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Adolescenza e pseudoadolescenza
Adolescenza e pseudoadolescenza
“Il Sé serve a guardare insieme, al guardare al paziente dal suo interno e non soltanto a guardare al paziente come un oggetto. Il Sé comporta quindi anche una diversa concezione dell’assistenza psichiatrica: farla insieme al paziente, non prendersi carico del paziente” (Novelletto, 1991)”.
Credo che questa citazione da Psichiatria Psicoanalitica dell’Adolescenza di Arnaldo Novelletto sia importante, non solo per il fatto che dovrebbe essere patrimonio di ogni psichiatra dell’età evolutiva, ma soprattutto perché la maggior parte dei pazienti, quando li incontriamo per la prima volta per fare uno status psichiatrico, mostrano una coscienza ben orientata nello spazio e nel tempo, anzi spesso molto ben orientata vigile e attenta, quasi all’erta.
A questo punto se non ci concedessimo la possibilità e il tempo per valutare l’evoluzione e l’orientamento nello spazio e nel tempo del Sé di questi pazienti abdicheremmo alla nostra sapienza clinica, alla capacità di comprenderli e alla possibilità di costruire per loro un progetto terapeutico-riabilitativo coerente ed efficace.
Ciò non toglie che la diagnosi approfondita e donatrice di senso nasca dall’alleanza funzionale tra esperienza soggettiva e osservazione oggettiva in un processo transizionale dove quando ci trova in uno dei due stati non si perde mai di vista l’altro.
Quadri psicopatologici in adolescenza
Dal punto di vista osservativo, infatti, negli ultimi 5-10 anni abbiamo assistito, almeno nell’ambito ospedaliero in cui lavoro e per almeno il 60 % dei pazienti, alla comparsa di una sintomatologia dissociativa, isterica, ossessiva, fobica e paranoide, in cui i sintomi di volta in volta, si associano in disturbi/sindromi di personalità non sempre facilmente colte dai sistemi classificatori classici. L’appendice sui disturbi di personalità del DSM-V coglie e propone la bipolarità Sé/relazione oggettuale secondo il modello di Blatt, ma in una sorta di comorbidità senza stabilire nessi evolutivi interattivi e causali tra i due aspetti.
Non rivolgendosi al Sé della paziente o del paziente, correremmo il rischio di non cogliere l’aspetto relazionale e strumentale di questi sintomi inserendoli in una precisa casella diagnostica che però non coglie niente della soggettività e del vissuto della ragazza o del ragazzo che ci troviamo di fronte, assumendoci grandi rischi relativi non solo alla salute mentale, ma anche fisica dei nostri pazienti.
Certo dobbiamo darci un po’ più di tempo per rivolgersi al Sé. Nel far questo comprenderemo che questi sintomi sono, per dirla con Fairbairn, tecniche difensive per regolare le relazioni oggettuali, e che ci troviamo di fronte al risultato di “operazioni di sicurezza” come scrive Sullivan, che il Sé ha iniziato a mettere in atto molto precocemente e che rendono impossibile la rottura della struttura di latenza e l’inizio del processo adolescenziale.
A partire da questo funzionamento comune ci troviamo di fronte fondamentalmente a due quadri psicopatologici che nella nostra esperienza clinica iniziano a dare segno di sé tra i 10 e i 13 anni, che operativamente potrebbero essere considerati come i poli estremi di una dimensione istero-schizoide caratterizzata da una dissociazione orizzontale della coscienza e verticale dell’integrazione mente-corpo, in cui, di volta in volta, il Sé utilizza meccanismi diversi per non entrare realmente in contatto con l’altro o con funzionamenti altri, come quello nuovo del corpo e della mente in adolescenza, perché comunque per questi pazienti per dirla con Sartre “l’inferno sono gli altri”.
Il versante schizoide
Dal versante schizoide ci troviamo di fronte, soprattutto a pazienti maschi affetti da una forte menomazione sociale, che hanno abbandonato la scuola, chiusi per la maggior parte del tempo in casa, spesso insieme a genitori che tiranneggiano a volte anche con violenza.
Il Sé di questi pazienti si ferma alle soglie dello sviluppo genitale e non vi accede, anzi lo gestisce fobicamente e controfobicamente in una pseudosessualità adolescenziale; è un comportamento teso a dimostrare che il desiderio sessuale, l’oggetto sessuale non esiste.
Il Sé di questi pazienti non è intersoggettivo: il processo teoria della mente, mentalizzazione, empatia si sviluppa in modo alessitimico, ma cognitivamente rappresenta un formidabile strumento di controllo dei movimenti emotivi e cognitivi dell’altro, un controllo esercitato soprattutto sulle figure genitoriali.
Il Sé di questi pazienti non utilizza metacognizione o insight, non c’è nessuna percezione di malattia, ma un attonito e stizzito stupore nei confronti di chi afferma che c’è un problema.
Tra le varie tecniche per gestire le relazioni oggettuali questi pazienti utilizzano soprattutto quella fobica, quella ossessiva e quella paranoidea.
Dal suo rifugio/prigione spesso il Sé, tranquillo e beffardo, osserva i nostri tentativi diagnostici e terapeutici, a volte titanici che sembrano raggiungere anche dei risultati senza incidere veramente sul nucleo del disturbo.
Le relazioni con gli altri vengono spesso gestite in mondi virtuali gestiti da alias in cui regna l’abuso rappresentazionale dove non è l’affetto che investe la rappresentazione, ma in cui rappresentazioni idiosincratiche e pseudorelazionali producono emozioni sempre positive e controllabili.
Questo Sé non tollera il tempo lineare. Il tempo, è sofferenza, crescita, ricordo. Il tempo è distanza, il tempo sono gli altri e, quindi, parafrasando Sartre il secondo inferno di questi pazienti è il tempo.
Il versante isterico
Ma veniamo ora all’altro polo, quello isterico o dell’emergenza borderline, rappresentato soprattutto da ragazze che arrivano alla nostra attenzione o per tentato suicidio o per autolesionismo.
Queste pazienti “realizzano” e “rappresentano” il presente sul loro corpo in modo violento e visibile, mostrando quanto il presente sia fonte di disillusione, nonostante esso potrebbe essere molto più soddisfacente del passato e del futuro.
Queste pazienti, al contrario dei ragazzi descritti prima, non sono difficili da raggiungere ed esporre alla cura concretamente, arrivano alla nostra attenzione in modo impressionistico, sanguinanti o imbottite di sostanze tossiche.
Stanno nel gruppo anche se tendono al rapporto individuale e sembrano “molto adolescenti”; la sessualità è pensata, molto fantasticata e poco reale, con forti derive verso una sessualità infantile che ha più a che fare con la tenerezza; le relazioni amicali sono soprattutto duali e basate sull’esclusione del terzo.
A volte è presente menomazione sociale e abbandono scolastico, ma non sempre.
In queste pazienti l’empatia e la mentalizzazione sembrano molto presenti, ma sempre con un tocco di falsità, l’insight è molto sviluppato soprattutto rispetto alla propria sofferenza.
Il corpo è in primo piano: i tagli, gli attacchi servono apparentemente a disincarnare la mente dal corpo, ma possiamo darvi anche altri significati come quello di sfuggire all’elusività di ogni cosa; il taglio, l’attacco diventa qualcosa di definito, un punto di arrivo, un sollievo, una cosa reale in un mondo vissuto come tragicamente falso e fittizio.
Le tecniche per gestire l’altro e proteggersi sono, infatti, nel caso di queste pazienti, tecniche elusive, dissociative, isteriche.
Quindi anche l’alterità dell’altro viene elusa. L’altro è visto come la personificazione della fantasia. La reale esistenza separata dell’altro non viene accettata inequivocabilmente. La persona tratta l’altro alla stregua di un fantasma incarnato come se esso fosse un’altra persona e allo stesso tempo un possesso privato. Le nostre ragazze formano legami “interiori” con gli altri attraverso la loro presenza immaginata, ma la scontentezza di vivere solo attraverso l’immaginazione può renderle molto dipendenti dagli altri. Da qui l’intenso coinvolgimento che queste ragazze hanno con le persone e le cose esterne e le conseguenze che compaiono quando l’altro reale non è in grado di tirarle fuori dall’immaginazione e le delude nella realtà.
Credo che si debba stare molto attenti nel non considerare che l’adolescenza di queste ragazze può essere simulata e non in atto realmente. Non tenere conto di questo può portare al cosiddetto acting out isterico che appare basato su un desiderio frenetico di rendere reali le proprie simulazioni. In questo caso l’atto di simulazione in sé per sé, può essere considerato folle quando viene spinto a limiti così disperati e “psicotici”; parafrasando Winnicott possiamo dire che le nostre ragazze “cercano di procurarsi una pazzia” .
L’insicurezza ontologica
Questi quadri psicopatologici nascono, quindi, dal tentativo o dall’impossibilità del Sé di non accedere alla fase adolescenziale.
Un’esperienza di ricerca e soprattutto umana, svolta con i ragazzi delle scuole aquilane nel 2013, dopo il terremoto, ci ha consentito di osservare la comparsa dei prodromi di un’insicurezza ontologica (per dirla con Laing) di fronte a un evento ambientale spaventoso e traumatico.
Ma perché in condizioni non così chiaramente traumatiche, l’adolescenza diventa il luogo dove si può rischiare di stabilire relazioni annichilenti, umilianti passive? Il luogo dove si è esposti alla possibilità di sentire sé stessi come un oggetto dell’esperienza dell’altro e quindi di sentirsi prosciugare della propria soggettività? Perché per citare per la terza volta Sartre, dopo gli Altri e il Tempo l’adolescenza “diventa l’inferno”?
Dobbiamo tutti prenderci le nostre responsabilità nella creazione di una società in cui l’insicurezza ontologica e la descrizione dell’altro come spaventoso, incontrollabile, violento ed espropriatore della nostra soggettività è diventata la norma.
Abbiamo creato una società dell’impulso, un’era in cui il mercato è diventato una cosa sola con l’individualità, in cui il proprio impulso personale è immediatamente soddisfatto da Apple o da Netflix, da una carta di credito o da una app.
Come nonni e genitori postmoderni abbiamo creato per i nostri nipoti e figli una società pseudomoderna in cui l’ironia, la conoscenza e il gioco sono state sostituite dall’ignoranza, dal fanatismo e dall’angoscia.
Il mondo pseudomoderno così spaventoso e apparentemente incontrollabile, inevitabilmente conduce al desiderio di ritornare a giocare come bambini con giochi che caratterizzano il mondo culturale pseudomoderno. In questo mondo lo stato emotivo che ha radicalmente sostituito l’iperconsapevolezza ironica è la trance, lo stato, cioè, in cui la tua attività ti inghiottisce.
In questo tipo di società una transizione molto lunga dal periodo infantile alla vita adulta non viene più tollerata, infatti non assistiamo, come spesso si dice, ad adolescenze prolungate, ma a infanzie molto prolungate.
La mia impressione è che questa società sia sempre più intollerante nei confronti dell’adolescenza e delle trasformazioni e che, in alcuni casi di famiglie narcisisticamente vulnerabili, il percorso della soggettivazione inizi a rallentare progressivamente fin dall’infanzia per interrompersi alle soglie dell’adolescenza.
Un’assenza di adolescenza
Più che di una pseudoadolescenza forse dovremmo parlare di un’assenza di adolescenza? Come si deve lavorare con questi pazienti? Di certo non si deve colludere, come inizia a fare una certa psichiatria degli adulti e forse anche qualche neuropsichiatra infantile, con l’interdetto sociale contro lo sviluppo adolescenziale. Non si può, ad esempio, ridurre l’adolescenza ad un semplice periodo prodromico di patologie che esordiscono nel giovane adulto.
Dobbiamo sempre valutare il rischio di stare lavorando su una pseudoadolescenza o in assenza di adolescenza, in caso contrario si rischia di non cogliere gli aspetti regressivi, falsi o pseudomaturativi del paziente rischiando di mantenere in piedi una pseudopsicoterapia o uno pseudointervento integrato.
Non si può e non si deve evitare la diagnosi evolutiva, intesa anche nel senso che bisogna comprendere realmente a che punto sta il nostro paziente e quanto sia plastico, immodificabile, addirittura intrattabile.
C’è un altro aspetto che mi piace sottolineare nel momento in cui si lavora con pazienti adolescenti e con l’insicurezza ontologica e dell’ambiente. I pazienti di questo tipo istero-schizoidi devono sentire che il loro terapeuta s’impegna realmente e anche concretamente per loro, sono pazienti che hanno bisogno di realtà per fantasticare senza angoscia.
Possiamo tentare di sanare l’insicurezza ontologica e poi ributtare i nostri pazienti in una società insicura, terrorizzata, narcisisticamente folle?
Siamo così sicuri che i genitori dei nostri pazienti siano alleati con noi nel volerli fare crescere, nel volerli fare diventare adolescenti e poi donne e uomini?
Credo che queste pazienti e questi pazienti debbano sentire che siamo concretamente impegnati ad essere vitali, creativi e a cambiare le cose, insomma non devono sentire che il nostro studio o il nostro ospedale sia per noi un comodo rifugio come per loro sono le loro stanze, il loro mondo virtuale perché forse sentirebbero che anche noi siamo elusivi, abbiamo paura dell’altro e fuggiamo dalla realtà.