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numero 67 - maggio 2019

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #67

Rassegna stampa #67

Italia e NEET: una prospettiva decennale del fenomeno

Nel Regno Unito a partire dagli anni ‘90 si è cominciato a porre attenzione ai giovani che non sono inseriti in nessun percorso di istruzione, formazione e disoccupati, i NEET (Not In Education, Employment And Training) (SEU, 1999). Essere NEET significa essere improduttivi e non migliorare il proprio capitale umano. Le cause possono essere molteplici, come fattori socio-economici individuali e familiari, il drop-out scolastico, e sicuramente la crisi economica ha aumentato le difficoltà per i giovani senza esperienza di trovare un impiego. Nel 2016 i NEET tra i 15 e i 29 anni in Italia erano 2.2 milioni. L’ISTAT ha monitorato la situazione italiana e i dati raccolti tra il 2007 e il 2017 registrano valori crescenti sia per la fascia di età 15-24 che per quella 25-34, raggiungendo un aumento del 91% per gli uomini in entrambe le fasce e rispettivamente del 105% e del 61% nelle donne. Suddividendo la popolazione NEET per titolo di studio, la categoria con percentuali di incidenza più alte è quella dei diplomati.
È stata condotta un’analisi di regressione per individuare i fattori di rischio di diventare NEET. È emerso che le donne hanno una probabilità più alta, soprattutto nella fascia di età 25-34, nella quale spesso subentrano impegni familiari; così anche per gli stranieri, che hanno grandi difficoltà a trovare un impiego. Per quanto riguarda il titolo di studio, la probabilità di diventare NEET per i diplomati  è aumentata nelle stime del 2017, così come anche quella per i laureati. Essere coniugati o separati diminuisce il rischio di disoccupazione, probabilmente perché c’è la necessità di contribuire al reddito familiare. Sorprendentemente, l’aver contattato un centro per l’impiego aumenta di circa il 20% la probabilità di essere NEET.

Brunetti, I., & Ferri, V. (2018). Essere NEET in Italia: i principali fattori di rischio. Rivista Italiana di Economia Demografia e Statistica, Vol. LXXXII (2).

 

IL CONSUMO DI AmED: quali sono i rischi?

Gli energy drink sono sempre più popolari tra adolescenti e giovani adulti, perché grazie agli alti dosaggi di caffeina permettono di avere migliori prestazioni psicofisiche o di studio. Parallelamente però queste bevande vengono consumate in drink alcolici e molto spesso i casi di intossicazione alcolica riguardano ragazzi minorenni. Il successo di questi drink è probabilmente dovuto al fatto che la bevanda energetica contrasta gli effetti depressivi dell’alcol e riduce la percezione del proprio tasso alcolemico, portando l’individuo a sovrastimare le proprie capacità psicofisiche e quindi ad adottare più facilmente dei comportamenti a rischio. Un’analisi di sei revisioni sistematiche è stata condotta al fine di verificare i danni che le bevande alcoliche con energy drink causano rispetto all’alcol. I risultati ottenuti mostrano che l’assunzione di AmED (alcholic beverages mixed with energy drinks) aumenta lo stato di vigilanza, riduce la sedazione ma non ha effetti cognitivi o psicomotori diversi da quelli conseguenti al consumo di alcol. Sono risultate insufficienti le prove a favore delle tesi di diminuzione di percezione dell’intossicazione, e non c’è stato accordo sui dati riguardanti la spinta a una maggior assunzione di alcol o all’adozione di comportamenti a rischio. Data la portata del fenomeno è consigliabile sollecitare ricerche in questo campo, condotte da ricercatori indipendenti che non abbiano conflitto di interesse con i produttori di ED, per poter progettare politiche di prevenzione e intervento adeguate.

Lusignani, L. G. R. M. (2018). Conseguenze del consumo di alcol miscelato ad Energy Drink. Overview di revisioni sistematiche.

 

Metodo Rorschach per la valutazione dell’obesità

L’obesità è il risultato di molteplici fattori causali, di tipo genetico, sociale, culturale e psicologico. Questi fattori scatenanti possono essere i medesimi che la mantengono. Nel caso dei fattori psicologici capire se si tratta di emotività non espressa, di autostima, insoddisfazione di sè, controllo dell’emotività ecc è fondamentale per poter conoscere la personalità dell’individuo e progettare un intervento personalizzato. Concentrarsi soltanto sul calo ponderale infatti sarebbe un grave errore e porterebbe facilmente ad una ricaduta del soggetto nelle “vecchie abitudini” alimentari.
In questo studio a 10 donne, in attesa di o dopo l’intervento di chirurgia bariatrica, è stato sottoposto il test di Rorschach in un ambulatorio a Palermo. È stato scelto questo strumento perché in quanto test proiettivo può rilevare il profilo psicologico senza passare attraverso il lato consapevole del soggetto e fornisce anche una rappresentazione dell’immagine di sé. È emerso dai dati raccolti che il ricorso all’iperalimentazione da parte dei pazienti è un modo di colmare un vuoto dato da sentimenti di disvalore e disagio verso se stessi e il proprio corpo. Tutti i pazienti però dimostrano un buon adattamento sociale e un buon esame di realtà, elementi che vanno sottolineati insieme alle altre risorse dell’individuo, per sostenerlo e accompagnarlo nel processo di cambiamento dei pattern comportamentali disfunzionali e dannosi. Chiaramente questo studio ha un campione molto limitato ma nell’intervento con una persona obesa cogliere le sue sfumature personologiche è determinante per le probabilità di successo, e il Rorschach si dimostra essere adatto a tale compito.

La Grutta, S., Epifanio, M. S., Iozia, N. M., Marino, A., & Baido, R. L. (2018). Il metodo Rorschach per la valutazione dell’obesità: studio clinico su un gruppo di donne obese. Rivista di Psichiatria, 53(1), 53-59.

 

Dipendenza da smartphone: tra problematiche della comunicazione e disturbi psicologici

Con il passare degli anni l’approccio alla tecnologia avviene in età sempre più giovane e ciò può creare delle distorsioni delle capacità comunicative del soggetto e ostacolare la comprensione della necessità di mantenere degli spazi intimi, e di mantenere certe informazioni private. Sempre più spesso si assiste al fenomeno del phubbing, ossia un atteggiamento di distacco dalla situazione sociale presente per controllare e utilizzare il proprio smartphone. Trascorrere molte ore sui dispositivi mobili può portare a problematiche posturali (dolori al collo e alla parte superiore della schiena) ma anche di tipo cognitivo e comportamentale; in alcuni casi si può riconoscere i tipici atteggiamenti della dipendenza. Secondo alcuni autori, chi abusa della tecnologia soffrirebbe di un senso di isolamento, depressione e ansia e svilupperebbe delle connessioni neurologiche simili a quelle della dipendenza da oppioidi: In questi studi è stato anche notato come questo uso smodato possa portare a conseguenze di performance di studio e lavoro, favorendo quindi l’improduttività del soggetto. Per tentare di arginare la diffusione di questo atteggiamento e ridurne le conseguenze, esistono diverse proposte: monitorare attraverso timer il tempo di utilizzo ponendosi dei limiti giornalieri, utilizzare la modalità bianco e nero del display, che attira meno l’attenzione, o tornare ad usare dispositivi di vecchia generazione; attuare dei comportamenti di “disconnessione” cercando di riconoscere la propria dipendenza e rafforzando legami e attività in contesti fisici reali, e infine l’utilizzo di alcune app che analizzano i tempi e i modi di utilizzo e sulle quali possono essere impostati dei limiti. È importante accrescere la consapevolezza sui danni che può avere questa dipendenza e intervenire sui giovani per potenziare le capacità di comunicazione vis à vis.

Giansanti, D. (2018), Dipendenza da smartphone: tra problematiche della comunicazione e disturbi psicologici. Centro Nazionale Tecnologie Innovative in Sanità Pubblica, 18, 32-38.