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numero 73 - dicembre 2019

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #73

Rassegna stampa #73

Musicoterapia di gruppo in pazienti depressi: funziona davvero?

Nel mondo occidentale si stima che soffra di depressione tra l’otto e il venti percento delle persone, il 20% delle quali soffre di depressione a lungo termine, ovvero ha sintomi da almeno due anni. Il trattamento della depressione è molto faticoso e può portare a pessimismo e demoralizzazione sia nel paziente che nel terapeuta. A tal proposito, in letteratura si hanno numerosi studi che evidenziano i benefici della musicoterapia nel trattamento della depressione: questo è vero soprattutto per la musicoterapia di gruppo, dove ai vantaggi derivanti dalla musicoterapia si uniscono quelli derivanti dalla rete sociale che si viene a creare. Per meglio comprendere questa possibilità, un team di ricercatori inglesi ha condotto uno studio su un campione di 30 persone affette da depressione a lungo termine; 20 partecipanti sono stati casualmente assegnati ai due gruppi sperimentali, che venivano sottoposti a 42 sessioni di musicoterapia di gruppo al mattino o alla sera della durata di 90 minuti con una frequenza di tre incontri settimanali, mentre i restanti 10 partecipanti costituivano il gruppo di controllo. I risultati hanno mostrato come gli effetti maggiormente benefici derivino più dalla dimensione gruppale che dalla musicoterapia in sé, evidenziando come variabile principale la coesione del gruppo. Anche la musicoterapia ha mostrato dei benefici legati principalmente alla sfera emotiva dei pazienti; i principali ostacoli riguardavano le competenze musicali che i partecipanti si riconoscevano prima di iniziare il percorso di musicoterapia: infatti, le persone che si attribuivano scarse competenze musicali presentavano delle difficoltà iniziali che venivano superate con il passare degli incontri. Per concludere, questo studio ha evidenziato come la partecipazione a gruppi di musicoterapia possa fornire dei benefici alle persone affette da depressione a lungo termine, soprattutto grazie alla dimensione gruppale e che tali benefici aumentano in persone che hanno una storia di vita maggiormente vicina al mondo musicale; per questo motivo, quindi, la musicoterapia di gruppo viene esplicitamente e fortemente consigliata a persone che soffrono di depressione che dichiarano di esser appassionate di musica, mentre per le altre persone la dimensione principale risulta essere la rete sociale che si viene a creare in questi incontri.

Windle, E., Hickling, L. M., Jayacodi, S., & Carr, C. (2020). The experience of patients in the synchrony group music therapy trial for long-term depression. The arts in psychotherapy, 67. 

 

Come misurare la sazietà nei neonati

Le persone che rispondono maggiormente agli stimoli derivanti dalla presenza di cibo piuttosto che alla sazietà sono a maggio rischio di obesità: nei bambini è complicato avere una valutazione della sazietà, dal momento che si basa su quanto riportato dai genitori, i cui giudizi sono ampiamente influenzati dal peso del bambino. Tale criticità viene risolta dal paradigma "mangiare in assenza di fare": i bambini vengono fatti giocare in una stanza piena di giocattoli e snack; in base a tale paradigma, il numero di snack mangiati valuta quanto i bambini mangiano in assenza di fame. Tre ricercatori statunitensi hanno provato ad applicare questo paradigma ai neonati: in particolare, valutano se i neonati a distanza di mezzora dall’ultima poppata, mostrano sazietà oppure assumono dell’altro latte. Per questo motivo hanno condotto uno studio su 54 diadi madre-figlio di età compresa tra 3 e 5 mesi, valutando se rifiutavano la seconda poppata o meno e misurando una serie di indicatori, come il peso corporeo e i risultati a test che valutavano il comportamento alimentare nei bambini. I risultati hanno evidenziato come i bambini che hanno rifiutato la seconda poppata erano figli di madri con un indice di massa corporea significativamente superiore rispetto a quello delle madri di bambini che hanno accettato la seconda poppata. Inoltre, questo sottogruppo di bambini che ha mangiato nuovamente a mezz'ora di distanza presentava dei valori significativamente superiori degli altri bambini in merito al questionario che misurava l’appetito e significativamente inferiori nella misura di sazietà. Non sono state osservate differenze statisticamente significative in altre variabili, come il titolo di studio della madre e il sesso. In sintesi, il modello proposto dagli autori sembra essere una valida metodologia per estendere il paradigma che valuta il cibarsi in assenza di fame, in modo tale da poter essere applicato anche con i neonati così da poter indagare in maniera semplice e standardizzata il loro comportamento alimentare, predittore di outcome importanti come l’obesità infantile e adulta.

Bahorski, J. S., Schneieder-Worthington, C. R., & Chandler-Laney, P. C. (2020). Modified eating in the absence of hunger test is associated with appetitive traits in infants. Eating behaviors, 36.

 

Cosa misura veramente la fluenza verbale?

I compiti di fluenza verbale forniscono indicazioni in merito a difficoltà comunicative e cognitive. Nonostante ciò, non sono del tutto chiare le abilità necessarie ad ottenere una buona performance in questi compiti: per questo motivo, due ricercatori hanno condotto uno studio su 380 persone di età compresa tra 5 e 91 anni al fine di meglio comprendere le competenze sottostanti ai compiti di fluenza verbale. Hanno quindi somministrato delle misure di memoria verbale e numerica e di di fluenza verbale, distinguendo tra campione di bambini e di adulti dal momento che sono emerse delle differenze statisticamente significative tra i due gruppi. Per quanto concerne la fluenza fonemica, nei bambini è emerso come i predittori statisticamente significativi fossero l’età e la memoria verbale, mentre non risultata significativa l’influenza della memoria numerica. Negli adulti, l’età non risultava essere un predittore significativo, mentre lo erano il titolo di studio e entrambe le misure di memoria. Per quanto riguarda la fluenza semantica nei bambini sono stati ottenuti gli stessi risultati, mentre negli adulti sono risultati dei predittori statisticamente significativi l’età, il titolo di studio e la memoria verbale ma non la memoria numerica. Per concludere, i risultati di questo studio mostrano come le misure di fluenza verbale dipendano dalla memoria verbale ma non dalla memoria numerica, misurata attraverso prove di digit span, sia negli adulti che, soprattutto, nei bambini. Questi risultati, quindi, risultano essere in linea con il modello CHC dell’intelligenza, dove i compiti di fluenza verbale e di memoria verbale fanno parte della stessa abilità di memoria a lungo termine. Per questo motivo, il ricordo di nuove informazioni e quello di informazioni già presenti in memoria sembrano soggiacere a differenti capacità e non possono essere considerate parti delle stesse abilità: alla luce di ciò, quindi, acquista ancora maggior importanza disporre di misure per la valutazione della fluenza verbale nei bambini e negli adulti, senza poter utilizzare solo misure legate alla memoria verbale.

Kave, G., & Sapir-Yogev, S. (2020). Associations between memory and verbal fluency tasks. Journal of communication disorders, 83.

 

Che relazione c’è tra titolo di studio e intelligenza?

È ormai ben nota la correlazione tra il titolo di studio e i punteggi ai test di intelligenza: in particolare, un recente studio ha mostrato un aumento di 3.4 punti di QI per ogni anno di studio delle persone. L’importanza di questa relazione è lampante: infatti, le misure di intelligenza correlano positivamente con numerose variabili come le capacità di apprendimento, la performance scolastica e lavorativa, la salute mentale e fisica, e la longevità. Nonostante ciò, non si hanno delle chiare evidenze circa la possibilità di estendere questa relazione anche a persone che hanno dei titoli di studio molto elevati: ad esempio, l’aumento di 3.4 punti di QI si applica anche agli anni di studio post-universitari? Per comprendere meglio la relazione esistente tra titolo di studio e punteggi ai test di intelligenza, un gruppo di ricercatori danesi ha condotto uno studio su un campione molto ampio di persone  ponendo l’attenzione sul loro titolo di studio e sul punteggio all’Intelligence Structure Test 2000-R (IST 2000-R) che fornisce la misurazione del QI delle persone, somministrandolo più volte nel corso degli anni. I risultati hanno confermato l’associazione positiva tra titolo di studio e punteggi di intelligenza, sia quando il QI è stato rilevato nell’adolescenza che in età adulta. Il risultato più rilevante riguarda il punteggio di QI ottenuto dai partecipanti all’età di 12 anni: questo è risultato essere un mediatore di tale associazione; in altre parole, i bambini che a 12 anni mostravano bassi livelli di QI erano quelli che vedevano aumentare il proprio QI in maniera maggiore rispetto agli altri per ogni anno di studio. Viceversa, tale incremento risultava inferiore nei bambini che a 12 anni mostravano dei punteggi elevati di intelligenza. Inoltre, gli studiosi hanno evidenziato come frequentare dei corsi in età adulta produca dei miglioramenti nei punteggi di QI, anche se in misura minore: l’associazione tra punteggio QI e titolo di studio, quindi, non si esaurisce con l’adolescenza ma prosegue anche in età adulta, con un aumento stimato di 1.3 punti QI per ogni anno di studio in età adulta. In sintesi, questo studio condotto con una metodologia molto rigorosa, seguendo nel tempo un gran numero di persone, ha confermato la relazione tra titolo di studio ed intelligenza mostrando come questa sia maggiormente rilevante in bambini con bassi livelli di intelligenza, attestando, infine, come tale vantaggio continui anche in età adulta.

Rune Hegelund, E., Gronkjaer, M., Osler, M., Dammeyer, J., Flensborg-Madsen, T., & Lykke Mortensen, E. (2020). The influence of educational attainment on intelligence. Intelligence, 78.