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numero 87 - maggio 2021

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Una vita cura una vita

Una vita cura una vita

recensione.jpg Franco Borgogno
Una vita cura una vita
Bollati Boringhieri, Pp. 142
Euro 24,00

Ho conosciuto Franco Borgogno – per meglio dire: i libri di Franco Borgogno – quando, in tempi ormai lontani, mi sono imbattuto in un suo magnifico testo, L’illusione di osservare (Giapichelli, Torino, 1978) con una Prefazione di Franco Fornari – recentemente aggiornato e ristampato dall’editore Rosenberg & Sellier di Torino.
Questo nuovo libro dello psicoanalista Franco Borgogno segue e si integra con un suo precedente scritto, Psicoanalisi come percorso (Bollati Boringhieri, Torino) pubblicato nel 1999, e si apre con un flash utile ad inquadrare l’autore: “lavoro come psicoterapeuta sin dal 1974 e come psicoanalista dal 1980. Per i primi dieci-dodici anni anche nei servizi pubblici, successivamente nel mio studio privato” (p. 9). Dunque, questo libro è un precipitato di vita e di esperienza clinica, arricchita dalle conoscenze teoriche e dall’intreccio degli scambi con i colleghi e con i pazienti (numerosissime le vignette cliniche, le storie terapeutiche, gli incontri tra persone prima ancora che tra professionista e paziente che sono narrati nelle pagine di questo piccolo libro).
Il primo capitolo inizia con il tema della vocazione e con i primi passi del percorso di vita (concreto e reale) che progressivamente unirà l’aspetto umano con quello professionale in una sorta di alfabetizzazione emotiva a cui il paziente è chiamato nella relazione, e invitato ad entrare in rapporto a diversi livelli. È nel quadro di questa speciale conversazione analitica (o più in generale psicoterapeutica, ma analiticamente fondata) che l’autore si propone di tratteggiare il clima che si poteva respirare tra Torino e Milano nel periodo compreso tra gli Anni Settanta e gli Anni Novanta nell’ambito della Società Psicoanalitica Italiana (capitolo secondo). Facendo questo Borgogno narra la propria costruzione come analista, propone ritratti di numerosi e importanti psicoanalisti italiani – come Stefania Manfredi Turillazzi, Luciana Nissim Momigliano e Giuseppe Di Chiara – riferisce di pazienti da lui seguiti, ma anche di alcune fasi delle proprie analisi nei panni del paziente, e offre uno spaccato dell’evoluzione teorico-clinica del pensiero psicoanalitico e delle prassi terapeutiche di quei tempi. Personalmente, tra gli Anni Settanta e Ottanta, ho avuto modo di essere molto vicino alla psicoanalisi avendo il privilegio di conoscere diversi suoi esponenti, da Emilio Servadio a Stefano Fajrajzen, dai Gaddini ai Traversa, e alcuni dei loro colleghi meno noti o semplicemente più giovani. L’opportunità di conoscere il mondo analitico romano (con qualche puntata verso la Milano musattiana) si concretizzò inaspettata all’inizio degli Anni Settanta perché mio padre, dirigente di banca, era diventato il miglior amico di Piero Bellanova: e sulla base di quelle frequentazioni decisi, ancora liceale, di iscrivermi a Medicina, scelta che poi si trasformò nell’iscrizione al corso di laurea in Psicologia, allora nascente. Sento quindi molto vicine le parole di Borgogno e il suo recuperare alla memoria tempi particolarmente carichi di entusiasmo. E’ trascorso parecchio tempo, ma è significativo tornare a quegli anni; come scrive Borgogno nel suo libro “spero con ciò che vi ho detto di avervi fatto respirare un po’ l’aria che circolava a Milano e Torino sul finire degli anni settanta e negli anni ottanta e novanta… e di avervi offerto uno spaccato vivo di alcuni dei protagonisti principali di quell’epoca, così importante per la storia e l’evoluzione della nostra psicoanalisi” (p. 64).
Il terzo capitolo potrebbe essere riassunto sottolineando tutto ciò che ruota intorno alle interpretazioni, con una serie di note e raccomandazioni circa il tenere viva l’attività terapeutica, evitando onniscienza ed onnipotenza, e vivendo la specificità dell’incontro con il paziente e della dimensione diadica. Con l’ultimo capitolo si entra ancora più decisamente nelle questioni dell’assetto mentale dell’analista e della necessità di rimanere legati ai fatti della clinica – cioè dell’incontro e della conoscenza terapeutica – con un intrigante approfondimento che ha come titolo L’analista giovane e l’analista anziano: qui si evocano le trappole della fretta, dell’insicurezza e dell’impazienza (nel voler aiutare il paziente), spesso complicate dalla costruzione di identità personali falsate e coperte dai tecnicismi che impediscono una comunicazione sanamente chiara e comprensibile, basata su quelle (generalmente poche) cose che, di seduta in seduta, emergono come significative perché utili alla maturazione del paziente.
Infine credo che sia importante un avvertimento, rivolto ai lettori (e ai terapeuti) più giovani. Nelle pagine di questo libro l’autore fa spesso riferimento a qualcosa che si potrebbe definire la cura attraverso l’amore, sulla scia del suo amato Sándor Ferenczi: ma questo non vuole assolutamente dire superare i confini del setting – o dei setting, al plurale, qualunque essi siano, cioè su qualunque teoria essi siano fondati – né che lasciarsi andare a un semplicistico voler bene al paziente possa essere confuso con una vera e propria terapia psicologica.