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numero 15 - marzo 2014

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Approcciare gli strumenti di misura nelle HR - La specificità italiana

Approcciare gli strumenti di misura nelle HR - La specificità italiana

Di recente, in occasione dell'incontro Selezione e Assessment on line: strumenti ed esperienze concrete organizzato dall'AIDP Gruppo Emilia Romagna, sono stato invitato a tenere un intervento sugli strumenti di misura per le Risorse Umane in azienda; il taglio era introduttivo con qualche approfondimento per professionisti del settore.

Fa piacere che il tema sia oggetto di interesse per consulenti e manager, ma in tutta sincerità riscontro che ancora oggi, nel 2014, la situazione Italiana ha delle specificità tutte sue, come per altri business e mercati ed ha accumulato un ritardo su alcuni fronti quasi inspiegabile.

Gli strumenti di misura per le attitudini, i comportamenti, le competenze organizzative sono diffusi in azienda da almeno 2 decadi; soprattutto il mondo anglosassone ha sperimentato l’uso dei diagnostici, applicandoli in fasi differenti della vita aziendale. Tra queste cito la selezione, la valutazione e lo sviluppo di risorse interne, il coaching, i piani formativi sulla leadership e la motivazione, analisi organizzative complesse e raffinate (Analisi di clima, Check-up organizzativi). Molti dei nostri manager e consulenti  hanno lavorato o lavorano in aziende di questo tipo e sono quindi diventati familiari con strumenti di misura. Non esiste grande multinazionale, citata come esempio nei vari eventi di settore, che non abbia al suo interno dei processi di valutazione strutturati e formalizzati, basati su strumenti di misura oggettivi e precisi. Eppure nelle aziende italiane, questa diffusione non è capillare e la sensibilità verso questi “tools” professionali non è condivisa. La riflessione sull’argomento mi porta ad analizzare alcuni punti, che a mio avviso ben rappresentano la specificità italiana e possono chiarire come noi tendiamo ad approcciare la psicologia applicata in azienda.

Cultura della misura

A parole siamo tutti favorevoli alla misura oggettiva, perché in grado di fornire elementi e numeri a supporto di decisioni più precise e quindi più eque. La meritocrazia è una delle parole più diffuse in tutti i contesti in cui si parli di classe dirigente, qualità del management e correlati. Tutti spendono ampie lodi per i sistemi di valutazione premianti della performance assoluta, trasparenti e senza sconti. Questo scenario così auspicato da molti, sottintende una vera e propria “cultura della misura” che purtroppo è spesso disattesa. Adottare misure oggettive è faticoso, non permette manipolazioni e soprattutto mette in discussione a prescindere da età, esperienza, risultati raggiunti. Mi colpisce il fatto che mentre nei paesi anglosassoni, più il manager sale di “categoria” più è soggetto alla misurazione costante della sua performance e competenze, in Italia succeda praticamente il contrario: i manager delle nostre aziende, una volta raggiunto un certo status, tendono a rifiutare la misurazione perché pensano che la posizione sia di per sé testimonianza delle capacità possedute. Il motivo è, a mio avviso, rintracciabile in due aspetti della carriera di un manager:

  • Nelle nostre aziende spesso non si fa carriera solo per competenze professionali;
  • La misura in certi paesi è vista come uno stimolo alla crescita e non mette in imbarazzo l’evidenza di non essere competenti su alcuni aspetti del business che si governa. Questo è dovuto al fatto che, fin dalle scuola, la competizione si basa sulla performance che viene rilevata in modo trasparente.

I “modelli” sono manipolati

Colpisce il fatto che nelle scuole di business, nei tavoli di discussione sulle best practices aziendali, la presenza di alcuni nomi sia pervasiva: le aziende americane, inglesi, tedesche, francesi spesso sono portate ad esempio per l’implementazione di processi innovativi, efficaci, collegati alla performance. Purtroppo si dimentica con troppa frequenza che queste aziende eccellenti, non solo sono creative nello stimolare processi di apprendimento e sviluppo, ma misurano con strumenti oggettivi e validi le loro risorse. Le migliori università U.S.A. che producono buona parte della classe dirigente mondiale, hanno test di ammissione stringenti e fanno ricorso a strumenti di misura durante tutto il percorso formativo degli studenti. Su questo fronte appare chiaro che faccia comodo citare modelli di riferimento blasonati per parlare di innovazione, ma molto meno quando si debbano adottare gli stessi sistemi di misura a casa propria. Dato che queste aziende sono considerate fonte di ispirazione per il nostro business quotidiano, non sarebbe una buona idea copiare con intelligenza anche i sistemi di misura che vengono adottati al loro interno?

Approccio generico verso specifico

La crisi degli ultimi anni ha fatto sparire molte società di consulenza e formazione, con mezzi propri non sufficienti a garantire la sussistenza. Alcune società invece si sono ri-posizionate verso altri mercati, per far fronte alla contrazione dei ricavi, altre si sono invece allargate. Si assiste quindi ad uno strano fenomeno per cui società di consulenza che si sono sempre occupate di sola formazione, si siano messe a sviluppare strumenti diagnostici “in house”, molto belli e scenografici ma senza alcun apparato psicometrico, studio di validazione a supporto, taratura specifica per i paesi, campione di riferimento. Tutto ciò è assolutamente fuorviante per le aziende che poi si rivolgono sul mercato in cerca di supporto. Acquisire una sensibilità verso alcuni indicatori di qualità di uno strumento psicometrico (Indici di Validità, Attendibilità, Campione di riferimento) è a mio avviso obbligatorio per un manager HR che voglia poter discriminare tra strumenti esistenti. Di recente un Top Manager di un’importante azienda italiana di formazione mi ha illuminato con un esempio calzante. La differenza tra costruire test psicometrici e il loro utilizzo in ambito formativo è la stessa che passa tra la costruzione di una TAC da parte di un ingegnere e la terapia che viene impostata dal medico specialista in seguito alle evidenze radiografiche. Voi fareste costruire una TAC ad un medico? Vi fareste curare da un ingegnere?

Le risorse umane fanno storia a sé

Le aziende cercano di controllare tutto, i costi connessi ai ricavi, il ROI delle campagne marketing, i tassi di assenteismo, il numero di clienti acquisiti in periodi definiti, i minuti delle pause caffè e quant’altro possa venire in mente. Questa ossessione per il controllo, a tratti ipertrofica per la verità, permea ormai tutta la vita quotidiana delle aziende ma ci sono delle eccezioni significative. Ancora oggi, incontro manager HR che lavorano in aziende molto valide, con sistemi di controllo sofisticati, che per valutare le persone si affidano a strumenti “costruiti in casa” oppure al semplice colloquio. Mi chiedo come mai, vista la cultura prevalente del numero in tante aree di business, le Risorse Umane non si affidino con maggior frequenza alla psicometria in azienda, per supportare le proprie decisioni sulla risorsa più preziosa e costosa: le persone.