon) che vengono visualizzati, attraverso “le lenti” dello schermo degli smartphone, nello scenario del mondo reale. La vera novità è aver reso la realtà aumentata un’esperienza comune e accessibile, aver popolato con oggetti virtuali lo spazio intermedio tra il soggettivo e l’oggettivo, e di averlo fatto attraverso l’uso di un mezzo, il cellulare, che progressivamente è diventato un oggetto di significazione dell’esperienza del mondo, una sorta di traduttore immediato, un amuleto rassicurante. Qui non si tratta di trovare la strada con meno traffico, né di comunicare con gli amici, ma di cercare nella realtà, nel mondo lì fuori, gli oggetti virtuali che vi sono stati posizionati. Si diversifica l’offerta, ma è lo strumento che colonizza la scena.

La caratteristica, rivoluzionaria rispetto ad altri videogiochi, è quindi quella di aver accavallato la realtà virtuale con la realtà sensibile, di aver applicato la dimensione propria del gioco, dell’irreale e del fantastico, allo sfondo-contenitore della realtà. Più che per altri videogiochi, quindi, il potenziale allarme sul piano psicologico è dato dalla coincidenza e dalla momentanea indistinzione tra i due piani, che può portare ad una difficoltà a tenerli ben separati. Questa difficoltà può essere poco incidente sul piano percettivo (è molto semplice distinguere le fattezze di un Pokemon dagli altri oggetti della realtà), ma può esserlo molto sul piano della valutazione: valutazione del rischio connesso al gioco (sono molte le notizie di incidenti avvenuti per l’utilizzo alla guida del gioco, tanto che in internet gira la notizia di una compagnia assicurativa che sta proponendo una polizza ad hoc), valutazione dell’opportunità dell’utilizzo del gioco in alcuni contesti (in luoghi di culto, in proprietà private ecc.).

Tra i vari commenti ai margini del fenomeno, ho trovato un interessante paragone con la psicogeografia, movimento d’avanguardia degli anni ’50 che promuoveva l’esplorazione casuale degli spazi urbani. L’esortazione era conoscere la città facendosi guidare dalle suggestioni che si incontravano durante il cammino, come seguendo una deriva: un odore, una persona, un accadimento diventavano gli stimoli per creare una nuova mappa, una mappa intima e personalissima, della città. Ai cercatori di Pokemon Go, che pure scendono per le strade per catturare le loro prede (elemento che ha incontrato l’approvazione di molti, a sostegno che i videogiochi non necessariamente isolano), manca tuttavia la componente attiva della ricerca. Lo stimolo è dato, i Pokemon sono lì, lo spazio per vagare e lasciarsi sedurre e sorprendere da quello che sta accadendo è saturato da oggetti pre-determinati. Questo è il vincolo e forse uno dei motivi che spiegano l’appassionamento collettivo per Pokemon Go: il gioco è facile, e la strada è disseminata di molte molliche di pane che indicano il percorso. L’obiettivo è raccogliere le molliche più che arrivare alla fine del viaggio, con la compagnia fedele e necessaria del telefono/coperta di Linus, che svolge la stessa funzione dell’oggetto transazionale di Winnicott, ossia mettere un filtro conosciuto nell’esperienza di confronto con il non-conosciuto. Chi si aspetta un gioco che stimoli la fantasia (attesa lecita, trattandosi di intrattenimento), è destinato, quindi, a rimanere deluso. Il collasso tra l’oggettivo e il soggettivo è di fatto un movimento opposto rispetto all’incentivo alla scoperta, che per definizione si nutre di spazio vuoto, di sospensione, di assenza.

Alla domanda sulla possibile pericolosità del gioco è d’obbligo rispondere con il richiamo al bagaglio d’esperienza e alla capacità di valutazione della persona singola. Insidia diffusa nella contemporaneità è lo sviluppo di condotte di dipendenza legate all’utilizzo massiccio dei videogiochi e di internet. Come in altre proposte, quindi, Pokemon Go può sfociare in una modalità d’uso bulimica e diventare tossico. La sostanziale ridondanza del gioco può favorirne un uso coatto, anche correlabile sul piano intrapsichico – secondo l’interpretazione di Belk sui comportamenti di raccolta – ad un desiderio di espansione del sé attraverso l’accumulazione dell’oggetto prescelto. Che poi è un principio valido in ogni condotta di consumo e che – nel caso specifico di Pokemon Go – è legata anche all’evidenza che i posti di rifornimento delle munizioni (Pokestop) e le palestre dove si allenano i Pokemon sono strategicamente vicini a esercizi commerciali molto interessati a essere coinvolti nel gioco e che ha spalancato il campo alle riflessioni – non certo straordinarie nella nostra società –  sulla manipolazione e l’induzione dei comportamenti di acquisto e consumo.

Come in altre condotte di uso ripetitivo, poi, l’utilizzo del gioco può diventare dilagante e assorbire il tempo libero dagli impegni. Nonostante gli sforzi degli sviluppatori, che promettono funzioni più sociali e socializzanti di gioco, attualmente Pokemon Go non prevede una particolare condivisione con altri giocatori; in alcuni casi si può assistere a persone che si muovono insieme – vicine –  alla ricerca dei Pokemon, ma ognuno è concentrato sul proprio schermo; non è quindi una prossimità che crea squadra.

Mettendoci dalla parte di Pokemon Go, qual è invece il suo potenziale positivo?

Come per altri giochi, anche Pokemon Go può stimolare la dimensione sensoriale-percettiva e, come stimolazione senso-motoria, può allenare alcune abilità manuali e di percezione; può allenare a gestire gli obiettivi, individuando dei sotto-obiettivi; può sviluppare la dimensione strategica e di problem solving ; può sviluppare, man mano che si aumenta di livello, la sensazione di autoefficacia; può essere, genericamente, un canale di distensione e rilassamento.

Inoltre, a differenza di altri videogiochi, l’oggetto del gioco è piuttosto neutro, e decisamente non violento. Precisazione non irrilevante, vista la qualità di sovrapposizione tra reale e virtuale propria della realtà aumentata e considerato il dibattito sulla possibile facilitazione di condotte aggressive nel caso di sovra-esposizione a contenuti video violenti (discorso comune anche ad altre forme di fruizione video, compresi i cartoni animati e i film).

Non si tratta, in definitiva, di demonizzare il gioco o avere un atteggiamento reazionario nei confronti  dell’innovazione tecnologica, quanto di proporre una riflessione sulla dimensione del significato, che poi è prospettiva specifica della psicologia, tenendo presenti gli scenari potenziali implicati, compresi quelli critici.

È certo che di Pokemon Go se ne può fare un utilizzo moderato e ragionevole. Che davvero possa diventare, come tanti sostenitori rivendicano, un pretesto o un incentivo a conoscere luoghi e persone nuovi.

E qui si riaffaccia la domanda di partenza: è proprio necessario guardare lo schermo dello smartphone per andare a esplorare il mondo?  La realtà, mai come in questo caso, è negli occhi di chi guarda.

 

Bibliografia

Belk, R.W. (1991). The ineluctable mysteries of possessions. Journal of Social Behavior & Personality, Vol 6(6), 1991, 17-55.

Bishop, J. (2015). Psychological and Social Implications Surrounding Internet and Gaming Addiction. Hershey, PA: IGI Global.

Griffiths, M. (2002). Gambling and Gaming Addictions in Adolescence. Hoboken, NJ: Wiley-Blackwell.

Singer, D.G. e Singer,  I.L. (1995). Nel regno del possibile. Gioco infantile, creatività e sviluppo dell’immaginazione.Firenze: Giunti.

Vazquez, D. (2010). Manuale di Psicogeografia. Cuneo: Nerosubianco Edizioni.

Winnicott, D. W. (2005). Gioco e Realtà. Roma: Armando Editore.